E’ definitivo.
La presenza del Crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane non contravviene la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Decidendo di mantenere detto simbolo religioso nelle scuole pubbliche, “le autorità hanno agito entro i limiti dei poteri di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni di educazione e di insegnamento, il diritto dei genitori di garantire tale istruzione secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”.
La questione del Crocifisso è stata riesaminata in questo modo dalla “Grande Chambre”, il giudice d’appello della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, dopo che lo Stato Italiano aveva fatto ricorso contro una decisione della seconda sezione della medesima Corte, che aveva invece statuito che “la presenza del crocifisso può facilmente essere interpretata da alunni di tutte le età come un simbolo religioso… e ciò può turbare sentimentalmente (peut etre perturbant emotionnellement) alunni di altre religioni o chi non professa alcuna religione”.
La posta in gioco era alta. Il problema non era certo la sanzione di 5.000 euro affibbiata all’Italia. Ma non era neppure solo la salvaguardia – pur essenziale – di un simbolo religioso, che è diventato nel tempo un simbolo storico-culturale e si è caricato di una valenza identitaria (valeur hidentitaire) per il popolo italiano e in generale per l’Europa intera.
Si trattava – almeno questa mi pare la lettura da darsi alla questione – di una resa dei conti, tutta interna all’Europa, tra laicità e laicismo.
Infatti, il crocifisso, appeso alle pareti scolastiche o nelle aule giudiziarie o in qualsiasi ambiente pubblico, non vieta mica a nessuno di professare ed esercitare liberamente la propria fede (secondo quanto garantito dall’art. 19 Cost.). Né impone a chicchessia l’esercizio di una determinata fede, credenza o convinzione (secondo il contenuto negativo di detto diritto di libertà). Non si può certo sostenere che la semplice presenza del crocefisso obblighi qualcuno ad essere cristiano!
Allora, forse, la decisione della Corte Europea in primo grado, nascondeva un diverso obiettivo (in diritto si parla di eterogenesi dei fini): non la tutela della libertà di religione anche negativa di ciascuno; quanto invece – mediante un malinteso principio di laicità dello Stato – la pretesa di disconoscere per tutti, a livello pubblico, il valore dell’esperienza religiosa, e in particolare della fede cristiana, in nome della civile pretesa di una suprema neutralità statale, intesa come indifferenza, agnosticismo, pulizia religiosa, eliminazione di tutte le sovrastrutture di marxiana memoria (religione oppio dei popoli).
Eppure – così facendo – si sarebbe appesa alla parete un’altra religione, quella laicista.
Non si trattava cioè di un’operazione neutra, come poteva apparire. Pretendere di impedire l’utilizzo e la visibilità pubblica di simboli religiosi va ben oltre il rispetto per chi in quei simboli non si riconosce, al fine di non perturbarne e di non condizionarne l’intima spiritualità. Il rispetto implica attenzione e riguardo per le persone altrui, cui non si deve imporre un credo religioso, neppure indirettamente; ma non significa anche necessariamente eliminazione dagli ambienti pubblici di tutte le manifestazioni esteriori di una fede religiosa.
Se così fosse, si ridurrebbe la fede a mero fattore intimistico dell’uomo e – per quanto riguarda il cattolicesimo – se ne disconoscerebbe il valore specifico di sale della terra. Anche questa riduzione sarebbe, a suo modo, una nuova religione che verrebbe – questa volta sì – necessariamente imposta ai cittadini, poiché l’ordinamento assumerebbe una struttura ideologica monista dal punto di vista religioso, nel senso che assumerebbe come unico criterio ammesso quello dell’assoluto divieto di manifestazioni religiose, incorrendo nel medesimo atteggiamento confessionistico – e non certo laico – caratteristico dello Stato che ammette una sola religione.
In sostanza, imporre ad uno Stato di essere laico, intendendosi con ciò un’esasperata neutralità rispetto al fenomeno religioso, significa disconoscere di fatto quella stessa laicità che si vorrebbe a parole affermare.
Mi pare che detta conclusione sia stata messa ben in luce dall’intervento, presso la Grande Chambre della Corte Europea, dal Prof. Weiler, in funzione di rappresentante dei Governi di alcuni Paesi che hanno deciso di intervenire in giudizio per sostenere le ragioni italiane. Egli fa l’ipotesi di due amici che iniziano la scuola, Leonardo proveniente da famiglia atea, Marco da famiglia cattolica. Nell’ipotesi che vorrebbe l’eliminazione del crocifisso dalle aule scolastiche, lo stesso turbamento che colpirebbe Leonardo nel vedere il crocifisso, colpirebbe Marco nel non vederlo. Anche lui tornerebbe a casa agitato: “la scuola è come la casa di Leonardo” griderebbe “vedi, l’avevo detto che non ne avevamo bisogno”.
In realtà, il fatto di attribuire a manifestazioni visibili di una fede religiosa valore condizionante di altre libertà religiose offenderebbe la stessa dignità della scelta religiosa o non religiosa, che verrebbe del tutto svilita se cedesse davanti alla mera presenza visibile di altre fedi.
In termini più generali può affermarsi che non potrà certo ritenersi lesivo della libertà religiosa quel condizionamento esterno che lasci intatta la libertà di scelta, senza assumere le proporzioni di una vera e propria costrizione. Potrà parlarsi di scelta più difficile (d’altra parte, è difficile ritenere che possa esistere una libertà del tutto priva di condizionamenti, vista la natura relazionale dell’uomo), ma non di violazione della libertà religiosa.
E’ proprio questo il punto sottolineato dalla sentenza definitiva della Corte Europea, in sede di appello: “se è vero che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni”. Insomma, l’eventuale “percezione personale” di detta influenza non è sufficiente a integrare una violazione del diritto a una istruzione “secondo le singole convinzioni religiose e filosofiche” di cui parla l’art. 2, Protocollo 1, della Convenzione dei Diritti dell’Uomo.
Per sostenere il contrario occorrerebbe invece dimostrare “un’opera di indottrinamento da parte dello Stato”, e dunque l’esistenza di “pratiche di insegnamento volte al proselitismo”. La Grande Camera poi ricorda di aver già precedentemente stabilito che, “in merito al ruolo preponderante di una religione nella storia del paese, il fatto che, nel programma scolastico le sia accordato uno spazio maggiore rispetto alle altre religioni non costituisce di per sé opera di indottrinamento”.
Come si vede, la laicità statale è riportata nell’alveo suo proprio di rispetto della libertà di ciascuno di manifestare ed esprimere il proprio credo, senza che quest’ultimo possa essere impedito dallo Stato o da terzi, e senza che, correlativamente lo Stato o terzi possano imporne uno a scapito di altri.
Viene invece disconosciuta – mi pare – una laicità intesa come pretesa che lo Stato impedisca ogni forma di espressione esteriore e pubblica di una fede, piuttosto che di un’altra, in quanto possibile fattore di condizionamento della libertà religiosa altrui.
E’ stato sventato il tentativo di sopprimere definitivamente – sotto un falso concetto di rispetto umano – ogni dimensione religiosa nell’uomo. In questa forma più estrema è evidente che lo stato indifferente al fenomeno religioso finisce per coincidere con lo stato contrario al fenomeno religioso, sostituendo al fattore religioso la religione civile dell’assenza di simboli religiosi e – in generale – l’assenza esteriore della fede in ambito pubblico.
Mi pare fosse in gioco la stessa preminenza di un atteggiamento europeo di laicità o di laicismo.
di STEFANO SPINELLI
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