Va bene discutere e operare politicamente, ha concesso il cardinale, “sulle vie migliori per assicurare giustizia sociale, lavoro, casa e salute, rete accogliente e solidale, pace: valori, questi e altri, che vanno a descrivere ciò che è chiamata etica sociale”.
Ma la posta in gioco decisiva non sta qui, ha immediatamente aggiunto:
“La giusta preoccupazione verso questi temi non deve far perdere di vista la posta in gioco che è forse meno evidente, ma che sta alla base di ogni altra sfida: una specie di metamorfosi antropologica. Sono in gioco, infatti, le sorgenti stesse dell’uomo: l’inizio e la fine della vita umana, il suo grembo naturale che è l’uomo e la donna nel matrimonio, la libertà religiosa ed educativa che è condizione indispensabile per porsi davanti al tempo e al destino. Proprio perché sono ’sorgenti’ dell’uomo, questi principi sono chiamati ‘non negoziabili’. Quando una società s’incammina verso la negazione della vita, infatti, ‘finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono’ (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 28). Senza un reale rispetto di questi valori primi, che costituiscono l’etica della vita, è illusorio pensare ad un’etica sociale che vorrebbe promuovere l’uomo ma in realtà lo abbandona nei momenti di maggiore fragilità. Ogni altro valore necessario al bene della persona e della società, infatti, germoglia e prende linfa dai primi, mentre staccati dall’accoglienza in radice della vita, potremmo dire della ‘vita nuda’, i valori sociali inaridiscono. Ecco perché nel ‘corpus’ del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva. Nella coscienza universale sancita dalle Carte internazionali è espressa una acquisita sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia umana, e quindi è affermato il dovere di mettere in atto ogni efficace misura di difesa, sostegno e promozione. Ciò è una grande conquista, salvo poi – questa dichiarazione – non sempre corrispondere alle politiche reali. Ma, ci chiediamo, chi è più debole e fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce per affermare il proprio diritto, e che spesso nemmeno possono opporre il proprio volto?… Vittime invisibili ma reali! E chi è più indifeso di chi non ha voce perché non l’ha ancora o, forse, non l’ha più? E, invero, la presa in carica dei più poveri e indifesi non esprime, forse, il grado più vero di civiltà di un corpo sociale e del suo ordinamento? E non modella la forma di pensare e di agire – il costume – di un popolo, il suo modo di rapportarsi nel proprio interno, di sostenere le diverse situazioni della vita adulta sia con codici strutturali adeguati, sia nel segno dell’attenzione e della gratuità personale? Questo insieme di atteggiamenti e di comportamenti propri dei singoli, ma anche della società e dello Stato, manifesta il livello di umanità o, per contro, di cinismo paludato, di un popolo e di una Nazione. La nostra Europa, come l’intero Occidente segnato da una certa cultura radicale fortemente individualista, si trova da tempo sullo spartiacque tra l’umano e il suo contrario. Questi temi non sono rimandabili quasi fossero secondari; in realtà formano la ’sostanza etica’ di base del nostro vivere insieme”.
E più avanti:
“A volte si sente affermare che di questi valori non bisognerebbe parlare perché ‘divisivi’ e quindi inopportuni e scorretti, mentre quelli riguardanti l’etica sociale avrebbero una capacità unitiva generale. L’invito, non di rado esplicito, sarebbe quello di avvolgerli in un cono d’ombra e di silenzio, relegarli sempre più sullo sfondo privato di ciascuno, come se fossero un argomento scomodo, quindi socialmente e politicamente inopportuno. L’invito è spesso di far finta di niente, di ‘lasciarli al loro destino’, come se turbassero la coscienza collettiva. Tuttalpiù si vorrebbe affidarli all’opera silenziosa e riservata della burocrazia tecnocratica. Ma è possibile perseguire il bene comune tralasciandone il fondamento stabile, orientativo e garante? Il bene è possibile solo nella verità e nella verità intera. Per questa ragione non sono oggetto di negoziazione: su molte questioni, infatti, si deve procedere attraverso mediazioni e buoni compromessi, ma ci sono valori che, per il contenuto loro proprio, difficilmente sopportano mediazioni per quanto volenterose, giacché, questi valori, non sono né quantificabili né parcellizzabili, pena trovarsi di fatto negati”.
Con questo, il cardinale Bagnasco ha messo d’un colpo nell’angolo non solo quelli del “Corriere” – presenti in forze con il direttore Ferruccio de Bortoli, con l’editorialista Ernesto Galli della Loggia e con l’azionista di riferimento Corrado Passera – ma anche tutti quei cattolici che hanno contribuito per settimane, su pagine e pagine del giornalone milanese, a fare impropriamente dell’appuntamento di Todi un evento epocale: a cominciare dal fondatore della comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi.
Qual è, infatti, in parole povere, il disegno politico di tutti costoro se non quello di “federare” i cattolici in una formazione più o meno nuova, a più anime, di centro, che alleata al PD raccolga alle urne quel 60 per cento di elettori vagheggiato da Massimo D’Alema in una solenne intervista al “Corriere” pubblicata proprio alla vigilia di Todi?
È chiaro che una simile alleanza può nascere e funzionare solo a patto di tenerne fuori i “divisivi” principi richiamati dal cardinale. Come ben spiega il direttore del “Corriere” de Bortoli nel fondo di prima pagina uscito in concomitanza con Todi, quando esorta i cattolici a “riscoprire [nel dialogo con i laici] un tratto più marcatamente conciliare dopo l’era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l’incomunicabilità con le posizioni laiche all’insieme delle questioni civili ed economiche”.
Non meraviglia, quindi, che il giornale di via Solferino, talmente ostinato a dettare una via politica, la sua, ai cattolici italiani, abbia rifiutato di pubblicare – alla vigilia di Todi – quel “manifesto” dei quattro intellettuali di area PD riprodotto nel precedente post, che chiede al loro partito di mettere al centro della nuova politica proprio “l’emergenza antropologica” rappresentata dai principi non negoziabili richiamati da Bagnasco e da Benedetto XVI.
Il manifesto di Giuseppe Vacca, Mario Tronti, Paolo Sorbi e Pietro Barcellona scompagina infatti il disegno del “Corriere” sul versante della sinistra, tanto quanto il cardinale Bagnasco lo mette in fuga sul versante cattolico.
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