PARLA IL MEDICO
CHE HA VISITATO ALFIE EVANS
«In Germania
un bambino nelle sue condizioni sarebbe a casa già da un anno», dice il
professore Nikolaus Haas. Lo stesso che il giudice Hayden ha attaccato citando
a sproposito papa Francesco
Ieri il quotidiano tedesco Die
Welt ha pubblicato sul suo sito una intervista al professor
Nikolaus Haas, direttore del dipartimento di Cardiologia
pediatrica e terapia intensiva all’ospedale dell’Università Ludwig-Maximilian
di Monaco, che secondo il giornale è «furioso» per il caso di Alfie Evans. Il professor Haas «ha
visitato personalmente» il bambino e le sue valutazioni sono agli atti del
processo che ha sancito la sospensione dei sostegni vitali per il piccolo
paziente dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool. Come ha ricordato su tempi.it Assuntina
Morresi, è proprio per rispondere alla sua perizia che il
giudice Anthony Hayden ha pensato bene di citare una frase di papa
Francesco sul fine vita. Il magistrato
aveva trovato «provocatorio e inappropriato» il seguente argomento utilizzato
da Haas: «Per via della nostra storia in Germania, abbiamo imparato che ci sono
cose che non bisogna fare con bambini fortemente handicappati. Una società deve
essere pronta a prendersi cura di questi bambini molto handicappati, e non
decidere che i sostegni vitali siano interrotti contro la volontà dei genitori,
se non c’è certezza di cosa sentano i bambini, come in questo caso».
IL
CONTATTO. Con la Welt, il professore ricostruisce
il suo coinvolgimento nella vicenda. «La famiglia ci ha contattato», racconta
Haas, dopo che «i medici avevano detto loro che non volevano fare più niente
per il bambino e intendevano sospendere i sostegni vitali. Ai genitori era
stato vietato anche il trasporto in un altro ospedale, per la ragione che il
bambino era troppo malato e la cosa lo avrebbe messo in pericolo». Così i
genitori, prosegue il medico tedesco, hanno cercato un servizio di trasporto
adatto ai pazienti come Alfie, trovandolo presso la struttura di Monaco, che
possiede la tecnologia adatta, secondo Haas, per trasportare bambini in
terapia intensiva di tutte le età in tutto il mondo. «Gli inglesi non ce
l’hanno un servizio del genere?», domanda il giornalista. «Certo», risponde
Haas. «Ma non vogliono che la famiglia Evans lo utilizzi».
IL
RIFIUTO. I colleghi di Liverpool, però, da subito si sono mostrati
mal disposti verso i tedeschi. Appresa la richiesta, da parte dei genitori di
Alfie, di un consulto dei tedeschi (finalizzato all’ipotesi del trasporto),
«l’ospedale ha detto apertamente: non vogliamo che un altro medico visiti il
bambino. Perciò la famiglia ha deciso di portare dentro il signor Hübner [aiuto
primario di Haas, ndr] come un amico». Peccato che quando l’équipe locale ha
scoperto che si trattava di un professionista, «si è rifiutata di
parlargli». Dunque Hübner ha visitato Alfie per conto proprio e ha potuto
vedere solo «la documentazione clinica che gli hanno messo a disposizione i
genitori».
FIT TO FLY. Fortunatamente
il medico di Monaco, secondo il suo superiore, aveva abbastanza esperienza per
farsi un’idea corretta senza bisogno di compulsare troppe carte. Ebbene,
secondo Hübner «Alfie Evans all’epoca era del tutto stabile», lo stesso stato
che Haas successivamente ha potuto verificare di persona. «Alfie era ventilato
in modo corretto, non si muoveva, aveva solo crisi epilettiche occasionali.
Perciò il signor Hübner ha messo per iscritto: il bambino è “adatto al volo”
[fit to fly, ndt]. Ma questo naturalmente all’ospedale non è piaciuto affatto».
Dopo di che sono seguiti i passaggi che tutto il mondo conosce. Le offerte di
ricovero da strutture di diversi paesi esteri. La cittadinanza italiana. Gli
appelli del Papa. «E adesso un giudice dice che gli Evans possono andare a
casa, ma non possono lasciare il paese per far curare il bambino altrove a
proprie spese? Tutto questo è folle!», osserva Haas.
«QUALUNQUE
GRANDE CLINICA…». In Germania, un caso incurabile come
Alfie Evans sarebbe seguito anche dopo l’esclusione di ogni possibile terapia,
spiega Haas al quotidiano. «Questi pazienti non devono restare nell’unità di
terapia intensiva, tuttavia devono essere curati al meglio». Che questo avvenga
in una struttura specializzata o a casa dipende dalla volontà dei genitori,
dice il medico. Quello di cui avrebbe bisogno Alfie una volta fuori
dall’ospedale sono procedure e attrezzature «standard» secondo Haas: «Qualunque
grande clinica pediatrica ha dozzine di bambini in situazione simile, che sono
altrettanto gravemente disabili e perciò sono assistiti in casa di cura o in
famiglia. È pura routine. In Germania per la nostra valutazione Alfie sarebbe a
casa già da un anno con una assistenza del genere».
LA VACCA
SACRA. Riguardo al motivo per cui tutto questo nel sistema
britannico non è possibile, «io posso solo fare speculazioni», spiega il
professore. «Per come l’ho capita io, il National Health Service è la vacca
sacra in Inghilterra. I medici dicono: quello che facciamo noi è giusto, punto.
E poi ovviamente il trattamento di un paziente intensivo di questo tipo
all’esterno della clinica costa circa tre volte quanto costerebbe all’interno.
Se si crea un precedente, si scatena una valanga che comporta costi notevoli».
IL DOVERE
DELLA SOCIETÀ. Per Alfie Evans, conferma Haas, non ci sono speranze di
miglioramento, dal punto di vista medico, «e probabilmente non c’è nessuna
terapia che possa guarirlo. La domanda è però come comportarsi con lui fino
alla fine della sua vita. E nessuno sa nemmeno quanto a lungo potrebbe vivere.
Con il sostegno adeguato potrebbe vivere ancora sei mesi, forse di meno, forse
di più. In Germania – ma anche in altri paesi del mondo – diremmo soltanto:
“Come andare avanti con lui, è anche una decisione personale della famiglia”.
Se i genitori dicono di volere accompagnare il processo di morte del bambino a
casa loro, allora una società deve essere in grado di renderlo possibile e di
accettarlo. Tanto più se non ha altro da offrire». In Inghilterra e in
particolare nel caso di Alfie, invece, «il sistema dice: noi abbiamo sempre
ragione ed è meglio che questo bambino muoia, piuttosto che se ne occupi
qualcun altro. Per me questo non è comprensibile», insiste Haas.
«DOV’È LA
LOGICA?». Il professore tedesco nota anche qualche «interessante»
contraddizione nella posizione dei colleghi di Liverpool, per altro fatta
propria dalla sentenza del giudice Hayden: «Dicono che il paziente sia in uno
stato neurovegetativo. Questo significa che non riceve stimoli dal suo ambiente
e non prova nemmeno dolore». Ma quindi «dov’è la logica?», si domanda Haas.
Perché sarebbe nel suo interesse impedire ai genitori portarlo altrove per
provare altre strade? «Se non prova alcun dolore, che cosa si può fare di
sbagliato?». Eppure, concede il professore, lo stato della medicina dei bambini
in Inghilterra è «eccellente».
Ma rispetto alla Germania c’è una differenza di
«impostazione», soprattutto nei casi di disabilità grave come quello di Alfie
Evans. «Credo che la nostra visione etica sia diversa, grazie a Dio». Quello che
per Haas è proprio «inconcepibile» è la logica in base alla quale per il
bambino sarebbe meglio morire, e che il sistema sanitario non voglia sentire
ragioni diverse.
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