«Il progetto della Luigi Giussani High School nasce perché desideravamo che anche i bambini, come gli adulti, capissero il valore reale che hanno. La nostra intenzione era quindi quella di vedere se la nostra esperienza poteva educare; così abbiamo voluto che dalle loro mamme, che hanno scoperto il valore della loro vita, continuasse anche nei ragazzi». Rose Busingye, fondatrice del Meeting Point International di Kampala, Uganda, ci parla della Luigi Giussani High School, la scuola secondaria costruita proprio nella capitale ugandese, nel quartiere di Kireka, che verrà inaugurata il prossimo 3 febbraio. «Le mamme hanno partecipato e lo stanno facendo ancora adesso attivamente, aiutandoci anche in faticosi lavori manuali. La nostra intenzione era proprio quella di creare questo luogo meraviglioso di compagnia e appartenenza affinché questi ragazzi possano scoprire loro stessi», spiega Rose.
E tutto questo è stato possibile anche grazie alle tante collane di carta riciclata realizzate dalle donne del Meeting Point…
Quando una persona scopre se stessa, quando capisce il proprio valore, allora ogni cosa che tocca acquisisce un valore e diventa presente. La cosa più importante è la scoperta di non essere definiti dalla povertà e dalla malattia, e quando si scopre il valore infinito di se stessi, allora a quel punto si può fare tutto, anche le collane. C’è un momento in cui ti senti lanciato dentro la realtà come un combattente, e non spaventa più niente, perché sai a chi appartieni. Dopo diventa tutto più facile, proprio attraverso il fiorire di questa appartenenza.
E così il 21 maggio 2010 avete posato la prima pietra.
Sì, ma le nostre pietre hanno la straordinaria capacità di mettere radici, di crescere e di fare anche fiori! La scuola può ospitare 400 ragazzi, dai dodici ai diciotto anni, che nei prossimi anni diventeranno 600, e l’edificio ospita dodici classi su tre piani, alcune adibite a uffici e laboratori. I bambini diventano così protagonisti, in un luogo dove possono vivere un’esperienza educativa e di crescita umana.
Anche grazie all’aiuto delle madri, che hanno fatto di tutto per assicurare un futuro ai loro figli.
L’educazione comincia dalla famiglia, la cosa più importante, e proprio per questo il Meeting Point ha creato queste piccole comunità dove le donne accolgono i ragazzi come veri e propri figli, anche se spesso non sono figli loro, per creare un rapporto costitutivo e fondamentale. Non sappiamo come andrà in futuro, ma il fatto che anche solo un ragazzo riesca a scoprire il valore che ha, per noi è un grande successo.
Cosa può dirci della grande solidarietà che si è creata per questo progetto?
Il progetto della scuola è stato portato avanti grazie a tanti amici, che ci hanno sostenuto non solo economicamente, ma anche psicologicamente. Ci hanno dato la forza di continuare e ci hanno aiutato nella costruzione di questa fantastica scuola. Hanno poi contribuito con importanti finanziamenti, ma credo che dove c’è cuore, ci siano anche i fondi. Il 3 febbraio inaugureremo la scuola, e tutte le donne stanno preparando tantissime cose per il grande evento. Verranno anche tanti amici dall’Italia e dalla Spagna, insieme al Nunzio apostolico che verrà a battezzare i bambini e a dare la benedizione, come ha fatto anche in occasione della posa della prima pietra.
Cosa significa per lei vedere intitolata la scuola a Luigi Giussani?
Il merito non è solo nostro, perché il lavoro di don Gius (come Rose chiama don Giussani, ndr) continua ed è sempre presente. La sua prima missione è stata proprio nelle scuole e noi, continuando e cercando di portare avanti i suoi intenti, abbiamo presto visto che il suo carisma continuava a influenzarci e a cambiarci. In fondo, credo che sia possibile vivere felicemente solo assaporando il carisma di don Gius, perché è fatto apposta per l’uomo, ma purtroppo è l’uomo che spesso va in una direzione opposta.
INTERVISTA a ROSE BUSINGYE
di Claudio Perlini
da ilsussidiario.net
leggi anche
http://www.30giorni.it/articoli_id_20405_l1.htm
martedì 31 gennaio 2012
UN COMUNISTA NON PENTITO
Il capo dello Stato che bocciò i decreti di Berlusconi ha firmato senza battere ciglio quelli di Monti.
di Fabrizio Rondolino
Tratto da Il Giornale del 29 gennaio 2012
Questa volta, bisogna riconoscerlo, Roberto Calderoli qualche ragione ce l’ha. All’ex ministro leghista della Semplificazione il decreto sulle semplificazioni appena varato dal governo tecnico ha fatto venire la mosca al naso: e non (soltanto) perché a Monti è riuscito di fare quello che Calderoli e i suoi colleghi avevano soltanto, e parzialmente, impostato. Ma anche, e soprattutto, perché «buona parte dei contenuti del decreto sono gli stessi, o quanto meno una loro variante, del decreto per la crescita predisposto dal sottoscritto con Castelli, Romani e Brunetta, che mai ha visto la luce a causa dell’indisponibilità del presidente Napolitano a firmarlo». La conclusione di Calderoli è apertamente polemica: «Due pesi e due misure, caro presidente Napolitano, che mi amareggiano e che fanno vacillare la stima che avevo per lei».
A sostegno della ricostruzione del ministro leghista interviene Brunetta: «È vero, fummo impossibilitati a fare un maxiemendamento al decreto perché ci furono le perplessità del Colle». Del resto, non è un mistero che il Quirinale, per tradizione e per cultura politica, sia da sempre restìo alla decretazione d’urgenza, preferendo invece l’iter parlamentare classico e privilegiando dunque il confronto con le opposizioni rispetto all’efficacia e alla rapidità della decisione.
Nei confronti del governo Berlusconi più volte Napolitano è intervenuto, dietro le quinte o apertamente, per bloccare questo o quel decreto. Nel febbraio dell’anno scorso inviò una lettera ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio per «richiamare l’attenzione sull’ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche fin qui apportate nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge cosiddetto “milleproroghe”». In quel testo, in effetti, c’era di tutto, secondo una tradizione antica che risale alla Prima Repubblica: nella grande palude del bicameralismo perfetto spesso l’unico modo per approvare un provvedimento è infilarlo di straforo in un decreto. Non sarà costituzionalmente irreprensibile, ma può essere di grande utilità.
Lo scorso novembre, nel pieno della crisi finanziaria e con il governo Berlusconi oramai agli sgoccioli, il Quirinale intervenne di nuovo per bloccare il decreto che avrebbe reso immediate le misure che il governo stava per approvare in risposta alla famosa lettera di Bruxelles. Secondo Napolitano alcuni dei provvedimenti ipotizzati - per esempio quelli sul Welfare, il diritto del lavoro e i licenziamenti - non potevano essere affrontati con uno strumento d’urgenza, ma andavano inseriti nel maxiemendamento alla legge di stabilità che in quei giorni era al vaglio del Parlamento.
In un paio di mesi, tutto è cambiato. Di licenziamenti e riforma dell’articolo 18 si è già cominciato diffusamente a parlare, e la più grande riforma delle pensioni che l’Italia abbia mai avuto è già stata fatta: per decreto. Il «salva-Italia» e il «cresci-Italia» sono due decreti-omnibus che contengono l’equivalente di una ventina di leggi e forse più: se fossero mai venuti in mente a Berlusconi (o a chiunque dei suoi predecessori), l’opposizione sarebbe insorta e il Quirinale avrebbe mandato i corazzieri. Ha dunque ragione Brunetta quando osserva, con una punta di sconsolato rammarico, che «avevamo ragione noi. Se si vuole avere un impatto immediato sul Paese, sull’economia e sui mercati occorre lavorare per decreto. Lo dicevamo noi, adesso Monti lo fa». Merito (o colpa) della Grande Crisi, naturalmente, che impone scelte rapide e decisioni immediate. E su questo nessuno discute: altrimenti perché mai avremmo mandato al governo una squadra di tecnici? E siccome sono tutti dei simpatici secchioni, c’è da giurare che i loro decreti siano inappuntabili, e che giustamente il Quirinale s’affretti a firmarli quasi senza leggerli.
Però il problema rimane, e prima o poi meriterà una riflessione più approfondita. È vero che la democrazia in Italia non è sospesa, visto che il governo dispone della (larga) maggioranza del Parlamento. Ma è anche vero che il Parlamento mostra ogni giorno di più la sua inutilità: non esprime ministri né sottosegretari, non scrive le leggi, non disegna le riforme. Ai parlamentari non è rimasto altro che qualche comparsata in tv e un voto di fiducia settimanale. Dalla centralità del Parlamento siamo rapidamente passati alla sua eclissi totale: per decreto, e senza neppure accorgercene.
di Fabrizio Rondolino
Tratto da Il Giornale del 29 gennaio 2012
Questa volta, bisogna riconoscerlo, Roberto Calderoli qualche ragione ce l’ha. All’ex ministro leghista della Semplificazione il decreto sulle semplificazioni appena varato dal governo tecnico ha fatto venire la mosca al naso: e non (soltanto) perché a Monti è riuscito di fare quello che Calderoli e i suoi colleghi avevano soltanto, e parzialmente, impostato. Ma anche, e soprattutto, perché «buona parte dei contenuti del decreto sono gli stessi, o quanto meno una loro variante, del decreto per la crescita predisposto dal sottoscritto con Castelli, Romani e Brunetta, che mai ha visto la luce a causa dell’indisponibilità del presidente Napolitano a firmarlo». La conclusione di Calderoli è apertamente polemica: «Due pesi e due misure, caro presidente Napolitano, che mi amareggiano e che fanno vacillare la stima che avevo per lei».
A sostegno della ricostruzione del ministro leghista interviene Brunetta: «È vero, fummo impossibilitati a fare un maxiemendamento al decreto perché ci furono le perplessità del Colle». Del resto, non è un mistero che il Quirinale, per tradizione e per cultura politica, sia da sempre restìo alla decretazione d’urgenza, preferendo invece l’iter parlamentare classico e privilegiando dunque il confronto con le opposizioni rispetto all’efficacia e alla rapidità della decisione.
Nei confronti del governo Berlusconi più volte Napolitano è intervenuto, dietro le quinte o apertamente, per bloccare questo o quel decreto. Nel febbraio dell’anno scorso inviò una lettera ai presidenti delle Camere e al presidente del Consiglio per «richiamare l’attenzione sull’ampiezza e sulla eterogeneità delle modifiche fin qui apportate nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge cosiddetto “milleproroghe”». In quel testo, in effetti, c’era di tutto, secondo una tradizione antica che risale alla Prima Repubblica: nella grande palude del bicameralismo perfetto spesso l’unico modo per approvare un provvedimento è infilarlo di straforo in un decreto. Non sarà costituzionalmente irreprensibile, ma può essere di grande utilità.
Lo scorso novembre, nel pieno della crisi finanziaria e con il governo Berlusconi oramai agli sgoccioli, il Quirinale intervenne di nuovo per bloccare il decreto che avrebbe reso immediate le misure che il governo stava per approvare in risposta alla famosa lettera di Bruxelles. Secondo Napolitano alcuni dei provvedimenti ipotizzati - per esempio quelli sul Welfare, il diritto del lavoro e i licenziamenti - non potevano essere affrontati con uno strumento d’urgenza, ma andavano inseriti nel maxiemendamento alla legge di stabilità che in quei giorni era al vaglio del Parlamento.
In un paio di mesi, tutto è cambiato. Di licenziamenti e riforma dell’articolo 18 si è già cominciato diffusamente a parlare, e la più grande riforma delle pensioni che l’Italia abbia mai avuto è già stata fatta: per decreto. Il «salva-Italia» e il «cresci-Italia» sono due decreti-omnibus che contengono l’equivalente di una ventina di leggi e forse più: se fossero mai venuti in mente a Berlusconi (o a chiunque dei suoi predecessori), l’opposizione sarebbe insorta e il Quirinale avrebbe mandato i corazzieri. Ha dunque ragione Brunetta quando osserva, con una punta di sconsolato rammarico, che «avevamo ragione noi. Se si vuole avere un impatto immediato sul Paese, sull’economia e sui mercati occorre lavorare per decreto. Lo dicevamo noi, adesso Monti lo fa». Merito (o colpa) della Grande Crisi, naturalmente, che impone scelte rapide e decisioni immediate. E su questo nessuno discute: altrimenti perché mai avremmo mandato al governo una squadra di tecnici? E siccome sono tutti dei simpatici secchioni, c’è da giurare che i loro decreti siano inappuntabili, e che giustamente il Quirinale s’affretti a firmarli quasi senza leggerli.
Però il problema rimane, e prima o poi meriterà una riflessione più approfondita. È vero che la democrazia in Italia non è sospesa, visto che il governo dispone della (larga) maggioranza del Parlamento. Ma è anche vero che il Parlamento mostra ogni giorno di più la sua inutilità: non esprime ministri né sottosegretari, non scrive le leggi, non disegna le riforme. Ai parlamentari non è rimasto altro che qualche comparsata in tv e un voto di fiducia settimanale. Dalla centralità del Parlamento siamo rapidamente passati alla sua eclissi totale: per decreto, e senza neppure accorgercene.
MORALE PRIVATA E PUBBLICI COMPROMESSI
Un presidente per disgrazia ricevuta
Nessun revisionismo, nessun insincero onore delle armi, nessun omaggio ipocrita, nessuna dichiarazione sul filo dell'acrobazia verbale. Il Pdl decide di evitare i funerali di Oscar Luigi Scalfaro. E sceglie un eloquente silenzio rispetto al giudizio su una delle figure più controverse della nostra storia repubblicana.
di Vittorio Feltri
Tratto da Il Giornale del 30 gennaio 2012
L’antiquariato della Repubblica italiana perde un altro pezzo e va estinguendosi: è morto Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del ribaltone. Fu lui, infatti, con la collaborazione malandrina di Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, a convincere Umberto Bossi ad abbandonare la maggioranza di centrodestra, provocando così la caduta del primo governo Berlusconi. Tutto accadde tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995. Ci si aspettava che il capo dello Stato, uscito momentaneamente di scena il Cavaliere, sciogliesse le Camere e indicesse elezioni anticipate. Neanche per sogno.
Il Quirinale, non contento di aver sottratto la Lega alla coalizione che appoggiava l’esecutivo, si adoperò, con i citati complici (D’Alema e Buttiglione), a far traslocare i padani nel centrosinistra allo scopo di dar vita a un nuovo governo presieduto da Lamberto Dini, anche questi proveniente dalle file berlusconiane. Un capolavoro di scorrettezza, un tipico imbroglio italiano perché formalmente legittimo anche se, nella sostanza, irrispettoso della sovranità popolare. Paradossalmente chi aveva vinto le elezioni fu cacciato all’opposizione, e chi le aveva perse fu promosso alla guida del Paese. Ecco. Basterebbe l’episodio narrato a fotografare l’uomo, abile e spregiudicato, pronto a tutto per imporre la propria volontà ispirata dal cielo. Ma la sua storia è talmente piena di aneddoti che non può esaurirsi nel racconto del ribaltone. Anche perché, sotto la sua presidenza (e regia) se ne registrò un altro, altrettanto clamoroso, alcuni anni appresso. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, gongolante per aver ottenuto l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Ma la sua felicità durò poco, perché Fausto Bertinotti, a un certo punto, gli votò contro e, euro o non euro, il Professore dovette andarsene a casa. Ancora una volta sarebbe stato opportuno mobilitare le urne, visto che Rifondazione comunista aveva ritirato il suo sostegno alla maggioranza. Ma Scalfaro diede l’incarico di formare un nuovo ministero a D’Alema. Il quale però non aveva i numeri, e se li procurò cooptando Clemente Mastella con un pezzo dell’Udc (allora Ccd) prelevato dal centrodestra. La mossa fu denominata ribaltino. D’Alema stette in sella un annetto. Sloggiò dopo la sconfitta alle regionali. E il capo dello Stato lo sostituì con Giuliano Amato, che concluse la tribolata legislatura nel 2001.
di Vittorio Feltri
Tratto da Il Giornale del 30 gennaio 2012
L’antiquariato della Repubblica italiana perde un altro pezzo e va estinguendosi: è morto Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del ribaltone. Fu lui, infatti, con la collaborazione malandrina di Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione, a convincere Umberto Bossi ad abbandonare la maggioranza di centrodestra, provocando così la caduta del primo governo Berlusconi. Tutto accadde tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995. Ci si aspettava che il capo dello Stato, uscito momentaneamente di scena il Cavaliere, sciogliesse le Camere e indicesse elezioni anticipate. Neanche per sogno.
Il Quirinale, non contento di aver sottratto la Lega alla coalizione che appoggiava l’esecutivo, si adoperò, con i citati complici (D’Alema e Buttiglione), a far traslocare i padani nel centrosinistra allo scopo di dar vita a un nuovo governo presieduto da Lamberto Dini, anche questi proveniente dalle file berlusconiane. Un capolavoro di scorrettezza, un tipico imbroglio italiano perché formalmente legittimo anche se, nella sostanza, irrispettoso della sovranità popolare. Paradossalmente chi aveva vinto le elezioni fu cacciato all’opposizione, e chi le aveva perse fu promosso alla guida del Paese. Ecco. Basterebbe l’episodio narrato a fotografare l’uomo, abile e spregiudicato, pronto a tutto per imporre la propria volontà ispirata dal cielo. Ma la sua storia è talmente piena di aneddoti che non può esaurirsi nel racconto del ribaltone. Anche perché, sotto la sua presidenza (e regia) se ne registrò un altro, altrettanto clamoroso, alcuni anni appresso. A Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, gongolante per aver ottenuto l’ingresso dell’Italia nella moneta unica. Ma la sua felicità durò poco, perché Fausto Bertinotti, a un certo punto, gli votò contro e, euro o non euro, il Professore dovette andarsene a casa. Ancora una volta sarebbe stato opportuno mobilitare le urne, visto che Rifondazione comunista aveva ritirato il suo sostegno alla maggioranza. Ma Scalfaro diede l’incarico di formare un nuovo ministero a D’Alema. Il quale però non aveva i numeri, e se li procurò cooptando Clemente Mastella con un pezzo dell’Udc (allora Ccd) prelevato dal centrodestra. La mossa fu denominata ribaltino. D’Alema stette in sella un annetto. Sloggiò dopo la sconfitta alle regionali. E il capo dello Stato lo sostituì con Giuliano Amato, che concluse la tribolata legislatura nel 2001.
lunedì 30 gennaio 2012
IL "GIORNALONE" E' PERPLESSO
Rep. delusa da Monti
Tratto da Il Foglio del 27 gennaio 2012
“Non si può costituire il Cln assieme a Mussolini”, dicono nei corridoi di Largo Fochetti, sede del giornalone del centrosinistra: Repubblica.
Niente pacificazione nazionale, niente grande coalizione, nessuna legittimazione per il patto tripartito fra Pdl, Pd e Udc visto che Mario Monti (con Giorgio Napolitano) dà l’impressione di tendere una troppo generosa mano a Silvio Berlusconi, belzebù. Da qui il pressing insistito su Corrado Passera (e il tremendo sospetto che la sua presenza su una recente copertina di Panorama sia il segnacolo di un corteggiamento serio da parte del Cav.): e la faccia questa benedetta asta per le frequenze televisive! E che dolori, ieri, quando Berlusconi in persona – cioè quello che secondo loro agita i peggiori incubi di Monti: “Il professore inizia a temere il Pdl”, scrive Rep. “Non so se riesce a tenere fino alla fine”, rilancia Rep. – ha candidamente confessato che a lui, invece, il governo tecnico va benone (“non ci tiriamo indietro”) e ha persino provocato il solito rigurgito bossiano di male parole: “Berlusconi? E’ una mezza cartuccia”.
Se è vero che una parte minoritaria del Pdl, della corte del Cavaliere (soprattutto gli ex di An), soffia con scarsi risultati nelle orecchie di Berlusconi le parole “elezioni” e “anticipate”, si conferma ogni giorno di più – come sanno i bene informati – che il partito della zizzania ha il suo vero quartier generale nella redazione di Repubblica. Guai a parlare di grande coalizione, da quelle parti: ne sa qualcosa il povero Enrico Letta, che quella formula l’ha usata sul serio, e per questo è scarsamente amato.
“Il problema è che Monti, loro, non riescono a eterodirigerlo com’erano abituati a fare con tutti gli altri. Sono stati sempre loro a incoronare gli antiberlusconi di turno, a partire da Rutelli. E invece Monti fa parte di un’altra corazzata, è imbarcato sull’incrociatore Corriere della Sera. Insomma è un’altra scuola, un’altra genìa e non fa nulla per ingraziarsi Repubblica”, sostiene Maurizio Gasparri. Basta seguire le mosse dell’editore Carlo De Benedetti (CDB), decrittare l’arzigogolio del Fondatore (Eugenio Scalfari), osservare la freddezza dimostrata da Rep. nei confronti del professor Monti dal momento in cui si è seduto sulle poltrone bianche e orridamente criptoberlusconiane di Bruno Vespa: che delusione, “una favola interrotta” ha sospirato Curzio Maltese. E pensare che Ezio Mauro, il direttore, era pronto a esaltarne la dote più forte (ai suoi occhi): la discontinuità con “l’egoarca”. E invece niente. Un alieno, questo Mario Monti, uno che, con Elsa Fornero, vorrebbe abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, uno che fa preoccupare la tosta Mariastella Gelmini (“ma non è che ci sorpassa a destra?”).
Tratto da Il Foglio del 27 gennaio 2012
“Non si può costituire il Cln assieme a Mussolini”, dicono nei corridoi di Largo Fochetti, sede del giornalone del centrosinistra: Repubblica.
Niente pacificazione nazionale, niente grande coalizione, nessuna legittimazione per il patto tripartito fra Pdl, Pd e Udc visto che Mario Monti (con Giorgio Napolitano) dà l’impressione di tendere una troppo generosa mano a Silvio Berlusconi, belzebù. Da qui il pressing insistito su Corrado Passera (e il tremendo sospetto che la sua presenza su una recente copertina di Panorama sia il segnacolo di un corteggiamento serio da parte del Cav.): e la faccia questa benedetta asta per le frequenze televisive! E che dolori, ieri, quando Berlusconi in persona – cioè quello che secondo loro agita i peggiori incubi di Monti: “Il professore inizia a temere il Pdl”, scrive Rep. “Non so se riesce a tenere fino alla fine”, rilancia Rep. – ha candidamente confessato che a lui, invece, il governo tecnico va benone (“non ci tiriamo indietro”) e ha persino provocato il solito rigurgito bossiano di male parole: “Berlusconi? E’ una mezza cartuccia”.
Se è vero che una parte minoritaria del Pdl, della corte del Cavaliere (soprattutto gli ex di An), soffia con scarsi risultati nelle orecchie di Berlusconi le parole “elezioni” e “anticipate”, si conferma ogni giorno di più – come sanno i bene informati – che il partito della zizzania ha il suo vero quartier generale nella redazione di Repubblica. Guai a parlare di grande coalizione, da quelle parti: ne sa qualcosa il povero Enrico Letta, che quella formula l’ha usata sul serio, e per questo è scarsamente amato.
“Il problema è che Monti, loro, non riescono a eterodirigerlo com’erano abituati a fare con tutti gli altri. Sono stati sempre loro a incoronare gli antiberlusconi di turno, a partire da Rutelli. E invece Monti fa parte di un’altra corazzata, è imbarcato sull’incrociatore Corriere della Sera. Insomma è un’altra scuola, un’altra genìa e non fa nulla per ingraziarsi Repubblica”, sostiene Maurizio Gasparri. Basta seguire le mosse dell’editore Carlo De Benedetti (CDB), decrittare l’arzigogolio del Fondatore (Eugenio Scalfari), osservare la freddezza dimostrata da Rep. nei confronti del professor Monti dal momento in cui si è seduto sulle poltrone bianche e orridamente criptoberlusconiane di Bruno Vespa: che delusione, “una favola interrotta” ha sospirato Curzio Maltese. E pensare che Ezio Mauro, il direttore, era pronto a esaltarne la dote più forte (ai suoi occhi): la discontinuità con “l’egoarca”. E invece niente. Un alieno, questo Mario Monti, uno che, con Elsa Fornero, vorrebbe abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, uno che fa preoccupare la tosta Mariastella Gelmini (“ma non è che ci sorpassa a destra?”).
sabato 28 gennaio 2012
27 GENNAIO GIORNO DELLA MEMORIA
27 gennaio, “Giornata della Memoria”. Ogni Comune, ogni scuola, ogni classe, ogni docente avrà promosso certamente qualche iniziativa. L’ho fatto anch’io, in modi diversi a seconda dell’età degli studenti che avevo di fronte, cercando, soprattutto, di suscitare in loro una riflessione sul senso del nostro “ricordare”, che altro non è se non “ridare al cuore” i fatti, le storie, le persone, affinché quei fatti, quelle storie, quelle persone arricchiscano il cuore in cui trovano dimora. E lo rinnovino, rendendolo più umano.
Discutendo insieme abbiamo capito una cosa importante: un’ora, una giornata dedicata al passato non servono, se non sono richiamo per noi, per la nostra vita, per la società in cui viviamo. Se dal passato, se dalla storia non sappiamo o non vogliamo imparare, i morti, quei morti che oggi ricordiamo, son morti per nulla ed anche il 27 gennaio diventa solo un giorno in cui si salta il programma e si parla d’altro. Una parentesi che si apre, si chiude e, come nulla fosse accaduto, tutto poi torna quel che era prima.
Oggi, in una classe, abbiamo letto l’editoriale scritto da Elio Vittorini sul primo numero del Politecnico. Era il 29 settembre 1945.
“Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dachau. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto?
Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro?
Questa «cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev (…) L’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini. Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell’intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare anche l’uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro.
È qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell’U.R.S.S.) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società (…)”
Leggendo questo editoriale abbiamo pensato a noi. Ci siamo chiesti chi siamo e chi desideriamo essere. Abbiamo pensato all’Italia e all’Unione Europea che, oggi più di sempre, se vuole guardare avanti è bene che guardi indietro, ricordando la sua storia e riconoscendo le sue radici. La linfa di cui ha bisogno per vivere, la linfa che cerca non è nella tasca a destra o a sinistra; non sta nel portafoglio. Si trova lì, nel suo cuore…
Autore: Saro, Luisella Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
Discutendo insieme abbiamo capito una cosa importante: un’ora, una giornata dedicata al passato non servono, se non sono richiamo per noi, per la nostra vita, per la società in cui viviamo. Se dal passato, se dalla storia non sappiamo o non vogliamo imparare, i morti, quei morti che oggi ricordiamo, son morti per nulla ed anche il 27 gennaio diventa solo un giorno in cui si salta il programma e si parla d’altro. Una parentesi che si apre, si chiude e, come nulla fosse accaduto, tutto poi torna quel che era prima.
Oggi, in una classe, abbiamo letto l’editoriale scritto da Elio Vittorini sul primo numero del Politecnico. Era il 29 settembre 1945.
“Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti, di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mauthausen, Maidanek, Buchenwald, Dachau. Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto?
Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava la inviolabilità loro. Non è anzitutto di questa «cosa» che c’insegnava l’inviolabilità loro?
Questa «cosa», voglio subito dirlo, non è altro che la cultura: lei che è stata pensiero greco, ellenismo, romanesimo, cristianesimo latino, cristianesimo medioevale, umanesimo, riforma, illuminismo, liberalismo, ecc., e che oggi fa massa intorno ai nomi di Thomas Mann e Benedetto Croce, Benda, Huizinga, Dewey, Maritain, Bernanos e Unamuno, Lin Yutang e Santayana, Valéry, Gide e Berdiaev (…) L’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini. Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino ad oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell’intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare anche l’uomo. Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiano dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di render tecnica, la barbarie dei fatti loro.
È qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego. Se quasi mai (salvo in periodi isolati e oggi nell’U.R.S.S.) la cultura ha potuto influire sui fatti degli uomini dipende solo dal modo in cui la cultura si è manifestata. Essa ha predicato, ha insegnato, ha elaborato princìpi e valori, ha scoperto continenti e costruito macchine, ma non si è identificata con la società (…)”
Leggendo questo editoriale abbiamo pensato a noi. Ci siamo chiesti chi siamo e chi desideriamo essere. Abbiamo pensato all’Italia e all’Unione Europea che, oggi più di sempre, se vuole guardare avanti è bene che guardi indietro, ricordando la sua storia e riconoscendo le sue radici. La linfa di cui ha bisogno per vivere, la linfa che cerca non è nella tasca a destra o a sinistra; non sta nel portafoglio. Si trova lì, nel suo cuore…
Autore: Saro, Luisella Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
RISALGA A BORDO,.....
Sarà vero? Dai suoi precedenti politico religiosi sembra proprio di si.
Si tratta del classico prete “impegnato”, una trombetta frasaiola di sinistra, che inveisce grondando indignazione contro Berlusconi su “Famiglia Cristiana”, accusandolo di “doppiezza fra vita pubblica e vita privata”, che attacca dal pulpito i leghisti durante la Messa, che da Facebook lancia Rosy Bindi come primo ministro: da questi tipi qui c’è da aspettarsi di tutto
E infatti se n’è andato in crociera sulla Costa Concordia, dopo aver detto ai fedeli, suscitando grande ammirazione, che, avendo bisogno di una momento di riposo e di meditazione, sarebbe andato in ritiro spirituale.
Ma in Brianza i fedeli non hanno gradito questa presa per i fondelli, e neanche il fatto che sia sceso sulla prima scialuppa, mentre sulla nave c’erano ancora centinaia di donne, bambini e anziani.
L’ultima sua campagna progressista e indignata si è svolta fra maggio e giugno scorso quando ha guidato un comitato per il al referendum sull’acqua. Quell’acqua gli stava così tanto a cuore che alla fine ci è caduto dentro, dalla sua cabina segreta sulla Costa Concordia. E adesso a chi devolverà il risarcimento dei danni morali? Ai parrocchiani offesi?
venerdì 27 gennaio 2012
IL VOLTO DI CRISTO
Bosch, il Volto silenzioso della Salita al Calvario
di Gloria Riva
Nella Salita al Calvario di Hieronymus Bosch, il volto di Cristo emerge silenzioso. Cristo non è il centro dell’attenzione della folla. Chi tra costoro lo guarda veramente? Nessuno sembra aver premura di giungere al Calvario, anzi un soldato, con lo sguardo malizioso, blocca mediante uno scudo l’avanzare del triste corteo: che Cristo non sia crocifisso, che Cristo non muoia! Non si ripeta l’errore di farne un eroe! È necessario infatti che Cristo sia crocifisso perché si conosca il disegno del Padre. Gesù stesso lo aveva proclamato: Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me.
Bosch ritrae profeticamente un mondo beffardo e pieno di sé; un mondo che non sa che farsene della croce perché ne fabbrica molte di continuo a danno dei più deboli e puri. Un mondo che convive mollemente con la brutalità e la sofferenza innocente, purché questa rimanga anonima, scontata, come tutto ciò che di scontato c’è nella vita. Se Cristo sarà innalzato allora la sofferenza avrà un nome, se Cristo sarà crocifisso sarà gettato un ponte sulla morte: il nome del dolore sarà amore-che-si-dona; il ponte sulla morte sarà vita-che-non-muore.
È questo il volto da conculcare, da soffocare dentro l’agitarsi confuso e il vociare petulante di mille volti.
I volti qui sono diciotto e, disposti a gruppi di tre per sei volte, scandiscono il battito dell’ora delle tenebre. Di questi diciotto volti, quattordici sono contratti dall’ira, dallo scherno, da pensieri malvagi: sono le quattordici stazioni della via crucis che, come morsa di dolore, serrano Gesù; quattordici è anche però la somma numerica della generazioni che compongono in Matteo la genealogia di Gesù. Dunque in quei quattordici volti c’è riassunta tutta l’umanità, tutta la miseria dell’umanità.
Vi sono uomini primitivi e volgari, quasi bestiali nel loro urlare. Ricordano i tori di Basan che spalancano la bocca contro il giusto come canta il salmo 22 (o 21).
C’è la religiosità bigotta e piena di sé come quella della guardia del sommo sacerdote, con copricapo rosso, segno della superbia che regna sul suo capo. Impugna un bastone, scettro di un comando iniquo.
Come quella del notabile pensieroso e arcigno che guarda fiero e diritto davanti a sé. O ancora come quella del frate accanto al buon ladrone. Costui che dovrebbe essere il testimone della Parola (i francescani la portano anche nell’abito che ha la forma del Tau) ha il dito puntato e dal suo volto trapela l’assenza di misericordia.
Non tutti si rivolgono verso il Signore Gesù, anzi qui gli uomini sembrano sbranarsi a vicenda, sembrano sciolti da ogni criterio e dominati dalle forze dell’occulto. Ci sono infatti mescolati fra loro fattucchieri, (uno solo è chiaramente visibile proprio davanti a Cristo, ma ce n’è un secondo in alto semi nascosto dall’oscurità e dal notabile). Essi sono riconoscibili dal lungo cappello coi colori dell’acqua, dell’aria e del fuoco e una piccola sfera sulla sommità simbolo della terra. Dalla sfera si dipartono fili luminosi segni del potere occulto. Nel cappello sono simboleggiati perciò i quattro elementi fondamentali dell’universo sopra i quali essi esercitano il potere magico. Costoro sembrano essere i veri responsabili del caos e della follia umana.
Eppure la croce, così accuratamente elusa, così goffamente nascosta, traccia la diagonale dell’intero quadro e sta salda, come perno, come unico punto fisso e sicuro della scena. La croce è la meridiana della storia, è la trave portante del mondo che Cristo è venuto ad edificare. È, infine, l’impalcatura del tempio che Cristo avrebbe ricostruito in tre giorni.
Poi ci sono i quattro volti positivi: quello del Cireneo, del buon Ladrone, della Veronica e quello di Gesù.
Il Cireneo è colui che ha accettato su di sé il giogo della croce e già ne sperimenta gli effetti. Il buon ladrone getta uno sguardo implorante verso Cristo, si ritrae dalla salvezza a buon mercato dello zelante religioso e si volge verso il compagno di viaggio: l’uomo che con lui porta la croce. Cristo è l’icona della pace nel caos, della beltà nella bruttura del mondo. Egli ha gli occhi chiusi, ma è l’unico che vede; il suo capo reclinato riposa già sul legno della croce, pienamente abbandonato alla volontà del Padre, sicuro della volontà d’Amore del Padre anche in quest’ora. (Is 52, 13-14; 53, 3-4). Cristo è al centro della diagonale della croce e di un’altra diagonale che partendo dal buon ladrone giunge alla Veronica. Anche la Veronica ha gli occhi chiusi eppure vede: vede la gloria del Cristo vivente.
Dall’oscurità assoluta che regna sulla scena il volto della Veronica sorge luminoso. Nessuna fonte di luce è presso di lei se non ciò che ella vede, se non ciò a cui è diretto il suo intimo sguardo, la sua beatificante contemplazione: il volto del Cristo che impresso sul telo annuncia già la sua Risurrezione. Clio, come diceva Peguy, la musa della storia cerca vane traccia ed è sempre in ritardo, mentre lei la Veronica del calvario sbaraglia tutti: tira fuori il suo fazzoletto, un fazzoletto da nulla e trova una traccia eterna.
È, infatti, solo a questo punto che Bosch ci rivela il diciannovesimo volto del dipinto. L’unico che guarda verso l’osservatore. L’unico che ci interpella: il volto sereno e divino di Cristo impresso nel telo sindonico. È lui, il Risorto, che dà senso all’esistenza umana. É il Cristo che fissa nel tempo la pace, dentro il susseguirsi di una storia minacciosa ma, alla fin fine, caricaturale. Solo in Cristo l’uomo ritrova il suo volto umano, ritrova impressa in lui, l’immagine del Cielo.
di Gloria Riva
Nella Salita al Calvario di Hieronymus Bosch, il volto di Cristo emerge silenzioso. Cristo non è il centro dell’attenzione della folla. Chi tra costoro lo guarda veramente? Nessuno sembra aver premura di giungere al Calvario, anzi un soldato, con lo sguardo malizioso, blocca mediante uno scudo l’avanzare del triste corteo: che Cristo non sia crocifisso, che Cristo non muoia! Non si ripeta l’errore di farne un eroe! È necessario infatti che Cristo sia crocifisso perché si conosca il disegno del Padre. Gesù stesso lo aveva proclamato: Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me.
Bosch ritrae profeticamente un mondo beffardo e pieno di sé; un mondo che non sa che farsene della croce perché ne fabbrica molte di continuo a danno dei più deboli e puri. Un mondo che convive mollemente con la brutalità e la sofferenza innocente, purché questa rimanga anonima, scontata, come tutto ciò che di scontato c’è nella vita. Se Cristo sarà innalzato allora la sofferenza avrà un nome, se Cristo sarà crocifisso sarà gettato un ponte sulla morte: il nome del dolore sarà amore-che-si-dona; il ponte sulla morte sarà vita-che-non-muore.
È questo il volto da conculcare, da soffocare dentro l’agitarsi confuso e il vociare petulante di mille volti.
I volti qui sono diciotto e, disposti a gruppi di tre per sei volte, scandiscono il battito dell’ora delle tenebre. Di questi diciotto volti, quattordici sono contratti dall’ira, dallo scherno, da pensieri malvagi: sono le quattordici stazioni della via crucis che, come morsa di dolore, serrano Gesù; quattordici è anche però la somma numerica della generazioni che compongono in Matteo la genealogia di Gesù. Dunque in quei quattordici volti c’è riassunta tutta l’umanità, tutta la miseria dell’umanità.
Vi sono uomini primitivi e volgari, quasi bestiali nel loro urlare. Ricordano i tori di Basan che spalancano la bocca contro il giusto come canta il salmo 22 (o 21).
C’è la religiosità bigotta e piena di sé come quella della guardia del sommo sacerdote, con copricapo rosso, segno della superbia che regna sul suo capo. Impugna un bastone, scettro di un comando iniquo.
Come quella del notabile pensieroso e arcigno che guarda fiero e diritto davanti a sé. O ancora come quella del frate accanto al buon ladrone. Costui che dovrebbe essere il testimone della Parola (i francescani la portano anche nell’abito che ha la forma del Tau) ha il dito puntato e dal suo volto trapela l’assenza di misericordia.
Non tutti si rivolgono verso il Signore Gesù, anzi qui gli uomini sembrano sbranarsi a vicenda, sembrano sciolti da ogni criterio e dominati dalle forze dell’occulto. Ci sono infatti mescolati fra loro fattucchieri, (uno solo è chiaramente visibile proprio davanti a Cristo, ma ce n’è un secondo in alto semi nascosto dall’oscurità e dal notabile). Essi sono riconoscibili dal lungo cappello coi colori dell’acqua, dell’aria e del fuoco e una piccola sfera sulla sommità simbolo della terra. Dalla sfera si dipartono fili luminosi segni del potere occulto. Nel cappello sono simboleggiati perciò i quattro elementi fondamentali dell’universo sopra i quali essi esercitano il potere magico. Costoro sembrano essere i veri responsabili del caos e della follia umana.
Eppure la croce, così accuratamente elusa, così goffamente nascosta, traccia la diagonale dell’intero quadro e sta salda, come perno, come unico punto fisso e sicuro della scena. La croce è la meridiana della storia, è la trave portante del mondo che Cristo è venuto ad edificare. È, infine, l’impalcatura del tempio che Cristo avrebbe ricostruito in tre giorni.
Poi ci sono i quattro volti positivi: quello del Cireneo, del buon Ladrone, della Veronica e quello di Gesù.
Il Cireneo è colui che ha accettato su di sé il giogo della croce e già ne sperimenta gli effetti. Il buon ladrone getta uno sguardo implorante verso Cristo, si ritrae dalla salvezza a buon mercato dello zelante religioso e si volge verso il compagno di viaggio: l’uomo che con lui porta la croce. Cristo è l’icona della pace nel caos, della beltà nella bruttura del mondo. Egli ha gli occhi chiusi, ma è l’unico che vede; il suo capo reclinato riposa già sul legno della croce, pienamente abbandonato alla volontà del Padre, sicuro della volontà d’Amore del Padre anche in quest’ora. (Is 52, 13-14; 53, 3-4). Cristo è al centro della diagonale della croce e di un’altra diagonale che partendo dal buon ladrone giunge alla Veronica. Anche la Veronica ha gli occhi chiusi eppure vede: vede la gloria del Cristo vivente.
Dall’oscurità assoluta che regna sulla scena il volto della Veronica sorge luminoso. Nessuna fonte di luce è presso di lei se non ciò che ella vede, se non ciò a cui è diretto il suo intimo sguardo, la sua beatificante contemplazione: il volto del Cristo che impresso sul telo annuncia già la sua Risurrezione. Clio, come diceva Peguy, la musa della storia cerca vane traccia ed è sempre in ritardo, mentre lei la Veronica del calvario sbaraglia tutti: tira fuori il suo fazzoletto, un fazzoletto da nulla e trova una traccia eterna.
È, infatti, solo a questo punto che Bosch ci rivela il diciannovesimo volto del dipinto. L’unico che guarda verso l’osservatore. L’unico che ci interpella: il volto sereno e divino di Cristo impresso nel telo sindonico. È lui, il Risorto, che dà senso all’esistenza umana. É il Cristo che fissa nel tempo la pace, dentro il susseguirsi di una storia minacciosa ma, alla fin fine, caricaturale. Solo in Cristo l’uomo ritrova il suo volto umano, ritrova impressa in lui, l’immagine del Cielo.
TECNICHE DI UN COLPO DI STATO
Saluti alla Costituzione
di Davide Giacalone
Tratto dal sito di Davide Giacalone il 24 gennaio 2012
C’era una volta un re, di cui gli italiani fecero democraticamente e volentieri a meno. Fecero bene.
Quel re, però, non sognava neanche di avere i poteri di cui oggi dispone l’uomo del Colle. Il peso del Quirinale è maggiore oggi di quando l’inquilino era re e imperatore. Tutto bene, se così disponesse la Costituzione, di cui lo stesso presidente dovrebbe essere garante. Ma non è così: quel potere s’è espanso ben oltre i limiti costituzionali. Quello presidenziale è, nella nostra Carta, un potere potenzialmente elastico, ora giunto ad un grado estremo di tensione. Ciò preoccupa in sé, ma diventa pericoloso se accompagnato da generale indifferenza, silenzio, conformismo. C’è una scuola, politica e culturale, che afferma l’immutabilità della Costituzione. Quella scuola tace, nel mentre la si riduce in coriandoli. Quindi parliamo noi. Mi daranno del teppista, ma poco me ne cale.
Il decreto legge sulle “liberalizzazioni” recherà in calce la firma di Giorgio Napolitano, il quale disse che non avrebbe mai più firmato decreti disomogenei e non effettivamente urgenti. Porterà la firma di quel presidente della Repubblica che la negò al precedente governo, quando questo si proponeva non di usarla per regolare il futuro, ma per far fronte alla crisi del debito e alle richieste pressanti che ci venivano dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. Allora il Quirinale sostenne che c’era già la manovra d’aggiustamento, ritenendola sufficiente, e che, pertanto, nessuna urgenza avevano altre misure. Le chiedeva l’Unione europea? Se proprio voleva chiederle, avrebbe dovuto chiederle a lui. In quel momento (novembre scorso) la conseguenza politica era evidente: il governo in carica avrebbe portato all’approvazione della manovra, poi, senza che il Parlamento l’avesse mai sfiduciato, sarebbe stato sostituito. Con il nuovo capo dell’esecutivo già pronto e nominato. Sfido chiunque a dimostrare il contrario..... Firma, comunque, un decreto non solo ampiamente disomogeneo, ma contenente (anche) misure non immediatamente operative, bensì indicazioni programmatiche e deleghe ad altri poteri. Il Colle di oggi, quindi, si attiene ad una dottrina opposta a quella adottata in precedenza.
Non basta, perché dal Quirinale si lavora attivamente alla riforma del sistema elettorale, utilizzando uno spazio politico aperto dal rigetto dei referendum, operato (giustamente) dalla Corte costituzionale. Riforma che ci vuole, come qui sosteniamo da molto tempo, che i due grossi partiti devono fare sulla base di un accordo esplicito, se non vogliono essere seppelliti dal governo Monti, ma che diventa singolare se le consultazioni e la mediazione sono a cura di chi non ha titoli costituzionali. In altre parole: il sistema elettorale nuovo finisce con l’accompagnare un rivolgimento costituzionale di fatto. Ed è un colpo di mano. Un colpo allo Stato.
Neanche questo basta, perché il presidente della Repubblica prende nelle sue mani un procedimento legislativo che gli deve essere estraneo, i cui effetti si vedranno alle prossime elezioni, che sono anche quelle che insedieranno il Parlamento il cui primo compito sarà quello di eleggere il presidente della Repubblica. Il successore. O il continuatore? La partita è delicatissima, talché non si deve essere troppo delicati e si deve avere il coraggio delle parole chiare: se servisse a rieleggere Napolitano sarebbe una botta micidiale, sarebbe la fine della Costituzione.
Lo so, tutti dicono il contrario. C’è una gara a chi scrive meglio l’elogio del Colle, ossequiando il grande equilibrio politico di chi ha militato per una vita in un partito che reclamava l’avvento del socialismo reale, e il grande spirito europeista di chi è stato, per una vita, fra quanti lavoravano contro l’Europa (due momenti decisivi: il serpente monetario e gli euromissili, due paraggi che videro partecipe la sinistra democratica europea e avversari i comunisti italiani, fra i quali Napolitano). C’è una gara a chi argomenta meglio il sano valore politico di un governo che commissaria la democrazia e riduce i grossi partiti a ostaggi. Ma è una gara fra impotenti, bolliti e vigliacchi. E’ una gara fra responsabili dell’orrenda situazione in cui ci troviamo. Fra quanti preferiscono soccombere e cedere sovranità, piuttosto che fare i conti con le proprie responsabilità. Le loro colpe, però, non devono divenire alibi per distruggere le basi costituzionali della nostra vita collettiva.
Per quel che conta (poco), mi preme far sapere che c’è chi ancora conserva memoria del dettato costituzionale e vede il pericolo di una democrazia che misura il consenso con gli applausi. Finendo eterodiretta.
mercoledì 25 gennaio 2012
ET INCARNATUS EST
Il verbo si è fatto carne. Qui si sente davvero. Inoltre qui io sento che tutta la creazione rimane come incantata davanti a questo prodigio e attraverso questa voce esprime questo incanto.
Mozart Great Mass in c minor kv. 427 10. Et Incarnatus est Arleen Auger Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks Leonard Bernstein
CARRON questa sera ci ha fatto ascoltare Mozart presentando "all'origine della pretesa cristiana"
LA BELLEZZA DEL VOLTO DI DIO
Il Cristo di Rublev e il Pantocratore del Sinai
di Gloria Riva
Ritroviamo la traccia eterna del volto di Cristo, dipinta a fuoco sul legno antico da Andrej Rublev. Un volto maestoso e grave dagli occhi penetranti. Ti fissa in volto e pare capire. La bocca accenna a un sorriso e di fronte a lui tutto s’infrange: affanno, dubbi, dolori, tutto è confinato là, oltre la porta del tempo. Rimani solo con lui e hai la sensazioni che non manchi più nulla.
Nel collo gonfio soffia lo Spirito del Dio vivente. Il volto è costruito entro due centri concentrici. Tutte le icone si scrivono così, dentro una simbologia geometrica che rimanda al Mistero. I due cerchi sono il connubio fra Cielo e terra. Fra eternità e finitudine. Questo volto è una finestra sul mondo a venire.
Questo volto narra una storia antica. In lui c’è il sapore dell’esistenza umana nella sua totalità. Ci sei anche tu, con la tua storia e il tuo dolore. Questa immagine profuma di terra. E nella terra ci è stata, sul serio, per lunghi anni.
Rublev la dipinse tra il 1410 e il 1420 poi se ne perse ogni traccia. Fu ritrovata solo alla fine dell’Ottocento, capovolta, immersa in un terreno umido come asse di passaggio per accedere a una stalla. Un'icona umiliata: nessuno passando avrebbe potuto sospettare che quell’asse, così grezzo, dietro, contenesse un tale splendore. La traccia eterna conculcata.
Si dice che Cristo stesso avesse rivelato a Rublev come dipingerlo. Andrej era rimasto sconvolto, un giorno, di fronte allo spettacolo di un saccheggio. Una banda di Tartari fece irruzione nel suo villaggio, depredarono, abusarono, uccisero. E lui lì, spettatore inerme e sgomento. Non dipinse più per lungo tempo. Era come se lo sguardo dovesse purificarsi dal veduto, dal terribile, dal demoniaco che c’è, sempre, nella violenza dell’uomo sull’uomo. Ma un giorno Cristo gli si rivelò, mostrandogli il volto del Misericordioso. Rublev vide, e non dimenticò mai più. Più forte della memoria delle violenze di cui era stato spettatore, fu la memoria della grazia di cui era stato protagonista.
Forse non a caso il Cristo di Rublev non ha ombre. Tutto il volto è pura luce, porta i segni del fango e dello scherno, ma risplende di una vittoria inaudita: quella dell’amore e del perdono.
Solo nel 1961, durante un’operazione di restauro delle icone, si scoprì che sotto la pittura di un'icona del XII secolo ve ne era un’altra, più antica, maestosa. Bellissima. Era l’immagine austera e soave del Cristo del Sinai che oggi contempliamo. In lui, il desiderio di Mosè: «Mostrami il tuo volto», è compiuto e permane nel tempo.
Oggi (almeno in Europa) non ci sono lotte iconoclaste, né rivoluzioni cruente come quella che sconvolse la Russia nell’ottobre del 1917, eppure l’uomo contemporaneo ha voluto e vuole sistematicamente cancellare questo volto dal suo panorama. Ne è un esempio significativo e drammatico l’artista austriaco Arthur Rainer. Rainer, come Rouault, del volto di Cristo ne ha fatto la sua ossessione. Egli ha ripreso le antiche icone del Pantocratore le ha riprodotte con tratto appassionato e deciso e poi, con un gesto impulsivo e bizzarro, ha sovrapposto strati di colore e le ha scarabocchiate, tentando così di rendere visiva la volontà di conculcare.
Nel fare questo però, Rainer usa una tecnica particolare che lascia al colore grande trasparenza, cosicché Cristo riappare sempre, indelebile. Quel volto, nonostante la volontà di sopprimerlo, resta incancellabile dalla memoria del cuore.
Di fronte all’evidenza del volto di Cristo che lascia costantemente un sigillo indelebile nel cuore e nella storia dell’uomo, l’artista austriaco ebbe a dire: «Quando, per il fatto di essere ritratto da un artista, un viso morto riceve in un certo senso vita, si può benissimo vedervi una metafora della Risurrezione».
Nella tensione fra il volto dell’uomo che anela alla salvezza e il Volto di Dio che in Gesù Cristo vuole guardare negli occhi la sua creatura, si apre il varco della mendicanza. Una mendicanza che il grande Karol Wojtyla aveva stigmatizzato così:
Sono un viandante sullo stretto marciapiede della terra
e non distolgo il pensiero dal Tuo Volto
che il mondo non mi svela.
Ricordati cuore di quello sguardo
In cui ti attende tutta l’eternità.
di Gloria Riva
Ritroviamo la traccia eterna del volto di Cristo, dipinta a fuoco sul legno antico da Andrej Rublev. Un volto maestoso e grave dagli occhi penetranti. Ti fissa in volto e pare capire. La bocca accenna a un sorriso e di fronte a lui tutto s’infrange: affanno, dubbi, dolori, tutto è confinato là, oltre la porta del tempo. Rimani solo con lui e hai la sensazioni che non manchi più nulla.
Nel collo gonfio soffia lo Spirito del Dio vivente. Il volto è costruito entro due centri concentrici. Tutte le icone si scrivono così, dentro una simbologia geometrica che rimanda al Mistero. I due cerchi sono il connubio fra Cielo e terra. Fra eternità e finitudine. Questo volto è una finestra sul mondo a venire.
Questo volto narra una storia antica. In lui c’è il sapore dell’esistenza umana nella sua totalità. Ci sei anche tu, con la tua storia e il tuo dolore. Questa immagine profuma di terra. E nella terra ci è stata, sul serio, per lunghi anni.
Rublev la dipinse tra il 1410 e il 1420 poi se ne perse ogni traccia. Fu ritrovata solo alla fine dell’Ottocento, capovolta, immersa in un terreno umido come asse di passaggio per accedere a una stalla. Un'icona umiliata: nessuno passando avrebbe potuto sospettare che quell’asse, così grezzo, dietro, contenesse un tale splendore. La traccia eterna conculcata.
Si dice che Cristo stesso avesse rivelato a Rublev come dipingerlo. Andrej era rimasto sconvolto, un giorno, di fronte allo spettacolo di un saccheggio. Una banda di Tartari fece irruzione nel suo villaggio, depredarono, abusarono, uccisero. E lui lì, spettatore inerme e sgomento. Non dipinse più per lungo tempo. Era come se lo sguardo dovesse purificarsi dal veduto, dal terribile, dal demoniaco che c’è, sempre, nella violenza dell’uomo sull’uomo. Ma un giorno Cristo gli si rivelò, mostrandogli il volto del Misericordioso. Rublev vide, e non dimenticò mai più. Più forte della memoria delle violenze di cui era stato spettatore, fu la memoria della grazia di cui era stato protagonista.
Forse non a caso il Cristo di Rublev non ha ombre. Tutto il volto è pura luce, porta i segni del fango e dello scherno, ma risplende di una vittoria inaudita: quella dell’amore e del perdono.
Più severo ma avvolto anch’esso nel mistero di una volontà di soppressione è il volto del Cristo Pantocratore del Monastero di Santa Caterina nel Sinai. Ieratico scrutatore. Guardandolo non abbiamo la sensazione di affacciarci al Cielo, come nel caso del Cristo di Rublev, ma qui è piuttosto il Cielo che guarda noi. Gli occhi incantano e sono occhi diversi. Tracciando una linea di demarcazione sul volto si nota la differenza: il lato sinistro, per chi guarda, è quello della misericordia, il lato destro quello della giustizia. Visto nell’insieme il volto resta quello dell’amore che mentre rende palese la verità della nostra esistenza, rivela nel contempo l’amore di Dio per le sue Creature, il desiderio di riscatto e di salvezza.
Questo volto si solleva dal tempo, è come teatro di una storia che ci ha coinvolti tutti, trovandoci ora accusati, ora accusatori. Ora vittime, ora carnefici. Questo volto vide la luce nella terra di Mosè, la terra della Santità di Dio. In questa terra secoli dopo la morte di Cristo la regina Elena, madre di Costantino, volle edificare un Monastero. Eravamo nel IV secolo. Due secoli dopo, in questo stesso luogo, venne sepolto il corpo di santa Caterina d’Alessandria e venne dipinto il Cristo Pantocratore. Il martirio toccato in sorte alla Santa fu anche quello toccato alle Icone nella lotta iconoclasta. Il volto del Bellissimo fu velato. Solo nel 1961, durante un’operazione di restauro delle icone, si scoprì che sotto la pittura di un'icona del XII secolo ve ne era un’altra, più antica, maestosa. Bellissima. Era l’immagine austera e soave del Cristo del Sinai che oggi contempliamo. In lui, il desiderio di Mosè: «Mostrami il tuo volto», è compiuto e permane nel tempo.
Oggi (almeno in Europa) non ci sono lotte iconoclaste, né rivoluzioni cruente come quella che sconvolse la Russia nell’ottobre del 1917, eppure l’uomo contemporaneo ha voluto e vuole sistematicamente cancellare questo volto dal suo panorama. Ne è un esempio significativo e drammatico l’artista austriaco Arthur Rainer. Rainer, come Rouault, del volto di Cristo ne ha fatto la sua ossessione. Egli ha ripreso le antiche icone del Pantocratore le ha riprodotte con tratto appassionato e deciso e poi, con un gesto impulsivo e bizzarro, ha sovrapposto strati di colore e le ha scarabocchiate, tentando così di rendere visiva la volontà di conculcare.
Nel fare questo però, Rainer usa una tecnica particolare che lascia al colore grande trasparenza, cosicché Cristo riappare sempre, indelebile. Quel volto, nonostante la volontà di sopprimerlo, resta incancellabile dalla memoria del cuore.
Di fronte all’evidenza del volto di Cristo che lascia costantemente un sigillo indelebile nel cuore e nella storia dell’uomo, l’artista austriaco ebbe a dire: «Quando, per il fatto di essere ritratto da un artista, un viso morto riceve in un certo senso vita, si può benissimo vedervi una metafora della Risurrezione».
Nella tensione fra il volto dell’uomo che anela alla salvezza e il Volto di Dio che in Gesù Cristo vuole guardare negli occhi la sua creatura, si apre il varco della mendicanza. Una mendicanza che il grande Karol Wojtyla aveva stigmatizzato così:
Sono un viandante sullo stretto marciapiede della terra
e non distolgo il pensiero dal Tuo Volto
che il mondo non mi svela.
Ricordati cuore di quello sguardo
In cui ti attende tutta l’eternità.
CRONACA DI UNA MESSA DI RIPARAZIONE
di Marco Invernizzi
25-01-2012
Tante persone hanno riempito la grande chiesa di san Pio X, nella piazza milanese antistante il Politecnico, la sera del 24 gennaio, nella stessa ora, le nove di sera, in cui veniva inaugurato lo spettacolo di Romeo Castellucci al Teatro Parenti, che tanto ha attirato l’attenzione dei media per le offese al Volto di Cristo.
Persone “normali”, chiamate da un parroco “normale”, don Marco Barbetta, che ha pronunciato parole semplici e belle prima della Messa e durante la breve omelia, parole che almeno noi vorremmo ricordare visto che i giornalisti di Repubblica e del Corriere hanno preferito seguire la bagarre un po’ folkloristica con cui lo spettacolo è stato accolto da gruppi eterogenei nei pressi dello stesso teatro milanese, mentre neppure il quotidiano dei cattolici italiani ha ritenuto meritevole di una cronaca una Messa celebrata nella stessa città dove Avvenire viene pubblicato.
Anzitutto un ipotetico cronista avrebbe potuto descrivere la gente intervenuta. Parrocchiani anzitutto, e poi esponenti delle associazioni e dei movimenti che avevano invitato i loro aderenti a partecipare alla celebrazione, famiglie, tanti giovani e molti che hanno letto l’invito sulle pagine web della Bussola Quotidiana. Persone per niente esagitate, che hanno pregato accogliendo il messaggio centrale del parroco, ossia che la Messa di riparazione è una celebrazione straordinaria, al di fuori dall’orario consueto delle celebrazioni liturgiche, soltanto perché risponde a un evento pubblico, ma si rivolge anzitutto al cuore di ciascuno dei presenti. Un fatto oggettivamente offensivo del Volto di Cristo e della sensibilità di tanti milanesi cattolici potrebbe diventare l’occasione di conversione per ciascuno dei presenti, ha ricordato il parroco, e così possa nascere il bene dal male, come solo Dio è capace di fare.
Conversione è la parola che più ha accompagnato la celebrazione liturgica, accanto all’altra, inevitabilmente al centro dell’attenzione, del Volto di Cristo. Anche perché don Barbetta ha celebrato la liturgia della conversione di san Paolo, ricordando appunto come il cuore dell’uomo possa passare dalla persecuzione, dalle offese, all’amore totale, alla dedizione, così come appunto avvenne a Saulo di Tarso.
Sul cuore dell’uomo il parroco ha insistito, ricordando che la Messa che celebrava voleva riparare a un’offesa, ma nessuno si permetteva di giudicare il cuore dell’artefice dello spettacolo teatrale, verosimilmente pieno di contraddizioni, conflitti e sostanzialmente incomprensibile a chiunque non sia Dio, l’Unico che può veramente scrutare i cuori. D’altra parte, una fede autentica, una venerazione sincera del Volto di Cristo non può rinunciare a un giudizio, anche artistico: l’arte infatti ha una dimensione oggettiva e non può essere confinata alle intenzioni dell’artista.
Don Barbetta ha anche ricordato come l’episodio dello spettacolo teatrale di Castellucci sia soltanto uno dei tanti che offendono la Chiesa nella nostra epoca. Infatti la Messa era celebrata anche con l’intenzione di fare memoria dei tanti martiri cristiani di questi ultimi mesi in diverse nazioni del mondo, uno ogni cinque minuti secondo recenti statistiche, e per ricordare il diritto alla libertà e al rispetto dell’identità religiosa.
All’uscita, sempre l’ipotetico cronista avrebbe potuto raccogliere i commenti dei partecipanti. Avrebbe così potuto cogliere uno stile fermo e pacato, convinto che la fede deve diventare cultura per essere autentica e dunque non può non giudicare gli avvenimenti che a diverso titolo la riguardano, compresi quelli artistici … e un po’ blasfemi.
25-01-2012
Tante persone hanno riempito la grande chiesa di san Pio X, nella piazza milanese antistante il Politecnico, la sera del 24 gennaio, nella stessa ora, le nove di sera, in cui veniva inaugurato lo spettacolo di Romeo Castellucci al Teatro Parenti, che tanto ha attirato l’attenzione dei media per le offese al Volto di Cristo.
Persone “normali”, chiamate da un parroco “normale”, don Marco Barbetta, che ha pronunciato parole semplici e belle prima della Messa e durante la breve omelia, parole che almeno noi vorremmo ricordare visto che i giornalisti di Repubblica e del Corriere hanno preferito seguire la bagarre un po’ folkloristica con cui lo spettacolo è stato accolto da gruppi eterogenei nei pressi dello stesso teatro milanese, mentre neppure il quotidiano dei cattolici italiani ha ritenuto meritevole di una cronaca una Messa celebrata nella stessa città dove Avvenire viene pubblicato.
Anzitutto un ipotetico cronista avrebbe potuto descrivere la gente intervenuta. Parrocchiani anzitutto, e poi esponenti delle associazioni e dei movimenti che avevano invitato i loro aderenti a partecipare alla celebrazione, famiglie, tanti giovani e molti che hanno letto l’invito sulle pagine web della Bussola Quotidiana. Persone per niente esagitate, che hanno pregato accogliendo il messaggio centrale del parroco, ossia che la Messa di riparazione è una celebrazione straordinaria, al di fuori dall’orario consueto delle celebrazioni liturgiche, soltanto perché risponde a un evento pubblico, ma si rivolge anzitutto al cuore di ciascuno dei presenti. Un fatto oggettivamente offensivo del Volto di Cristo e della sensibilità di tanti milanesi cattolici potrebbe diventare l’occasione di conversione per ciascuno dei presenti, ha ricordato il parroco, e così possa nascere il bene dal male, come solo Dio è capace di fare.
Conversione è la parola che più ha accompagnato la celebrazione liturgica, accanto all’altra, inevitabilmente al centro dell’attenzione, del Volto di Cristo. Anche perché don Barbetta ha celebrato la liturgia della conversione di san Paolo, ricordando appunto come il cuore dell’uomo possa passare dalla persecuzione, dalle offese, all’amore totale, alla dedizione, così come appunto avvenne a Saulo di Tarso.
Sul cuore dell’uomo il parroco ha insistito, ricordando che la Messa che celebrava voleva riparare a un’offesa, ma nessuno si permetteva di giudicare il cuore dell’artefice dello spettacolo teatrale, verosimilmente pieno di contraddizioni, conflitti e sostanzialmente incomprensibile a chiunque non sia Dio, l’Unico che può veramente scrutare i cuori. D’altra parte, una fede autentica, una venerazione sincera del Volto di Cristo non può rinunciare a un giudizio, anche artistico: l’arte infatti ha una dimensione oggettiva e non può essere confinata alle intenzioni dell’artista.
Don Barbetta ha anche ricordato come l’episodio dello spettacolo teatrale di Castellucci sia soltanto uno dei tanti che offendono la Chiesa nella nostra epoca. Infatti la Messa era celebrata anche con l’intenzione di fare memoria dei tanti martiri cristiani di questi ultimi mesi in diverse nazioni del mondo, uno ogni cinque minuti secondo recenti statistiche, e per ricordare il diritto alla libertà e al rispetto dell’identità religiosa.
All’uscita, sempre l’ipotetico cronista avrebbe potuto raccogliere i commenti dei partecipanti. Avrebbe così potuto cogliere uno stile fermo e pacato, convinto che la fede deve diventare cultura per essere autentica e dunque non può non giudicare gli avvenimenti che a diverso titolo la riguardano, compresi quelli artistici … e un po’ blasfemi.
martedì 24 gennaio 2012
CARRON UNA SPERANZA PIU' FORTE DELLA CRISI
È appena tornato dagli Stati Uniti, dove si reca frequentemente a incontrare le comunità di Cl (vedi foto a Chicago dello scorso luglio) nate oltreoceano in questi anni, segno di un carisma che continua a fiorire e che ha messo radici in 80 Paesi. In questi giorni sta preparando la lezione introduttiva della Scuola di comunità del 2012, lo strumento di educazione alla fede inventato da don Giussani per verificare quanto la fede c’entra con la vita di tutti i giorni. Il lancio pubblico della Scuola di comunità è previsto per mercoledì, con una videoconferenza da Milano che verrà seguita da cinquantamila persone collegate da decine di città italiane. Incontrando don Julián Carrón, che guida Comunione e Liberazione dalla morte del fondatore nel 2005, si resta colpiti dal suo sguardo sereno e certo, dalla determinazione con cui scandisce le parole. Come se, più che comunicare idee, testimoniasse la profondità delle radici su cui è piantata la sua vita. Una certezza e una positività che lasciano il segno, in una stagione all’insegna dell’instabilità e del dubbio.
La crisi che stiamo vivendo non è meramente economica, ma affonda le sue radici nell’umano. È una sfida radicale alla concezione della vita che ciascuno di noi ha. È qui dove si vede se uno ha qualcosa che davanti alla crisi «tiene» e gli consente di non essere smarrito, scettico o rassegnato. Conservo nel cuore una frase di Giussani che è di un’attualità impressionante: «Mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto». In Germania, Benedetto XVI è andato al fondo della questione: «L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo ’perde’ sempre di più la vita». Io faccio spesso l’esempio del termosifone: quando lo spegni per un po’ non ti accorgi di nulla, ma dopo un po’ il freddo prende il sopravvento. Davanti alla crisi noi siamo soli col nostro freddo, ci riteniamo autosufficienti, oppure abbiamo qualche risorsa di caldo che ci consente di affrontarla e di non restare smarriti?
Lei cita spesso la frase di Péguy: «Per sperare occorre avere ricevuto una grande grazia». Chi non ha fede in Dio non può sperare?
Sperare appartiene alla natura stessa dell’uomo, è una «mossa» originaria e incancellabile. Lo riconosce anche Pavese: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Tutti veniamo al mondo con un’apertura totale di fronte al reale, come è evidente nella curiosità dei bambini, ma strada facendo questo atteggiamento si corrompe, tanto che è quasi impossibile trovare adulti che non siano almeno un po’ permeati dallo scetticismo. Perché questa mossa originaria possa tenere nel tempo, perché non ceda di fronte alle fatiche dell’esistenza, occorre avere ricevuto una grande grazia, quella che i cristiani hanno appena celebrato nel Natale.
C’è qualcuno che testimonia con più forza questa posizione umana?
La figura più esemplare che abbiamo davanti è quella di Benedetto XVI. È difficile trovare un’altra personalità che abbia una lucidità di giudizio sulla situazione attuale e che allo stesso tempo, senza ritirarsi in uno spiritualismo estraneo al reale, continua a sfidare tutti mostrando come la fede può dare un contributo decisivo per affrontare le sfide che abbiamo davanti. Abbiamo la fortuna di avere tra noi un gigante.
Ma il Papa è un gigante isolato?
Come tutti i giganti ha bisogno di figli. La questione è se noi ci lasciamo interpellare e illuminare dalla sua testimonianza, e così possiamo partecipare della genialità del gigante. Nella misura in cui il popolo cristiano si muove nel solco della sua testimonianza, il mondo vedrà fiorire persone capaci di partecipare alla costruzione del bene comune a partire dalla certezza che Cristo salva l’uomo.
Come è possibile condividere uno sguardo carico di speranza con tutti, anche con chi non professa alcuna fede religiosa?
Non abbiamo lezioni da impartire a nessuno, ma un tesoro ricevuto da testimoniare a tutti. Siamo stati scelti nella nostra piccolezza per portare ovunque lo sguardo con cui Gesù guarda gli uomini. Nella misura in cui siamo investiti da questo sguardo, possiamo renderlo presente a chiunque e fare un pezzo di strada insieme per rendere più umana la convivenza. Lo dimostra, ad esempio, la ricchezza di umanità che ha accompagnato le decine di incontri promossi dalle comunità di Cl a partire dal documento «La crisi, sfida per un cambiamento», con la partecipazione di personalità di diversa estrazione culturale.
Cosa chiedere alla politica e a chi ci governa perché con la loro azione alimentino una prospettiva di positività?
Alla politica non possiamo chiedere quello che non può dare. Da essa non ci aspettiamo la salvezza, ma che crei le condizioni per stimolare e favorire le iniziative di chi costruisce per il bene comune, di chi crea lavoro, risorse, ricchezza e ambiti in cui la società possa crescere.
Lei incontra tanti giovani, in Italia e nel mondo: come li vede?
La questione è che ci siano adulti disponibili a prenderne sul serio il bisogno con una proposta che li interroga e li sfida. Quando incontrano testimoni credibili, quando si riaccende il motore del desiderio, emergono personalità che lasciano a bocca aperta. In fondo è un problema educativo: quando trova un alveo, la loro energia vitale prorompe.
Benedetto XVI ha indetto l’Anno della fede, come a indicare la necessità di tornare alle radici del cristianesimo. È un contrattacco rispetto a una secolarizzazione sempre più pervasiva e insieme una presa d’atto di quanto i cristiani stanno smarrendo le loro radici?
Il cristianesimo continua a comunicarsi se per ogni generazione riaccade un nuovo inizio. È come in una famiglia: il fatto che i genitori siano credenti non è di per sé una garanzia che anche i figli lo diventino; deve scattare la mossa della libertà, un’adesione ragionevole alla fede. Il Papa avverte l’urgenza di riproporre il contenuto essenziale della fede perché sono prevalse concezioni che la riducono a discorso, dottrina, etica o sentimento. Ma queste riduzioni non reggono di fronte alle sfide della modernità, che ci costringe a riscoprire la natura del cristianesimo. Anche oggi è dunque necessario un nuovo inizio, per testimoniare come la ragione e la libertà trovano nella fede il loro compimento, rendendo evidente che il cristianesimo è qualcosa di umanamente conveniente. In questo senso l’Anno della fede è rivolto prima di tutto ai cristiani, ma, nella misura in cui noi vivremo un «nuovo inizio», può giovare a tutti, secondo il metodo scelto da Gesù: dare la grazia ad alcuni perché attraverso di loro possa arrivare a tutti coloro che sono disponibili ad accoglierla.
Tra pochi giorni ricomincia la Scuola di comunità, lo strumento di educazione alla fede proposto a tutti da Comunione e liberazione. Qual è il tema del 2012?
Nel libro «All’origine della pretesa cristiana», il testo di quest’anno, c’è una straordinaria sintonia con le motivazioni dell’Anno della fede. In quelle pagine Giussani mostra la ragionevolezza della fede attraverso lo sguardo di coloro che hanno partecipato a quel primo tentativo di «verifica» che fu la convivenza di Gesù coi discepoli. Nell’incontro che fin dall’inizio li affascinò per la sua eccezionalità, si mise in moto il desiderio di condividere con Lui tutta la vita. Cristo continua a proporsi oggi attraverso la Chiesa, incontrando tutta la nostra umanità. In un’epoca di smarrimento e confusione come questa, è motivo di gratitudine avere ricevuto la grazia della fede, che è davvero l’unica ragione per sperare. L’unica che ha la consistenza sufficiente per fare respirare l’uomo in qualsiasi circostanza.
giovedì 19 gennaio 2012
LA NAVE IL NAUFRAGIO LA DOMANDA
Non si parla d’altro in questi giorni. Della nave squarciata, del naufragio di fronte alla costa, dell’incredibile incidente. E dei dispersi. Le notizie si ripetono uguali, continue, quasi sempre le stesse, come se si fosse in attesa di un’impossibile novità, di una definitiva parola che tutti s’aspettano ma che nessuno è in grado di pronunciare.
Collegamenti continui con l’Isola del Giglio per gli ultimi aggiornamenti, come se a distanza di anche solo 10 minuti, qualcosa di sostanziale potesse cambiare.
Eppure siamo di fronte a un fatto che richiederebbe silenzio e un’osservazione rispettosa; domande non inquisitorie, ma profonde, di significato. Se osserviamo quel relitto gigantesco, lacerato dall’urto degli scogli, siamo ancora colpiti dalla sua bellezza imponente. La Costa Concordia era una splendida nave. All’esterno, le forme armoniose ed eleganti, di una geometrica linearità, le conferivano una bellezza particolare, quasi severa; all’interno era il trionfo del lusso, nell’insieme dell’arredo e nella ricercatezza dei particolari. Cosa cercano tanti uomini quando si imbarcano su una città galleggiante che solca il mare? Si tratta di pura evasione e divertimento? Resta ancora traccia di quell’antico navigare per scoprire i misteri del mondo? E noi che oggi osserviamo ciò che ancora emerge dalle acque del Mediterraneo che non ha colpito per le sue insidie, ma per un errore, una decisione azzardata quanto difficilmente comprensibile, da cosa ci lasciamo interrogare?
Ci fermiamo alla ricerca delle colpe? È stato raccontato del coraggio di tanti nell’aiutare chi si trovava in difficoltà, dell’altruismo e della generosità degli abitanti dell’isola, di chi ha messo a repentaglio la propria vita per soccorrere e favorire l’abbandono della nave. Così come si è parlato di confusione, di gesti disperati per riuscire a salvarsi a tutti i costi, magari a scapito dei più deboli.
Lo sappiamo: le situazioni estreme fanno emergere in ugual misura il bene e il male che contrastano in ciascuno di noi. Nessuno può giudicare. Tuttavia tragedie come questa ci indicano anche la necessità di recuperare o di riporre al centro una verità dell’essere umano. Che l’“io” è relazione con un “tu” e che il riconoscimento di “questa relazionalità come elemento costitutivo della propria esistenza è il primo passo per dare vita a una società più umana”.
Oggi, al contrario, domina “l’individualismo, che oscura la dimensione relazionale dell’uomo e lo conduce a chiudersi nel proprio piccolo mondo, ad essere attento a soddisfare innanzitutto i propri bisogni e desideri, preoccupandosi poco degli altri”. Stare di fronte a queste tragedie non come spettatori-inquisitori, ma come parte di un corpo ferito, di un’umanità dolente che soffre per la perdita di un familiare o si trova ancora in attesa che venga ritrovato un proprio caro. Gli abitanti dell’isola hanno compiuto un gesto di carità e di giustizia offrendo la loro disponibilità nei confronti di chi si è trovato nel bisogno. Ma anche a chi è lontano è chiesta carità e giustizia. La carità di una preghiera per chi soffre e per chi ha perso la vita, ragionevole riconoscimento che essa non è nelle nostre mani e che dovremo renderla; la giustizia di una domanda che chiede a Dio, l’unico “capace di dare all’uomo un’accoglienza incondizionata e un amore infinito”, il dono di una solidarietà umana. “Davvero il mondo è buio, laddove non è rischiarato dalla luce divina! Davvero il mondo è oscuro, laddove l’uomo non riconosce più il proprio legame con il Creatore e, così, mette a rischio anche i suoi rapporti con le altre creature e con lo stesso creato”.
(Citazioni dai discorsi di Benedetto XVI agli amministratori della Regione Lazio, del Comune e della Provincia di Roma; dalla presentazione degli auguri del Corpo Diplomatico accreditato presso la santa Sede)
Autore: Pagetti, Elena Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
LA CONCORDIA E NOI
«Quella nave ci riguarda
È metafora dell'Italia»
Quella nave, siamo noi. L’ammiraglia della Costa ferita e arenata, metafora dell’Italia in questo frangente di crisi; e i media attorno che tessono, attorno al naufragio, una sorta di epopea da cui non riusciamo a staccarci. È l’analisi del professor Ruggero Eugeni, docente di Semiotica e direttore dell’Almed, Alta scuola in media e comunicazione dell’Università Cattolica.
«La percezione di quanto è avvenuto al Giglio – spiega il professore – è cambiata nel corso dei giorni parallelamente al flusso delle immagini. L’immagine più drammatica, che ha raccontato la tragedia più di molte parole, è la foto notturna scattata da un elicottero dei soccorsi, che mostra i passeggeri mentre si calano lungo una cima dalla nave. Guardando quella foto, con un certo ritardo ci siamo resi conto di ciò che era successo; lo sguardo dall’alto e la luce sinistra degli infrarossi sembravano rappresentare gli uomini come una fila di formiche, schiacciati laggiù in basso».
«Nelle prime ore – continua Eugeni – protagonista era la nave; poi l’attenzione si è spostata sulle storie degli uomini, e si è andata formando un’epica di storie parallele, le une allacciate alle altre. Certo ha inciso anche la memoria del film di Cameron, che tutti abbiamo visto, e lo stupore di fronte a un Titanic italiano e contemporaneo; vicenda orrida e sublime, terribile e al contempo affascinante, come tutto ciò che è trascendente, al di là della nostra comprensione».
Si assiste, professore, a una marcata drammatizzazione, il comandante Schettino è il “comandante codardo” e il responsabile della Capitaneria di porto De Falco che gli grida: «Risalga a bordo!», è diventato un eroe...
«Questo comandante Schettino che, sembra, ha sbagliato manovra, poi ha abbandonato la nave e infine avrebbe mentito, risulta condannabile sotto diversi profili etici e quindi è al centro di un fuoco incrociato di accuse. Ad accentuare la drammatizzazione della sua figura sono state le trascrizioni delle telefonate con la Capitaneria , che hanno fornito quasi una forma drammaturgica alla tragedia».
Non c’è una estremizzazione, nella rappresentazione di quest’uomo come il concentrato di ogni male?
«Di certo si nota che almeno fino ad ora le figure degli altri ufficiali sembrano scomparse, come se non avessero avuto alcun ruolo o responsabilità, e questo indica una certa ansia di trovare un capro espiatorio da condannare all’unanimità. Inoltre questa vicenda è diventata nei media, sì, una rappresentazione epica, ma a differenza dai poemi epici classici noi oggi tendiamo a escludere l’intervento di Dio o del fato nelle storie degli uomini; e dunque la colpa di ciò che accade deve essere tutta di un uomo, di quell’uomo».
Sembra però, a giudicare dallo spazio che giornali e tv continuano a dare alla Concordia a cinque giorni dal naufragio, che quella nave ci ipnotizzi; che non sia solo una nave, ma una forte metafora di qualcosa che ci riguarda.
«Certo l’ammiraglia arenata, semiaffondata, è una trasparente metafora dell’Italia nelle ambasce della crisi economica internazionale. L’identificazione più o meno cosciente della nave con il nostro Paese spiega la potenza magnetica con cui questa vicenda ci attrae».
Se la Concordia siamo noi, le due figure contrapposte come il bianco e il nero, il comandante Schettino e il capitano De Falco, chi sono diventati nella trascrizione mediatica? E perchè destano tanta avversione l’uno e tanto amore l’altro, che in fondo ha fatto semplicemente il suo dovere di ufficiale?
«Schettino è stato rappresentato coralmente dai media come l’antitaliano, o meglio come il volto dell’Italia che non vogliamo essere, scorretta, irresponsabile, incompetente. Quell’ufficiale della Capitaneria di porto invece, con il suo semplice esortare bruscamente «Comandante, torni a bordo!», è avvertito come il richiamo a un’etica della professionalità e della responsabilità. Rappresenta un’Italia che non vuole lasciare nulla di intentato per uscire dalla crisi, in un frangente grave. Come dicevo: la sciagura della Concordia si è fatta una grande epopea carica di pathos, fortemente metaforica».
Così che gli italiani stanno a guardare il gigante arenato sugli scogli, quella grande fiera nave ferita, e forse senza sapere appieno il perchè dalle immagini dall’isola del Giglio non si riescono a staccare: quella storia, intimamente, li riguarda.
Marina Corradi
da Avvenire 19 gennaio 2012
LA NATURA DELL'ESPERIENZA CRISTIANA
INTERVISTA A DON JULIAN CARRON
DI ALDO CAZULLO
DA IL CORRIERE DELLA SERA DEL 16 GENNAIO 2012
Don Julián Carrón, 62 anni a febbraio, è il successore di don Giussani. Vive come lui nell'istitutodel Sacro Cuore, con vista sulla tangenziale Est di Milano. Ha ereditato la sua cattedra di Introduzione alla teologia alla Cattolica. E da sette anni è il capo di Comunione e Liberazione.
Anche se non tutti lo conoscono, vista la sua leggendaria discrezione. «Sono nato in Estremadura, da genitori contadini. Coltivavano ciliegi. Sono entrato in seminario a Madrid, nel 1960. Avevo dieci anni. Fui ordinato sacerdote nel '75, l'anno in cui morì Franco».
Come fu il suo primo incontro con Giussani?
«Fu casuale, a Madrid. Sulle prime, non ne capii tutta la novità. Solo nel tempo ho percepito la differenza che Giussani portava: non nella preghiera, nella liturgia, nella riflessione esegetica, ma nella consapevolezza vissuta che il cristianesimo è un avvenimento che esalta e compie l'umano; era ciò che diventava esperienza nel rapporto coi giovani, resi capaci di stare nel reale. Accadde lo stesso a me: conoscendo don Giussani, vidi che la mia umanità veniva ascoltata e sfidata continuamente. E che la fede può incidere sulla vita. Per questo gli dicevo: "Non finirò mai di ringraziarti, perché mi hai consentito di fare un cammino umano"».
Qual è oggi la sua eredità?
«La compagnia di don Giussani è ancora nella nostra testa, negli occhi, in ogni fibra del nostro essere. Il suo insegnamento è un tesoro ancora da scoprire. Non ho altra esperienza per rispondere alle sfide della contemporaneità che quella lasciataci da lui. Cl cerca di ridestare le persone alla loro umanità, di svegliare i giovani dal "torpore", come lo definì Pietro Citati. Siamo una realtà educativa, con tantissimi ragazzi che, affascinati dall'incontro cristiano, hanno scelto di rischiare, di andare all'estero, di sparigliare le carte per trovare la propria strada».
Cl è spesso accusata di contaminarsi troppo con il mondo, di dedicarsi molto — attraverso la Compagnia delle Opere — agli affari. Non si è esagerato? Non sono stati commessi errori?
«Noi teniamo alla natura dell'esperienza cristiana. E l'esperienza cristiana ha a che vedere con tutto. A voler verificare se la fede serve ad affrontare tutte le sfide, si corrono rischi. Nessuna istituzione, né la Chiesa né un partito, può evitare gli errori dei singoli. E questi non possono essere attribuiti alla comunità. Sarebbe ingiusto. Ciascuno è personalmente responsabile di quel che fa. Perciò l'identificazione non è legittima, vale per Cl come per qualsiasi altra istituzione».
Don Carrón, Cl a Milano è accusata di aver costruito un sistema di potere, che talora è degenerato in scandali. Cosa risponde?
«Possono esserci state persone che hanno usato Cl in un certo modo. La Chiesa chiama costantemente a un ideale; ognuno lo vive secondo la propria libertà e responsabilità. Per questo noi non interveniamo in nessun documento o azione di coloro che hanno responsabilità politica. Non esistono candidati di Cl, non esistono politici di Cl. Questa cosa, prima si chiarisce, meglio è».
È sicuro che sia così?
«Certo. Rispettiamo tutti, guardiamo con simpatia chi proviene dal nostro movimento e si impegna in politica per l'educazione ricevuta, ma poi ognuno è responsabile di quel che fa. E noi dobbiamo sempre mantenere quella che don Giussani chiamava "una irrevocabile distanza critica"».
Pensa che Cl debba vigilare di più, per evitare di farsi usare?
«Sempre. Don Giussani diceva: noi non deleghiamo a nessuno la nostra presenza culturale, sociale e anche politica. Si tratta, ripeto, di mantenere una distanza critica, e non vi rinunceremo mai. Siamo una comunità cristiana e non un partito o una corrente».
Qual è il suo giudizio su Formigoni e sulla sua lunga stagione di potere?
«L'operato di Formigoni è davanti a tutti. Se un politico viene eletto per quattro volte, qualcosa avrà fatto. Mica l'hanno votato solo i ciellini».
Che giudizio ha del caso San Raffaele?
«Lo vedo dall'esterno. Non conosco la vicenda giudiziaria. Ma ricordiamoci sempre che si tratta di una grandissima istituzione».
E della stagione di Berlusconi cosa pensa?
«Non ho gli strumenti per dare un giudizio globale. Nella sua vicenda vedo aspetti positivi che hanno fatto bene all'Italia e aspetti negativi. Del resto, non è certo l'unico responsabile della situazione attuale, complessa. Molti sono i fattori».
Cl non si è sbilanciata troppo in suo favore?
«Sbilanciarsi come comunità cristiana a favore di uno schieramento è sbagliato, a meno che ci si trovi davanti a tornanti storici e intervenga autorevolmente chi guida la Chiesa; ed è rarissimo. Credo che una maggiore discrezione sia adeguata. Come movimento dobbiamo essere fedeli alla nostra originalità per dare il nostro contributo. Tanti lo stanno dando. Ma una cosa è decidere di collaborare al bene comune, un'altra è militare in un partito. Nei partiti se la giocano i singoli».
Lei ha definito la grande crisi economica «una sfida per il cambiamento». Cosa intende?
«Davanti alla crisi si possono fare due cose: lamentarsi, o accettare la sfida che suscita. La crisi è anche culturale, antropologica: sta a noi non solo ripensare gli stili di vita, ma anche educarci a una concezione di vita che ci consenta di avere la consistenza per affrontarla. Si chiedeva Eliot: "Dov'è la vita che abbiamo perduto vivendo?". Dobbiamo essere come il popolo di Israele, che nelle angustie dell'esilio trovava iniziativa e creatività».
Vede un ritorno dei cattolici in politica?
«Sono rimasto colpito da quel che disse il Papa due anni fa, al Pontificio consiglio per i laici: "Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l'intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà". Non si tratta di fare una scelta di schieramento, ma di aprire una nuova stagione. Mi ha fatto piacere che una persona come Piero Sansonetti, leggendo il volantino di Cl sulla crisi, abbia detto che porta una forte idea politica».
Un ciellino potrebbe votare a sinistra?
«Dipende da cosa vogliono dire destra e sinistra. Ecco che si ritorna agli schieramenti. Ci sono tante persone di sinistra con cui si può percorrere un pezzo di strada. Se poi però prevalgono le posizioni ideologiche o la disciplina di partito, il dialogo non può proseguire. E lo stesso vale per l'altra parte. Oggi accadono cose impossibili fino a pochi anni fa: pensi al lavoro che sta facendo in Parlamento l'Intergruppo per la sussidiarietà».
Come trova la Milano di oggi?
«Milano mi ha lasciato senza fiato. È una metropoli di grandissima creatività, con un'operosità e una capacità produttiva grandiose. Tante cose fioriscono».
Molti la considerano una metropoli in difficoltà.
«Invece io vedo, anche al confronto con i molti Paesi del mondo in cui viaggio, una grande capacità di iniziativa del popolo ambrosiano».
In quali Paesi è presente Cl?
«Siamo in ottanta Paesi e in tutti i cinque continenti. Ora vado a New York per una sorta di edizione americana del Meeting, poi proseguo per il Sudamerica. Lo scorso hanno sono stato in Russia e in Africa. Eppure in Italia si parla di Cl come se fosse solo a Milano».
A Milano però è nata. Cosa cambierà con il cardinale Scola?
«Scola è un vero dono per la città. Mi pare che a ogni livello sia riconosciuto il suo spessore non solo di fede ma anche umano e intellettuale. È qui da pochi mesi, e già parla a tutti. Darà un contributo decisivo al rilancio della vita ecclesiale e di conseguenza sociale».
Non crede che la Chiesa dovrebbe partecipare in qualche forma ai sacrifici che tutti gli italiani sono chiamati a fare?
«Sull'Ici il cardinale Bagnasco ha già espresso la sua disponibilità a fare chiarezza. Ma pensi a quanto fa la Chiesa a livello di carità e di educazione, senza che questo spesso sia riconosciuto. La Chiesa dà molto più di quello che riceve».
DI ALDO CAZULLO
DA IL CORRIERE DELLA SERA DEL 16 GENNAIO 2012
Don Julián Carrón, 62 anni a febbraio, è il successore di don Giussani. Vive come lui nell'istitutodel Sacro Cuore, con vista sulla tangenziale Est di Milano. Ha ereditato la sua cattedra di Introduzione alla teologia alla Cattolica. E da sette anni è il capo di Comunione e Liberazione.
Anche se non tutti lo conoscono, vista la sua leggendaria discrezione. «Sono nato in Estremadura, da genitori contadini. Coltivavano ciliegi. Sono entrato in seminario a Madrid, nel 1960. Avevo dieci anni. Fui ordinato sacerdote nel '75, l'anno in cui morì Franco».
Come fu il suo primo incontro con Giussani?
«Fu casuale, a Madrid. Sulle prime, non ne capii tutta la novità. Solo nel tempo ho percepito la differenza che Giussani portava: non nella preghiera, nella liturgia, nella riflessione esegetica, ma nella consapevolezza vissuta che il cristianesimo è un avvenimento che esalta e compie l'umano; era ciò che diventava esperienza nel rapporto coi giovani, resi capaci di stare nel reale. Accadde lo stesso a me: conoscendo don Giussani, vidi che la mia umanità veniva ascoltata e sfidata continuamente. E che la fede può incidere sulla vita. Per questo gli dicevo: "Non finirò mai di ringraziarti, perché mi hai consentito di fare un cammino umano"».
Qual è oggi la sua eredità?
«La compagnia di don Giussani è ancora nella nostra testa, negli occhi, in ogni fibra del nostro essere. Il suo insegnamento è un tesoro ancora da scoprire. Non ho altra esperienza per rispondere alle sfide della contemporaneità che quella lasciataci da lui. Cl cerca di ridestare le persone alla loro umanità, di svegliare i giovani dal "torpore", come lo definì Pietro Citati. Siamo una realtà educativa, con tantissimi ragazzi che, affascinati dall'incontro cristiano, hanno scelto di rischiare, di andare all'estero, di sparigliare le carte per trovare la propria strada».
Cl è spesso accusata di contaminarsi troppo con il mondo, di dedicarsi molto — attraverso la Compagnia delle Opere — agli affari. Non si è esagerato? Non sono stati commessi errori?
«Noi teniamo alla natura dell'esperienza cristiana. E l'esperienza cristiana ha a che vedere con tutto. A voler verificare se la fede serve ad affrontare tutte le sfide, si corrono rischi. Nessuna istituzione, né la Chiesa né un partito, può evitare gli errori dei singoli. E questi non possono essere attribuiti alla comunità. Sarebbe ingiusto. Ciascuno è personalmente responsabile di quel che fa. Perciò l'identificazione non è legittima, vale per Cl come per qualsiasi altra istituzione».
Don Carrón, Cl a Milano è accusata di aver costruito un sistema di potere, che talora è degenerato in scandali. Cosa risponde?
«Possono esserci state persone che hanno usato Cl in un certo modo. La Chiesa chiama costantemente a un ideale; ognuno lo vive secondo la propria libertà e responsabilità. Per questo noi non interveniamo in nessun documento o azione di coloro che hanno responsabilità politica. Non esistono candidati di Cl, non esistono politici di Cl. Questa cosa, prima si chiarisce, meglio è».
È sicuro che sia così?
«Certo. Rispettiamo tutti, guardiamo con simpatia chi proviene dal nostro movimento e si impegna in politica per l'educazione ricevuta, ma poi ognuno è responsabile di quel che fa. E noi dobbiamo sempre mantenere quella che don Giussani chiamava "una irrevocabile distanza critica"».
Pensa che Cl debba vigilare di più, per evitare di farsi usare?
«Sempre. Don Giussani diceva: noi non deleghiamo a nessuno la nostra presenza culturale, sociale e anche politica. Si tratta, ripeto, di mantenere una distanza critica, e non vi rinunceremo mai. Siamo una comunità cristiana e non un partito o una corrente».
Qual è il suo giudizio su Formigoni e sulla sua lunga stagione di potere?
«L'operato di Formigoni è davanti a tutti. Se un politico viene eletto per quattro volte, qualcosa avrà fatto. Mica l'hanno votato solo i ciellini».
Che giudizio ha del caso San Raffaele?
«Lo vedo dall'esterno. Non conosco la vicenda giudiziaria. Ma ricordiamoci sempre che si tratta di una grandissima istituzione».
E della stagione di Berlusconi cosa pensa?
«Non ho gli strumenti per dare un giudizio globale. Nella sua vicenda vedo aspetti positivi che hanno fatto bene all'Italia e aspetti negativi. Del resto, non è certo l'unico responsabile della situazione attuale, complessa. Molti sono i fattori».
Cl non si è sbilanciata troppo in suo favore?
«Sbilanciarsi come comunità cristiana a favore di uno schieramento è sbagliato, a meno che ci si trovi davanti a tornanti storici e intervenga autorevolmente chi guida la Chiesa; ed è rarissimo. Credo che una maggiore discrezione sia adeguata. Come movimento dobbiamo essere fedeli alla nostra originalità per dare il nostro contributo. Tanti lo stanno dando. Ma una cosa è decidere di collaborare al bene comune, un'altra è militare in un partito. Nei partiti se la giocano i singoli».
Lei ha definito la grande crisi economica «una sfida per il cambiamento». Cosa intende?
«Davanti alla crisi si possono fare due cose: lamentarsi, o accettare la sfida che suscita. La crisi è anche culturale, antropologica: sta a noi non solo ripensare gli stili di vita, ma anche educarci a una concezione di vita che ci consenta di avere la consistenza per affrontarla. Si chiedeva Eliot: "Dov'è la vita che abbiamo perduto vivendo?". Dobbiamo essere come il popolo di Israele, che nelle angustie dell'esilio trovava iniziativa e creatività».
Vede un ritorno dei cattolici in politica?
«Sono rimasto colpito da quel che disse il Papa due anni fa, al Pontificio consiglio per i laici: "Il contributo dei cristiani è decisivo solo se l'intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà". Non si tratta di fare una scelta di schieramento, ma di aprire una nuova stagione. Mi ha fatto piacere che una persona come Piero Sansonetti, leggendo il volantino di Cl sulla crisi, abbia detto che porta una forte idea politica».
Un ciellino potrebbe votare a sinistra?
«Dipende da cosa vogliono dire destra e sinistra. Ecco che si ritorna agli schieramenti. Ci sono tante persone di sinistra con cui si può percorrere un pezzo di strada. Se poi però prevalgono le posizioni ideologiche o la disciplina di partito, il dialogo non può proseguire. E lo stesso vale per l'altra parte. Oggi accadono cose impossibili fino a pochi anni fa: pensi al lavoro che sta facendo in Parlamento l'Intergruppo per la sussidiarietà».
Come trova la Milano di oggi?
«Milano mi ha lasciato senza fiato. È una metropoli di grandissima creatività, con un'operosità e una capacità produttiva grandiose. Tante cose fioriscono».
Molti la considerano una metropoli in difficoltà.
«Invece io vedo, anche al confronto con i molti Paesi del mondo in cui viaggio, una grande capacità di iniziativa del popolo ambrosiano».
In quali Paesi è presente Cl?
«Siamo in ottanta Paesi e in tutti i cinque continenti. Ora vado a New York per una sorta di edizione americana del Meeting, poi proseguo per il Sudamerica. Lo scorso hanno sono stato in Russia e in Africa. Eppure in Italia si parla di Cl come se fosse solo a Milano».
A Milano però è nata. Cosa cambierà con il cardinale Scola?
«Scola è un vero dono per la città. Mi pare che a ogni livello sia riconosciuto il suo spessore non solo di fede ma anche umano e intellettuale. È qui da pochi mesi, e già parla a tutti. Darà un contributo decisivo al rilancio della vita ecclesiale e di conseguenza sociale».
Non crede che la Chiesa dovrebbe partecipare in qualche forma ai sacrifici che tutti gli italiani sono chiamati a fare?
«Sull'Ici il cardinale Bagnasco ha già espresso la sua disponibilità a fare chiarezza. Ma pensi a quanto fa la Chiesa a livello di carità e di educazione, senza che questo spesso sia riconosciuto. La Chiesa dà molto più di quello che riceve».
IL FUMO NEL TEMPIO
CARO MONS. URSO, QUESTA VOLTA SI SBAGLIA
«Uno Stato laico come il nostro non può ignorare il fenomeno delle convivenze, deve muoversi e definire diritti e doveri per i partner. Poi la valutazione morale spetterà ad altri».
In queste parole di mons. Paolo Urso, vescovo di Ragusa, è ben espresso l’erroneo pensiero dominante al giorno d’oggi in campo cattolico. Il problema è che a pronunciare simili affermazioni è un vescovo che dovrebbe confermare nella fede il popolo lui affidato.
In un’intervista rilasciata lo scorso 11 gennaio alla testata on-line “Quotidiano. Net”, che compare anche nel sito di informazione della curia ragusana “Insieme”, il vescovo siciliano ha rilasciato alcune dichiarazioni gravemente contrarie a quanto insegna il Magistero della Chiesa. Dopo aver ammesso con tutta sincerità e senza alcun ripensamento che rifarebbe la scelta operata nel 2005, ovvero votare al referendum sulla legge 40 nonostante l’invito all’astensione formulato dal cardinal Ruini, allora presidente della Cei, con il sostegno del Papa, mons. Urso ha difeso le unioni omosessuali.
Eppure il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’omosessualità una condizione oggettivamente disordinata. «Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme, è importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto», ha sostenuto il vescovo. Salvo poi aggiungere, per cercare di smorzare un po’ i toni, che tali unioni non potrebbero comunque essere chiamate matrimoni.
Appare evidente che il pensiero espresso dal vescovo di Ragusa è del tutto incompatibile con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI poi. Il discorso sui valori non negoziabili (tra cui la famiglia naturale fondata sul matrimonio) di Papa Ratzinger e quello sulla democrazia che va fondata su valori oggettivi di Papa Wojtyla vengono completamente ignorati. «Sono stato educato alla laicità dello Stato e al rispetto delle leggi civili», ha dichiarato mons. Urso, dimenticando così quello che è un principio classico del Cattolicesimo: alle leggi ingiuste non si deve obbedire.
Come potrebbe infatti un fedele cattolico e tanto più un vescovo, ammettere una legislazione che normalizza gravi peccati come l’aborto, il divorzio e la pratica dell’omosessualità? In nessun documento del Magistero vi è la possibilità di rintracciare uno spiraglio in tal senso. Mons. Urso sa sicuramente che la separazione tra fede e vita non è ammissibile e che lo Stato laico non può comunque essere neutro quanto ai valori. E allora perché ha rilasciato simili dichiarazioni?
di Federico Catani
Tratto dal sito dell'agenzia Corrispondenza Romana il 17 gennaio 2012
«Uno Stato laico come il nostro non può ignorare il fenomeno delle convivenze, deve muoversi e definire diritti e doveri per i partner. Poi la valutazione morale spetterà ad altri».
In queste parole di mons. Paolo Urso, vescovo di Ragusa, è ben espresso l’erroneo pensiero dominante al giorno d’oggi in campo cattolico. Il problema è che a pronunciare simili affermazioni è un vescovo che dovrebbe confermare nella fede il popolo lui affidato.
In un’intervista rilasciata lo scorso 11 gennaio alla testata on-line “Quotidiano. Net”, che compare anche nel sito di informazione della curia ragusana “Insieme”, il vescovo siciliano ha rilasciato alcune dichiarazioni gravemente contrarie a quanto insegna il Magistero della Chiesa. Dopo aver ammesso con tutta sincerità e senza alcun ripensamento che rifarebbe la scelta operata nel 2005, ovvero votare al referendum sulla legge 40 nonostante l’invito all’astensione formulato dal cardinal Ruini, allora presidente della Cei, con il sostegno del Papa, mons. Urso ha difeso le unioni omosessuali.
Eppure il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce l’omosessualità una condizione oggettivamente disordinata. «Quando due persone decidono, anche se sono dello stesso sesso, di vivere insieme, è importante che lo Stato riconosca questo stato di fatto», ha sostenuto il vescovo. Salvo poi aggiungere, per cercare di smorzare un po’ i toni, che tali unioni non potrebbero comunque essere chiamate matrimoni.
Appare evidente che il pensiero espresso dal vescovo di Ragusa è del tutto incompatibile con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II prima e di Benedetto XVI poi. Il discorso sui valori non negoziabili (tra cui la famiglia naturale fondata sul matrimonio) di Papa Ratzinger e quello sulla democrazia che va fondata su valori oggettivi di Papa Wojtyla vengono completamente ignorati. «Sono stato educato alla laicità dello Stato e al rispetto delle leggi civili», ha dichiarato mons. Urso, dimenticando così quello che è un principio classico del Cattolicesimo: alle leggi ingiuste non si deve obbedire.
Come potrebbe infatti un fedele cattolico e tanto più un vescovo, ammettere una legislazione che normalizza gravi peccati come l’aborto, il divorzio e la pratica dell’omosessualità? In nessun documento del Magistero vi è la possibilità di rintracciare uno spiraglio in tal senso. Mons. Urso sa sicuramente che la separazione tra fede e vita non è ammissibile e che lo Stato laico non può comunque essere neutro quanto ai valori. E allora perché ha rilasciato simili dichiarazioni?
di Federico Catani
Tratto dal sito dell'agenzia Corrispondenza Romana il 17 gennaio 2012
mercoledì 18 gennaio 2012
IL VOLTO DI CRISTO E' LA PIENEZZA DELL'UMANO E LA RAGIONE DELL'ESISTENZA
«Raccogliendo le parole della regista e direttrice del teatro Parenti di Milano Andrée Ruth Shammah, apparse ieri su un quotidiano, a nostra volta domandiamo che sia riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti cittadini milanesi, e non sono certo pochi, vedono nel Volto di Cristo l’Incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza. Proprio perché Milano è una “città che ha sempre rappresentato il pensiero illuminato, la religiosità alta, il dialogo e l`apertura”, invitiamo a considerare che la libertà di espressione, come ogni libertà, possiede sempre, oltre a quella personale, una imprescindibile valenza sociale.
Questa deve essere tenuta particolarmente in conto da parte di chi dirige istituzioni di rilevanza pubblica, per evitare che un’esaltazione unilaterale della dimensione individuale della libertà di espressione conduca ad “tutti contro tutti” ideologico che divenga poi difficilmente governabile. Di questa dimensione sociale della libertà di espressione avrebbe pertanto potuto farsi carico più attentamente al momento della programmazione la direzione del Teatro. La preghiera per manifestare il proprio dissenso non può accompagnarsi a eccessi di qualunque tipo, anche solo verbali».
CURIA DI MILANO, 15 GENNAIO 2012
Questa deve essere tenuta particolarmente in conto da parte di chi dirige istituzioni di rilevanza pubblica, per evitare che un’esaltazione unilaterale della dimensione individuale della libertà di espressione conduca ad “tutti contro tutti” ideologico che divenga poi difficilmente governabile. Di questa dimensione sociale della libertà di espressione avrebbe pertanto potuto farsi carico più attentamente al momento della programmazione la direzione del Teatro. La preghiera per manifestare il proprio dissenso non può accompagnarsi a eccessi di qualunque tipo, anche solo verbali».
CURIA DI MILANO, 15 GENNAIO 2012
QUANDO LA CHIESA NON PUO' TACERE
Sulla vicenda della rappresentazione teatrale “Sul concetto di volto del Figlio di Dio”, in programma a Milano dal 24 al 28 gennaio, che tanto fa discutere per il suo contenuto blasfemo e per le manifestazioni annunciate da diversi gruppi cattolici che propongono messe e preghiere di riparazione, abbiamo sentito il vescovo di San Marino-Montefeltro, monsignor Luigi Negri.
da labussola quotidiana
Mi pare che innanzitutto ci sia da dire che questo è un episodio miserevole dal punto di vista della espressione, non dico artistica, ma dell’espressione umana. Ed è certamente la conferma di quello che ho già detto immediatamente dopo gli scontri di Roma del 15 ottobre scorso, in ordine alla distruzione della statua della Madonna: il filo conduttore, che unisce espressioni che apparentemente sembrano divergere moltissimo, è l’anticristianesimo.
Ormai l’ideologia dominante è quella anticristiana, quella che tende all’abolizione sistematica della presenza e dell’annunzio cristiano, sentito come una anomalia che mette in crisi questa omologazione universale operata dalla mentalità laicista, consumista, istintivista.
Quindi da questo punto di vista il giudizio non può che essere inappellabilmente negativo: è un’espressione meschina di una volontà di eliminare la tradizione cristiana, in questo caso colpendo il contenuto fondamentale della fede. Colpendo l’immagine e la figura di Gesù Cristo nei confronti del quale nella scritta finale – credo che apparirà ancora malgrado tutte le modificazioni a cui in qualche modo sono stati costretti – apparirà il rifiuto di essere figli di Dio. E quindi si manifesta la volontà di sostituire alla figliolanza divina la proclamazione della propria autonomia e autosufficienza, che è stato il delirio della modernità.
C’è poi il problema della reazione. Su questo io mi devo avventurare con molta circospezione perché non intendo prestare il fianco a nessuna critica nei confronti di altre Chiese o di altri confratelli. Sono stato molto lieto nell’apprendere che - in situazione analoga - la Chiesa francese e in particolare il capo della Conferenza episcopale francese, il cardinale di Parigi, ha proposto un gesto rigorosamente penitenziale in ordine a questa blasfemia implicando la struttura fondamentale della Chiesa.
Io mi chiedo questo, e su questa domanda mi fermo: una Chiesa particolare - o una connessione di Chiese particolari che aderiscono alle Conferenze episcopali nazionali - che non reagisca in termini assolutamente essenziali e pubblici a questo attacco violento alla tradizione cattolica, io mi chiedo: se non interviene su questo punto, su che cosa interviene?
Che cosa mette più in crisi la possibilità di una comunicazione obiettiva della fede di questa serie di iniziative tese a screditare, a criminalizzare, a corrompere la nostra tradizione? Certo che se le Chiese cosiddette ufficiali – ma il termine mi è assolutamente ostico perché la Chiesa è una sola, non è né quella ufficiale né quella carismatica, la Chiesa è il mistero del popolo di Dio nato dal mistero di Cristo morto e risorto e dall’effusione dello Spirito, quindi c’è una Chiesa sola –; se la Chiesa non reagisce adeguatamente in modo certamente non rancoroso, non livido, assumendo in senso uguale e contrario l’atteggiamento demenziale di questi parauomini di cultura; se non reagisce la Chiesa, allora necessariamente possono intervenire in maniera protagonistica gente o gruppi che nella Chiesa non hanno a cuore soltanto la difesa della Chiesa ma hanno a cuore l’espressione legittima delle loro convinzioni.
Allora poi non si dica che la protesta è dei tradizionalisti; la protesta è dei tradizionalisti perché la Chiesa come tale non prende una posizione, che a me sembrerebbe assolutamente necessaria.
Nella mia diocesi non è previsto lo spettacolo, fortunatamente. Questo è il vantaggio delle piccole comunità diocesane, ai margini del grande impero massmediatico. Ma nel caso che nella diocesi di MIlano questo spettacolo si verificasse effettivamente, io devo considerare che sono ancora immanente alla Chiesa di Milano e vi sarò finché campo. Sono capo, sono padre della Chiesa di San Marino-Montefeltro, ma sono figlio della Chiesa di Sant’Ambrogio e di San Carlo, nella quale ho ricevuto il battesimo e tutti i sacramenti fino all’ordinazione episcopale. Non potrò quindi non considerare una presa di posizione discreta, misurata, che dica il dissenso di un vescovo di origine ambrosiana nei confronti di quello che accade nell’ambito della società milanese.
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