sabato 28 aprile 2018

IN MEMORIAM




Giotto, Strage degli innocenti, Cappella degli Scrovegni, Padova
 “Summa lex, summa iniuria" (Cicerone) e questo lo proviamo anche noi oggi, dopo una violenza così smisurata e atroce con la quale il sistema sanitario britannico ha negato l'ultima speranza ad Alfie Evans
Ma non sarà la sentenza di un giudice, né l’azione di un governo, né la decisione di un ospedale a cambiare la verità e il bene. La sentenza inglese e quanto ne è seguito e ne segue non tengono conto né della verità né del bene, ma così ne testimoniano ugualmente, in forma negativa, la necessità e l’urgenza. 

La società che ha condannato a morte Alfie ha vita breve, bisogna continuare a preparare il futuro.
Invito a fare memoria  di Alfie  ascoltando il secondo tempo della settima sinfonia di Beethoven.


TUTTO QUESTO È FOLLE!



 PARLA IL MEDICO CHE HA VISITATO ALFIE EVANS

«In Germania un bambino nelle sue condizioni sarebbe a casa già da un anno», dice il professore Nikolaus Haas. Lo stesso che il giudice Hayden ha attaccato citando a sproposito papa Francesco


Ieri il quotidiano tedesco Die Welt ha pubblicato sul suo sito una intervista al professor Nikolaus Haas, direttore del dipartimento di Cardiologia pediatrica e terapia intensiva all’ospedale dell’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, che secondo il giornale è «furioso» per il caso di Alfie Evans. Il professor Haas «ha visitato personalmente» il bambino e le sue valutazioni sono agli atti del processo che ha sancito la sospensione dei sostegni vitali per il piccolo paziente dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool. Come ha ricordato su tempi.it Assuntina Morresi, è proprio per rispondere alla sua perizia che il giudice Anthony Hayden ha pensato bene di citare una frase di papa Francesco sul fine vita. Il magistrato aveva trovato «provocatorio e inappropriato» il seguente argomento utilizzato da Haas: «Per via della nostra storia in Germania, abbiamo imparato che ci sono cose che non bisogna fare con bambini fortemente handicappati. Una società deve essere pronta a prendersi cura di questi bambini molto handicappati, e non decidere che i sostegni vitali siano interrotti contro la volontà dei genitori, se non c’è certezza di cosa sentano i bambini, come in questo caso».

IL CONTATTO. Con la Welt, il professore ricostruisce il suo coinvolgimento nella vicenda. «La famiglia ci ha contattato», racconta Haas, dopo che «i medici avevano detto loro che non volevano fare più niente per il bambino e intendevano sospendere i sostegni vitali. Ai genitori era stato vietato anche il trasporto in un altro ospedale, per la ragione che il bambino era troppo malato e la cosa lo avrebbe messo in pericolo». Così i genitori, prosegue il medico tedesco, hanno cercato un servizio di trasporto adatto ai pazienti come Alfie, trovandolo presso la struttura di Monaco, che possiede la tecnologia adatta, secondo Haas, per trasportare bambini in terapia intensiva di tutte le età in tutto il mondo. «Gli inglesi non ce l’hanno un servizio del genere?», domanda il giornalista. «Certo», risponde Haas. «Ma non vogliono che la famiglia Evans lo utilizzi».

IL RIFIUTO. I colleghi di Liverpool, però, da subito si sono mostrati mal disposti verso i tedeschi. Appresa la richiesta, da parte dei genitori di Alfie, di un consulto dei tedeschi (finalizzato all’ipotesi del trasporto), «l’ospedale ha detto apertamente: non vogliamo che un altro medico visiti il bambino. Perciò la famiglia ha deciso di portare dentro il signor Hübner [aiuto primario di Haas, ndr] come un amico». Peccato che quando l’équipe locale ha scoperto che si trattava di un professionista, «si è rifiutata di parlargli». Dunque Hübner ha visitato Alfie per conto proprio e ha potuto vedere solo «la documentazione clinica che gli hanno messo a disposizione i genitori».

FIT TO FLY. Fortunatamente il medico di Monaco, secondo il suo superiore, aveva abbastanza esperienza per farsi un’idea corretta senza bisogno di compulsare troppe carte. Ebbene, secondo Hübner «Alfie Evans all’epoca era del tutto stabile», lo stesso stato che Haas successivamente ha potuto verificare di persona. «Alfie era ventilato in modo corretto, non si muoveva, aveva solo crisi epilettiche occasionali. Perciò il signor Hübner ha messo per iscritto: il bambino è “adatto al volo” [fit to fly, ndt]. Ma questo naturalmente all’ospedale non è piaciuto affatto». Dopo di che sono seguiti i passaggi che tutto il mondo conosce. Le offerte di ricovero da strutture di diversi paesi esteri. La cittadinanza italiana. Gli appelli del Papa. «E adesso un giudice dice che gli Evans possono andare a casa, ma non possono lasciare il paese per far curare il bambino altrove a proprie spese? Tutto questo è folle!», osserva Haas.
 
Il dott. Haas e la sua equipe
«QUALUNQUE GRANDE CLINICA…». In Germania, un caso incurabile come Alfie Evans sarebbe seguito anche dopo l’esclusione di ogni possibile terapia, spiega Haas al quotidiano. «Questi pazienti non devono restare nell’unità di terapia intensiva, tuttavia devono essere curati al meglio». Che questo avvenga in una struttura specializzata o a casa dipende dalla volontà dei genitori, dice il medico. Quello di cui avrebbe bisogno Alfie una volta fuori dall’ospedale sono procedure e attrezzature «standard» secondo Haas: «Qualunque grande clinica pediatrica ha dozzine di bambini in situazione simile, che sono altrettanto gravemente disabili e perciò sono assistiti in casa di cura o in famiglia. È pura routine. In Germania per la nostra valutazione Alfie sarebbe a casa già da un anno con una assistenza del genere».

LA VACCA SACRA. Riguardo al motivo per cui tutto questo nel sistema britannico non è possibile, «io posso solo fare speculazioni», spiega il professore. «Per come l’ho capita io, il National Health Service è la vacca sacra in Inghilterra. I medici dicono: quello che facciamo noi è giusto, punto. E poi ovviamente il trattamento di un paziente intensivo di questo tipo all’esterno della clinica costa circa tre volte quanto costerebbe all’interno. Se si crea un precedente, si scatena una valanga che comporta costi notevoli».

IL DOVERE DELLA SOCIETÀ. Per Alfie Evans, conferma Haas, non ci sono speranze di miglioramento, dal punto di vista medico, «e probabilmente non c’è nessuna terapia che possa guarirlo. La domanda è però come comportarsi con lui fino alla fine della sua vita. E nessuno sa nemmeno quanto a lungo potrebbe vivere. Con il sostegno adeguato potrebbe vivere ancora sei mesi, forse di meno, forse di più. In Germania – ma anche in altri paesi del mondo – diremmo soltanto: “Come andare avanti con lui, è anche una decisione personale della famiglia”. Se i genitori dicono di volere accompagnare il processo di morte del bambino a casa loro, allora una società deve essere in grado di renderlo possibile e di accettarlo. Tanto più se non ha altro da offrire». In Inghilterra e in particolare nel caso di Alfie, invece, «il sistema dice: noi abbiamo sempre ragione ed è meglio che questo bambino muoia, piuttosto che se ne occupi qualcun altro. Per me questo non è comprensibile», insiste Haas.

«DOV’È LA LOGICA?». Il professore tedesco nota anche qualche «interessante» contraddizione nella posizione dei colleghi di Liverpool, per altro fatta propria dalla sentenza del giudice Hayden: «Dicono che il paziente sia in uno stato neurovegetativo. Questo significa che non riceve stimoli dal suo ambiente e non prova nemmeno dolore». Ma quindi «dov’è la logica?», si domanda Haas. Perché sarebbe nel suo interesse impedire ai genitori portarlo altrove per provare altre strade? «Se non prova alcun dolore, che cosa si può fare di sbagliato?». Eppure, concede il professore, lo stato della medicina dei bambini in Inghilterra è «eccellente». 

Ma rispetto alla Germania c’è una differenza di «impostazione», soprattutto nei casi di disabilità grave come quello di Alfie Evans. «Credo che la nostra visione etica sia diversa, grazie a Dio». Quello che per Haas è proprio «inconcepibile» è la logica in base alla quale per il bambino sarebbe meglio morire, e che il sistema sanitario non voglia sentire ragioni diverse.

LA LEZIONE DI ALFIE



Centro Studi Rosario Livatino
Oggi l’accanimento non è terapeutico, ma per la morte. E non è un problema soltanto inglese
Aprile 28, 2018 


Alfie Evans, grave disabile di 23 mesi, in continuità con quanto da oltre 15 anni viene praticato in Belgio e in Olanda, ha raccontato oltre ogni dubbio che oggi il criterio decisivo nei confronti di chi soffre non è più nemmeno l’autonomia o l’autodeterminazione, bensì la convenienza sanitaria e sociale di sopprimere una vita qualificata come inutile.
Marc Chagall, Blue Angel
Dal suo lettino Alfie, pur non parlando, ha mostrato che il vero accanimento oggi esistente non è quello c.d. terapeutico, ma è quello per la morte, che passa per le aule di giustizia di ordinamenti formalmente democratici.

E che il dibattito non è fra chi ha pietà e chi non ne ha: il dibattito è fra chi lascia l’individuo solo nelle mani dello Stato e chi sa che per vivere è necessaria la speranza, specie nelle prove, come hanno testimoniato i suoi genitori.

Non è un problema solo inglese: non trascuriamo che in Italia la legge 219/2017 riconosce, ai fini della permanenza in vita, “disposizioni” date “ora per allora”, qualifica cibo e acqua come trattamenti sanitari, se somministrati per via artificiale, contiene norme pericolose per i minori e per gli incapaci, nega l’obiezione di coscienza ai medici e obbliga anche le strutture non statali. Riprendendo peraltro quanto già affermato dalla giurisprudenza nel caso Englaro.

La speranza – dei pazienti, dei parenti, di chi li affianca con generosità – non la danno né lo Stato né i giudici né la legge: possono però oltraggiarla e schiacciarla, come è accaduto da ultimo a Liverpool. Il piccolo Alfie sollecita tutti a impedire che ciò avvenga.


venerdì 27 aprile 2018

LA SOCIETÀ CHE HA CONDANNATO ALFIE EVANS HA VITA BREVE. BISOGNA CONTINUARE A PREPARARE IL FUTURO.

Gustav Vigeland, Vigeland Park Oslo
Nelle vicende accadute al piccolo Alfie Evans, che tutti seguono con grande apprensione e partecipazione, colpisce e preoccupa il fatto che i comportamenti corretti da assumere fossero molto chiari e che, nonostante ciò, ci si sia accaniti a non metterli in atto. In questo caso il giudizio morale si imponeva senza molti margini di discrezionalità: la vita del bambino doveva essere salvata e tutti gli interessati, familiari e personale sanitario, avrebbero dovuto aiutarlo a vivere, pur nella estrema precarietà della sua situazione clinica. Certo, la situazione era ed è complessa, per il convergere di tante situazioni di tensione emotiva, di pena e di umana compassione. Mal dal punto di vista del giudizio morale non era e non è complessa, in quanto si dà il dovere di aiutare a vivere. Né gli interventi medici nei suoi confronti erano qualificabili come accanimento terapeutico. A maggior ragione, quindi, stupisce e preoccupa l’atteggiamento di non tenere conto di queste elementari considerazioni di buon senso etico e di costruire degli artificiosi e contradditori paradigmi morali secondo i quali il “bene” del bambino avrebbe dovuto consistere nella sospensione della ventilazione, ossia nella sua morte. Come provocare la morte possa essere fatto in vista del “bene” di un bimbo innocente rimane una contraddizione logica ed etica difficile da spiegare.
C’è poi un altro elemento in questa triste vicenda che risulta molto chiaro al buon senso naturale, vale a dire che lo Stato, nemmeno tramite le sue magistrature come sono i giudici nei tribunali, può sostituirsi al diritto naturale. La sentenza che ha ordinato la morte di Alfie tramite un atto eutanasico non ha rispettato il diritto naturale almeno in due punti: ha decretato la morte di un innocente, cosa che la coscienza di tutti i popoli ha sempre condannato come immorale, e ha sottratto il bambino alla potestà dei genitori, affidandolo allo Stato che, in qualche modo, è diventato “padrone” del piccolo. Si tratta di due aspetti molto preoccupanti, che gettano una luce torva sul futuro di noi tutti. Lo Stato, attraverso i suoi magistrati, e nonostante la legge britannica non preveda l’eutanasia per i minori, si è sostituto alla volontà dei genitori, ha come segretato il bambino, ha impedito il suo trasferimento e infine ha messo in atto la sospensione della ventilazione. E’ chiaro che un simile potere non può appartenere a nessun Stato e se così fosse tutti sarebbero in pericolo.
Il giudizio morale da darsi e il corretto comportamento da assumere erano e sono quindi chiari e privi di incertezze. Proprio questo però rende molto allarmante il fatto di non averli seguiti. Ciò sta a significare che in questo caso si è perso il contatto con la realtà e la coscienza, con le verità del senso comune, dimenticando cosa sia il bene in senso oggettivo. Più le verità sono ovvie e più preoccupa se non vengono rispettate e seguite perché significa che le nostre categorie mentali e morali stanno cambiando in peggio.
Davanti a simili fatti, chi si occupa di Dottrina sociale della Chiesa, di giustizia e pace nella società umana, sperimenta come un fallimento. Nel lettino del piccolo Alfie tutti i principi della Dottrina sociale della Chiesa sembrano naufragati. Il bene comune svanisce se si uccide un innocente, non come fatto accidentale ma come obiettivo voluto e ufficialmente decretato dall’autorità. Non c’è sussidiarietà se lo Stato si impossessa di una bimbo sottraendolo ai genitori. Non c’è solidarietà se il bene di Alfie è stabilito da un giudice secondo le proprie categorie di qualità della vita. Non c’è scelta preferenziale per i poveri se è proprio un povero bambino ad essere assassinato. Non c’è dignità della persona umana se la vita viene così calpestata. La sentenza su Alfie ha eliminato il diritto naturale, ha fatto piazza pulita del diritto a fare obiezione di coscienza, ha raso al suolo il concetto di oggettività del bene. Rimane solo l’oggettività del potere del nuovo Leviatano. Anche a tutto ciò si sono opposti coloro che, in varie forme, hanno manifestato la loro solidarietà al piccolo Alfie e alla sua famiglia, tra cui anche il Santo Padre Papa Francesco.
Ma non sarà la sentenza di un giudice, né l’azione di un governo, né la decisione di un ospedale a cambiare la verità e il bene. La sentenza inglese e quanto ne è seguito e ne segue non tengono conto né della verità né del bene, ma così ne testimoniano ugualmente in forma negativa la necessità e l’urgenza. La società che ha condannato a morte Alfie ha vita breve, bisogna continuare a preparare il futuro.

mercoledì 25 aprile 2018

COSÌ ALFIE HA SVELATO I PENSIERI DI MOLTI CUORI



 Renzo Puccetti

Michela Marzano, laureata alla Normale di Pisa, docente di filosofia all’Université Paris Descartes, già parlamentare del Partito democratico, poi abbandonato in polemica con la mancata inclusione della stepchild adoption alle coppie dello stesso sesso civilunite, non ha mancato di fare conoscere al mondo il suo pensiero sulla vicenda del piccolo Alfie Evans, il piccolo paziente inglese a cui tutti i tribunali della terra hanno decretato che è il suo interesse morire.


Contro questo piano un popolo si è alzato in piedi, alcuni per mettersi in ginocchio e pregare con l’intenzione di sfondare il Cielo, altri mettendo a disposizione quello che sapevano fare, la penna, il diritto, l’organizzazione. Questo movimento ha alla fine mosso i ministri del governo italiano il quale ha deciso in extremis di conferire la cittadinanza italiana al piccolo bambino di 23 mesi.

Sulle colonne del quotidiano La Repubblica la filosofa Marzano, (IN UN ARTICOLO RIBUTTANTE, ISTERICO E SARCASTICO nota del Crocevia)   ha bollato come «incomprensibile» la cittadinanza ad Alfie. Per la docente di filosofia la vita di quel piccolo paziente «dipende solo dall’accanimento terapeutico», essendo «tenuto in vita solo dalle macchine». Come fa una filosofa ad ostentare una tale certezza? Semplice, «non c’è ragione di opporsi al parere medico in base al quale tenere in vita Alfie significa infliggergli ulteriore dolore», dice. La filosofa che insegna a Parigi dà vita nel suo intervento ad un mappazzone dove mescola «ius soli», «populismo», «diritto di accesso all’Ivg» e diagnosi su Alfie (per la Marzano è un bimbo in fin di vita).

Leggendo che la Marzano discetta di clinica neonatologica, da medico e bioeticista mi sento autorizzato ad un piccolo sconfinamento in agro alieno e citare un filosofo che può prestarsi ad una varietà di contesti: «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere». È la settima ed ultima proposizione del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, volutamente lasciata dall’autore senza commento. Ero un giovane medico, una paziente di mio padre fu ricoverata nel mio reparto, la diagnosi era tremenda: metastasi pleuriche di recidiva di carcinoma mammario. La figlia mi domandò cosa ci si poteva aspettare ed io, molto incautamente, le risposi che ci si doveva attendere la morte entro qualche mese. Ero giovane ed inesperto. Quella donna, la cui diagnosi era certa e che sarebbe dovuta passare a miglior vita così velocemente, visse ancora 12 anni. Quel caso mi insegnò quanto possa essere incerta la prognosi.

Ma ad Alfie i medici inglesi non hanno mai posto una diagnosi, in sua assenza fare previsioni e spacciarle per certezze è indice di inadeguatezza o presunzione stupefacenti, che stupiscono ancor più se a promuoverle è chi del rigore metodologico dovrebbe essere conoscitore e custode. Se, come dice la Marzano, Alfie è vivo solo grazie alle macchine, se è in fin di vita, se sopravvive solo attraverso l’accanimento terapeutico, com’è che ora che nessuna macchina lo sostiene più da oltre 16 ore, egli continua ad essere vivo? Se non c’è ragione di dubitare dei medici inglesi, com’è che Alfie riesce a respirare nonostante sia stato staccato dal ventilatore senza alcun tentativo di svezzamento? Com’è che le previsioni di una morte rapida non si sono verificate?

Hanno raccontato che morire era il best interest di Alfie, e l’unica sofferenza gliel’hanno procurata i medici rimuovendogli il sostegno ventilatorio. Hanno raccontato che trasportarlo avrebbe potuto peggiorare la sua situazione, ma se lo avessero lasciato andare a quest’ora Alfie sarebbe già da un pezzo in un lettino del Bambin Gesù.

O i medici che hanno gestito Alfie hanno detto una colossale piramide di fregnacce, oppure in queste ore si è svolto davanti ai nostri occhi qualcosa di miracoloso. O forse ancora si sono verificate entrambe le cose. Se c’è qualcosa per me d’incomprensibile, è l’ostinata e ideologica negazione della realtà quando questa dimostra la fallacia e la mendacia della teoria.

Se la Marzano vuole sostenere che ha ragione il giudice Hayden a dire che la vita di Alfie è futile, lo dica chiaramente e con convinzione, difendendo filosoficamente l’esistenza  della categoria di vite immeritevoli di vita. Abbia il coraggio di affermare che sì, seppure con i mezzi limitati allora a disposizione e per fini forse non sempre condivisibili, il programma eutanasico nazista ha comunque evidenziato la qualità di vita come indicatore del migliore interesse. Si dimostri filosoficamente virile e disponibile alla disputa da cui non ci sottraiamo.
L’esercito di Alfie ha certezza che la vita di quel bambino, così come quella di ogni essere umano, non è futile. Sostenuto da suo padre e sua madre è da milioni di persone nel mondo, questo piccolo bambino ha svelato i pensieri di molti cuori in una maniera così evidente che né io né la Marzano potremo mai sognare di emulare e con la sua enorme fragilità ha tirato fuori la nostra parte migliore, la nostra umanità.

Contra factum non valet argumentum.
TRATTO DA TEMPI

venerdì 20 aprile 2018

GENTE DI NESSUNO?


ALFIE EVANS E TUTTI NOI
LEONARDO LUGARESI
In uno dei passi più tenebrosi – e perciò più luminosi all'intelligenza cristiana della realtà – dei Promessi sposi, nel capitolo XI, don Rodrigo, mentre si accinge a portare alle estreme conseguenze la gran porcata che sta facendo a Lucia e a Renzo, affronta tra sé e sé la paura che il suo comportamento gli ispira e si conforta con queste parole: «Chi si cura di costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno».
Papa Francesco col padre di Alfie Evans
Così pensa il potere mondano, e così parla quando non finge: quando non ciancia più di “dignità umana”, “valori”, “diritti inalienabili” e “democrazia”, e bada solo alla forza. Chi non ha «neanche un padrone» non è niente, è «gente di nessuno». Da soli, siamo tutti “gente di nessuno”, agli occhi dei padroni del mondo. Come Alfie Evans, che è un piccolo bambino malato, e i suoi genitori che sono poco più che ragazzi, siamo anche noi che siamo adulti, e ci crediamo “scafati”; noi che contiamo puerilmente sulle risibili sicurezze della nostra posizione nella società, dei nostri soldi, delle nostre relazioni. Di fronte al Potere, siamo gente di nessuno.
Ieri è stata una giornata importante, per la chiesa e per il mondo, perché il Papa ha infine ricevuto il babbo di Alfie e ha pronunciato pubblicamente queste parole: «Attiro l’attenzione di nuovo su Vincent Lambert e sul piccolo Alfie Evans, e vorrei ribadire e fortemente confermare che l’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio!». Sono esattamente le parole che era necessario dire, e che spettava primariamente a lui dire.
Ha chiamato Dio padrone. Ora, “padrone” è una parola aborrita dal linguaggio contemporaneo, fuori e dentro la chiesa. “Né Dio né padrone” è stato lo slogan della rivolta moderna, la cifra della componente anarchica presente un po' in tutte le utopie con cui gli uomini si sono illusi negli ultimi duecento anni. Una parola cruda, che non è educato usare nella conversazione civile e che è quasi sparita anche dal lessico politico. Eppure, se guardiamo alla sostanza delle cose, possiamo forse dire che di padroni, al mondo, non ce ne sono più?
Il papa ieri ha usato quella parola, per ricordare una gran verità che i cristiani hanno da annunciare al mondo: che gli uomini un padrone ce l'hanno, ed è il Signore, Dio onnipotente, eterno e infinitamente buono. Hanno un padrone e proprio per questo non ne hanno altri. So che oggi nella chiesa si preferisce usare un altro linguaggio: si prefersice dire che Dio è padre (anzi è anche madre), è un amico che si è fatto come noi, uno di noi, per amarci e per servirci, e quando è la festa di Cristo re, tutte le omelie di tutte le messe si affrettano a spiegare che sì, Gesù è re, ma non proprio un re, non come i re della terra, e il suo modo di regnare è squello di servire e offrire la sua vita per noi ... Tutto giusto e tutto vero.
Però una chiesa che vuol essere missionaria (o “in uscita”, come oggi si usa dire) deve imparare anche a parlare il linguaggio del mondo, se vuole farsi capire. E non solo quello di superficie, ma anche quello profondo. A gente come noi, che, in fondo in fondo, la pensa come don Rodrigo, bisogna saper dire chiaro e forte quello che il papa ha detto ieri: che l'unico padrone della vita è Dio. Quel Dio a cui l'uomo contemporaneo è sempre pronto a chiedere ragione di tutto quello che nella vita non gli va bene.
C'è un particolare, nella parabola dei talenti, che mi ha sempre colpito: quando il servo infingardo vuole giustificarsi per non aver trafficato il talento che gli era stato affidato dal padrone quasi lo rimprovera di essere «un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso». Il padrone, che nella parabola simboleggia Dio, non lo corregge e non nega affatto di essere come ha detto il servo, ma rivendica la sua sovrana libertà di agire come vuole: «Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse» (Mt 25,26-27).
leonardolugaresi | 19 aprile 201

mercoledì 11 aprile 2018

UNGHERIA NON XENOFOBIA, MA SOVRANITÀ


L'UNIONE EUROPEA E LA DOTTRINA BREZNEV

Rodolfo Casade


(…) Perché nell’Ungheria del 2018 la questione delle frontiere e dei migranti è più decisiva per l’esito delle elezioni degli argomenti che riguardano l’operato in bene e in male del governo? Perché la vertenza che si trascina con l’Unione Europa dal 2015, cioè il rifiuto da parte di Budapest di ricollocare 1.294 richiedenti asilo provenienti da Italia e Grecia, è così importante per governanti ed elettori ungheresi?


I media e l’establishment dell’Europa Occidentale e Bruxelles agitano gli spauracchi della xenofobia, dell’antisemitismo, delle risorgenze fasciste o della penetrazione strisciante della Russia di Putin.
Un misto di arroganza e ignoranza: Viktor Orban è stato dissidente antisovietico, si è laureato con una tesi su Solidarnosc, ha studiato a Oxford grazie a una borsa di studio della fondazione di George Soros (proprio lui!), la sua formazione politica è da sempre affiliata al Partito Popolare Europeo.
(…)
La parola chiave per capire quello che a livello politico succede in Ungheria e in altri paesi dell’Est che hanno aderito alla Ue (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) non è xenofobia, ma sovranità. L’Ungheria, come gli altri paesi dell’Europa orientale i cui elettorati hanno votato in massa forze nazional-conservatrici o populiste euroscettiche, è una nazione che ha trascorso metà della sua storia sotto il tallone di potenti vicini: nel suo caso ottomani, austriaci, sovietici. Ha perduto popolazione e territorio in conseguenza delle due guerre mondiali. Non ha partecipato a imprese coloniali, non ha praticato l’imperialismo nei confronti dei continenti extraeuropei nel XIX o nel XX secolo, dunque non nutre complessi di colpa verso africani e mediorientali.

Ha aderito all’Unione Europea per godere della prosperità e dell’indipendenza che fino ad allora gli erano state per lungo tempo negate. Ora queste nazioni scoprono che il prezzo della prosperità che l’adesione alla Ue ha certamente favorito è la progressiva rinuncia alla propria indipendenza a vantaggio di una integrazione dove tutte le culture e le storie sono tenute a sciogliersi in un’indistinta unità fondata sulla libertà di mercato e sui diritti individualistici.

Liberatisi della dottrina brezneviana della “sovranità limitata”, in base alla quale nessun paese socialista poteva sperare di riavvicinarsi al capitalismo senza che gli altri paesi socialisti, a cominciare dall’Unione Sovietica, intervenissero con le buone o con le cattive per riportarlo all’ovile, oggi i paesi dell’Est si trovano di fronte a una nuova versione di quella dottrina, concepita stavolta a Bruxelles: nessun paese della Ue può opporsi al progetto di sempre maggiore integrazione fra i paesi aderenti, compresa la delicata materia delle politiche dell’immigrazione, senza rischiare di perdere i diritti di voto e i finanziamenti dei Fondi di coesione.

Ma questa linea dura contro Budapest e Varsavia che trova ogni giorno nuovi sostenitori in Europa occidentale e a Bruxelles rischia di aggravare la crisi di coesione dell’Unione anziché risolverla. Occorrerebbe invece contemperare i processi di integrazione con la salvaguardia delle identità nazionali. Come scrive il filosofo Mathieu Bock-Côté: «Il diritto alla continuità storica è vitale per un popolo».

 Aprile 11, 2018 TEMPI

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sabato 7 aprile 2018

LA BELLEZZA DELL'AMORE - Don Agostino Tisselli

 

Intervista all'autore con domande di Andrea Nucci e Letizia Raggini presso la Biblioteca "LA CECCARELLI" di Gatteo FC - Giovedì 5 aprile 2018.

"Trovare uno che ti parla dell'amore umano è una grande grazia: è trovare chi ti parla di te nella tua intima completezza"

giovedì 5 aprile 2018

UN LINGUAGGIO NUOVO NON SI INVENTA A TAVOLINO


DON BOSCO, DON GIUSSANI E GUARESCHI

Aprile 2018 Peppino Zola

In occasione del Sinodo, molti “esperti” cattolici cercano un “linguaggio” nuovo per parlare alle nuove generazioni. L’esempio di don Bosco, Giussani e Guareschi

Card. Woytyla. e don Giussani 1973
Caro direttore, in questi giorni, sull’onda del “lancio” del Sinodo sui giovani che si terrà nel prossimo ottobre, ho letto e sentito molti “esperti” cattolici sottolineare che occorre trovare un “linguaggio” nuovo per parlare alle nuove generazioni, quasi che ci si dovrebbe mettere a tavolino per inventare qualche cosa di “diverso” per potere annunciare Gesù. Seguendo questa strada, si rischia di non pescare le cose da dire nella stessa storia della Chiesa, pensando che ogni volta occorra ricominciare da zero. Un nuovo inizio non è ricominciare da zero.

Pensando a queste cose, mi sono venuti in mente due grandi educatori: san Giovanni Bosco del secolo XIX ed il servo di Dio don Luigi Giussani, che ha iniziato la sua opera nel secolo XX fino agli inizi del secolo presente. Questi due immensi sacerdoti hanno avuto in comune, innanzi tutto, la passione per Gesù Cristo presente nella Chiesa cattolica e quindi in misura struggente il desiderio di annunciarLo soprattutto ai giovani; la decisione di abbandonare tutto il resto per andare a condividere la vita dei giovani stessi (anche se in situazioni diverse); di credere in quello che dicevano e facevano, tanto che i giovani si sono convertiti seguendoli. Entrambi non hanno inventato un “linguaggio” nuovo a tavolino, ma, forti della fede in Cristo, hanno annunciato ciò che lo spirito dettava loro.

Caro direttore, mi chiedo perché gli attuali educatori cattolici non si chiedano per quale motivo, solo pochi decenni fa, il sacerdote ambrosiano sia riuscito a parlare ai giovani moderni, molti dei quali lo hanno seguito anche nella loro vita adulta. Se essi si rivolgessero ai suoi metodi ed alle sue indicazioni, invece che arrovellarsi su che cosa inventare di nuovo, forse perderebbero meno tempo e sarebbero finalmente un po’ efficaci. L’efficacia di don Giussani risiede nel fatto che egli credeva veramente in Gesù Cristo, come si può constatare leggendo le pagine 162 e 163 della Vita di don Giussani di Alberto Savorana (Rizzoli): egli è entrato al liceo Berchet «con il cuore tutto gonfio dal pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo, è il cuore della vita dell’uomo». Questo è stato il suo punto di partenza e dovrebbe essere il punto di partenza di chiunque voglia parlare cristianamente ai giovani di oggi.

Ma don Giussani ha indicato anche un metodo, a cui nessuno degli “esperti” sentiti in questi giorni ha fatto riferimento. Mi riferisco, in particolare, a quanto don Giussani scrisse nel 1959 (dopo i primi cinque anni di esperienza in Gioventù Studentesca) nel libretto intitolato Gioventù Studentesca. Riflessioni sopra un’esperienza, che ora possiamo ritrovare nel volume Il cammino al vero è un’esperienza (Rizzoli). Tale libretto indica, in termini molto precisi, un chiaro percorso educativo e così inizia: «Il richiamo cristiano deve essere: deciso come gesto; elementare nella comunicazione; integrale nelle dimensioni; comunitario nella realizzazione».
Con questa lettera, vorrei riprendere il primo di questo 4 punti: il richiamo cristiano (la prima parola scritta da don Giussani sulla sua esperienza in GS è una parola missionaria) deve essere 

DECISO COME GESTO.

In due pagine (25-26), don Giussani indica un metodo che mi pare sconfessi tutta la timidezza dei cattolici quando affrontano il problema dell’annuncio. Infatti, egli scrive che «la prima condizione per raggiungere tutti è una iniziativa chiara di fronte a chiunque… perché… può essere illusione ambiguamente coltivata quella… di proporsi alle persone con una indecisione tale da sminuire il richiamo, nel timore che il suo urto contro la mentalità corrente indisponga gli altri». E poi aggiunge: «Ad un certo momento occorre porsi di fronte ai problemi seri… anche nel dialogo con gli altri e per questo occorre la forza di mettersi contro, che è quanto Cristo ci ha chiesto per farci entrare nel regno: “chi avrà avuto vergogna di me di fronte agli uomini, anch’io avrò vergogna di lui di fronte al Padre mio”». Don Giussani termina questo punto, scrivendo che occorre «sfidare l’opinione di tutti per seguire Gesù». Innanzi tutto, quindi, occorre non avere alcuna paura, sia personalmente che comunitariamente, nel richiamare a Cristo, il quale ci ha già preconizzato che, comunque, non saremo popolari nel farlo: non avremo certo l’approvazione del “mondo”. Tutta la liturgia della settimana Santa e dell’ottava di Pasqua ci invita, guarda caso, ad essere espliciti e chiari nell’annunciare la Risurrezione di Gesù (san Pietro è andato in galera per questo).

Ho letto recentemente un episodio del don Camillo di Guareschi, quello intitolato “La paura continua”. Don Camillo, che aveva scritto una certa verità sul giornaletto della sua parrocchia, confida a Cristo la sua amarezza per avere incontrato la disapprovazione di tanti parrocchiani. Cristo, dalla croce, gli risponde spiegandogli perché ha suscitato l’odio di tanti: «Ti odiano. Vivevano caldi e tranquilli dentro il bozzolo della loro viltà… nessuno aveva detto pubblicamente questa verità. Tu hai parlato e agito in modo tale che essi ora debbono saperla la verità. E perciò ti odiano e hanno paura di te… essi non ti saranno riconoscenti, ma ti odieranno e, se potranno, ti uccideranno, perché tu li costringi ad accorgersi di quello che essi già sapevano ma, per amor di quieto vivere, fingevano di non sapere. Essi hanno occhi ma non vogliono vedere. Essi hanno orecchie ma non vogliono sentire».
Anche questo brano di Guareschi (sembra quasi di leggere un pezzo di Vangelo) sottolinea come l’annuncio cristiano porta in sé una dimensione drammatica, che non può avere i tratti di un’azione piccolo borghese. L’annuncio deve essere deciso innanzi tutto per salvare la verità di chi lo fa; ma anche per mettere in moto la libertà dell’altro, a costo di smuovere le acque tranquille.

Capisco perché don Giussani, al termine di un memorabile intervento al Meeting di Rimini, disse a noi, diventati adulti: «Auguro a me e a voi di non stare mai tranquilli».


domenica 1 aprile 2018

PASQUA: QUELL’EVENTO SU CUI SI FONDA LA CHIESA



BENEDETTO XVI: UDIENZA GENERALE nell’Ottava di Pasqua
Piazza San Pietro, Mercoledì 15 aprile 2009

Isole Lofoten, Northern Light
(…) La “via crucis”, che nel Triduo Santo abbiamo ripercorso con Gesù sino al Calvario rivivendone la dolorosa passione, nella solenne Veglia pasquale è diventata la consolante “via lucis”.

Visto dalla risurrezione, possiamo dire che tutta questa via della sofferenza è cammino di luce e di rinascita spirituale, di pace interiore e di salda speranza. Dopo il pianto, dopo lo smarrimento del Venerdì Santo, seguito dal silenzio carico di attesa del Sabato Santo, all’alba del “primo giorno dopo il sabato” è risuonato con vigore l’annuncio della Vita che ha sconfitto la morte: “Dux vitae mortuus/regnat vivus - il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa!”

La novità sconvolgente della risurrezione è così importante che la Chiesa non cessa di proclamarla, prolungandone il ricordo specialmente ogni domenica: ogni domenica, infatti, è “giorno del Signore” e Pasqua settimanale del popolo di Dio. I nostri fratelli orientali, quasi a evidenziare questo mistero di salvezza che investe la nostra vita quotidiana, chiamano in lingua russa la domenica “giorno della risurrezione” (voskrescénje).

È pertanto fondamentale per la nostra fede e per la nostra testimonianza cristiana proclamare la risurrezione di Gesù di Nazaret come evento reale, storico, attestato da molti e autorevoli testimoni.

Lo affermiamo con forza perché, anche in questi nostri tempi, non manca chi cerca di negarne la storicità riducendo il racconto evangelico a un mito, ad una “visione” degli Apostoli, riprendendo e presentando vecchie e già consumate teorie come nuove e scientifiche.

Certamente la risurrezione non è stata per Gesù un semplice ritorno alla vita precedente. In questo caso, infatti, sarebbe stata una cosa del passato: duemila anni fa uno è risorto, è ritornato alla sua vita precedente, come per esempio Lazzaro. La risurrezione si pone in un’altra dimensione: é il passaggio ad una dimensione di vita profondamente nuova, che interessa anche noi, che coinvolge tutta la famiglia umana, la storia e l’universo. (
….)

È vero: la risurrezione di Gesù fonda la nostra salda speranza e illumina l’intero nostro pellegrinaggio terreno, compreso l’enigma umano del dolore e della morte. La fede in Cristo crocifisso e risorto è il cuore dell’intero messaggio evangelico, il nucleo centrale del nostro Credo.