A DIECI ANNI DALLA MORTE DI DON LINO MANCINI
Questo è esattamente il punto su cui la fede cristiana sfida più audacemente, quasi sfrontatamente direi, non solo “il mondo” ma anche noi stessi, in quella che è la nostra naturale percezione delle cose. La morte si presenta a tutti noi, a tutti, nessuno escluso, come un’incomprensibile assenza: qualcuno, il nostro caro, fino ad un attimo prima c’era, era qui. ora non c’è più. Un vuoto, inspiegabile e assurdo.
Per quanto si possa pensare alla morte, non si può pensare la morte.
Le commemorazioni, gli anniversari – avrebbe detto don Lino con quel tratto spicciativo e un po’ impaziente che usava in questi casi (tirandosi su le maniche della tonaca, come per meglio lottare con i pregiudizi di chi lo ascoltava) – al di fuori del cristianesimo sono un rito inutile, una cerimonia triste e in fondo un po’ sciocca. Se la morte è la fine di tutto, se la vita non è che un’inesorabile corsa verso l’abisso e sin dalla nascita si incomincia a morire – come lui ricordava sempre, sin dalle prime ore di religione, a noi liceali che lo guardavamo sconcertati e, nostro malgrado, feriti da quel brusco richiamo alla realtà – che cosa vale tutta la retorica del ricordo, “alla Foscolo”, con cui ci imbottivano la testa nelle altre ore di lezione?
Ma se Cristo è risorto, tutto cambia. Il cristianesimo, come don Lino ce lo ha insegnato, alla radice è questa cosa semplicissima e “assurda”: Gesù non è morto, ma è vivo. È la sintesi folgorante che aveva saputo fare già quasi duemila anni fa un intelligente magistrato romano, davanti al quale i Giudei avevano portato san Paolo: «avevano con lui alcune questioni riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora vivo» (Atti 25,19).
Oggi la questione è la stessa: il cristiano, prima di ogni altra cosa, è uno che crede che Gesù è vivo. Ma non solo lui: anche la sua mamma, a cui – come tanto spesso ripeteva don Lino nelle sue omelie – Gesù ha voluto così tanto bene da farle il regalo più grande, quello di risparmiarle la morte; e i suoi amici. Anche i suoi amici sono vivi, per quanto nella forma misteriosa di un’attesa della resurrezione della carne. “La carne gloriosa e santa”, come dice Dante in un passo del Paradiso dove immagina che i beati, al sentir parlare della resurrezione finale, siano pieni di desiderio dei corpi, «forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari».
Il volto dei nostri cari non è perduto. Per questo credo che, dette queste poche indispensabili parole (di più non ne vorrebbe), il modo migliore per fare memoria di ciò che don Lino è stato sia quello di guardare le fotografie riprodotte nella sua biografia. Non sono le sbiadite larve di un passato che il nostro ricordo, per quanto affettuoso, non può far rivivere: sono il volto di un uomo vivente.
E, come dice sant’Ireneo con un’altra geniale sintesi del pensiero cristiano, «la gloria di Dio è l’uomo vivente».
Leonardo Lugaresi
Don Lino Mancini (1916-2001), cesenate, sacerdote carismatico, teologo mai accademico e di rara chiarezza, capace di leggere la realtà nei diversi risvolti, ha percorso lo scorso secolo con una profondità e un realismo che solo la fede rende possibile. Immedesimato con Cristo ha dato testimonianza della sua dolce presenza a chiunque lo abbia incontrato. Oggi il suo volto è quello di un uomo vivente, a gloria di Dio.
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