Diciamocelo: fino a poco fa, parlare di sussidiarietà era nella maggior parte dei casi “aria fritta”, esercizio di stile. Fatte salve lodevoli eccezioni (ad es. in Lombardia), i più ne ignoravano il significato o l’applicazione. Però suonava bene. L’incalzare inquietante della crisi, i bilanci pubblici insostenibili hanno posto l’Europa e i comuni italici in una situazione senza precedenti e senza ritorno.
E’ finito lo statalismo assistenziale e non ritornerà, con buona pace delle Camusso. L’arcivescovo di Bologna ha spiegato a chiare lettere di cosa abbiamo bisogno, non solo a Bologna. L’han capito qualcuno a destra e qualcuno anche a sinistra (non tutti). Il cambiamento è stavolta epocale, sul serio e non per modo di dire, ben più della caduta del Muro.
Sopravviverà – anzi, vincerà – chi impara prima e più in fretta cose nuove, casomai riscoprendo cose perdute (la grande capacità, ad esempio, della società italiana di dare risposte ai bisogni prima dello stato e anche senza). Gli specialisti non sono in pole position: non han previsto né capito la crisi e non sanno indicarci uno straccio di uscita. Tutti, dal comunello allo stato, siam chiamati a rompere schemi (anche quelli politici), ad imparare nuovi lavori, nuovi rapporti tra società e PA. Non solo nidi ma anche, ad es., madri di giorno; scuola pubblica, ovvero no al monopolio statale e più pluralità di scuole; un mercato dei servizi pubblici più sussidiario; un fisco non più aguzzino ma equo (soprattutto per la famiglia, oggi intollerabilmente vessata).
Tutti a scuola, quindi, ma a scuola di realtà, di nuove risposte ai bisogni, di nuove reti profit e non profit. Esiste ovviamente, in tutti i grandi processi di cambiamento e apprendimento, un rischio. Che s’impari il cinismo, prevalga la spietatezza cinica del potere (vedi alla voce Cina) e l’abbandono dei più deboli.
La sussidiarietà è anche una battaglia. Culturale, ideale, politica ed operosa. Senza, non perderemo solo benessere. Perderà la democrazia. Infatti c’è in giro molta voglia di poteri forti, la faccia dissimulata della demagogia giacobina.
Gianni Varani
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