Bosch, il Volto silenzioso della Salita al Calvario
di Gloria Riva
Nella Salita al Calvario di Hieronymus Bosch, il volto di Cristo emerge silenzioso. Cristo non è il centro dell’attenzione della folla. Chi tra costoro lo guarda veramente? Nessuno sembra aver premura di giungere al Calvario, anzi un soldato, con lo sguardo malizioso, blocca mediante uno scudo l’avanzare del triste corteo: che Cristo non sia crocifisso, che Cristo non muoia! Non si ripeta l’errore di farne un eroe! È necessario infatti che Cristo sia crocifisso perché si conosca il disegno del Padre. Gesù stesso lo aveva proclamato: Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me.
Bosch ritrae profeticamente un mondo beffardo e pieno di sé; un mondo che non sa che farsene della croce perché ne fabbrica molte di continuo a danno dei più deboli e puri. Un mondo che convive mollemente con la brutalità e la sofferenza innocente, purché questa rimanga anonima, scontata, come tutto ciò che di scontato c’è nella vita. Se Cristo sarà innalzato allora la sofferenza avrà un nome, se Cristo sarà crocifisso sarà gettato un ponte sulla morte: il nome del dolore sarà amore-che-si-dona; il ponte sulla morte sarà vita-che-non-muore.
È questo il volto da conculcare, da soffocare dentro l’agitarsi confuso e il vociare petulante di mille volti.
I volti qui sono diciotto e, disposti a gruppi di tre per sei volte, scandiscono il battito dell’ora delle tenebre. Di questi diciotto volti, quattordici sono contratti dall’ira, dallo scherno, da pensieri malvagi: sono le quattordici stazioni della via crucis che, come morsa di dolore, serrano Gesù; quattordici è anche però la somma numerica della generazioni che compongono in Matteo la genealogia di Gesù. Dunque in quei quattordici volti c’è riassunta tutta l’umanità, tutta la miseria dell’umanità.
Vi sono uomini primitivi e volgari, quasi bestiali nel loro urlare. Ricordano i tori di Basan che spalancano la bocca contro il giusto come canta il salmo 22 (o 21).
C’è la religiosità bigotta e piena di sé come quella della guardia del sommo sacerdote, con copricapo rosso, segno della superbia che regna sul suo capo. Impugna un bastone, scettro di un comando iniquo.
Come quella del notabile pensieroso e arcigno che guarda fiero e diritto davanti a sé. O ancora come quella del frate accanto al buon ladrone. Costui che dovrebbe essere il testimone della Parola (i francescani la portano anche nell’abito che ha la forma del Tau) ha il dito puntato e dal suo volto trapela l’assenza di misericordia.
Non tutti si rivolgono verso il Signore Gesù, anzi qui gli uomini sembrano sbranarsi a vicenda, sembrano sciolti da ogni criterio e dominati dalle forze dell’occulto. Ci sono infatti mescolati fra loro fattucchieri, (uno solo è chiaramente visibile proprio davanti a Cristo, ma ce n’è un secondo in alto semi nascosto dall’oscurità e dal notabile). Essi sono riconoscibili dal lungo cappello coi colori dell’acqua, dell’aria e del fuoco e una piccola sfera sulla sommità simbolo della terra. Dalla sfera si dipartono fili luminosi segni del potere occulto. Nel cappello sono simboleggiati perciò i quattro elementi fondamentali dell’universo sopra i quali essi esercitano il potere magico. Costoro sembrano essere i veri responsabili del caos e della follia umana.
Eppure la croce, così accuratamente elusa, così goffamente nascosta, traccia la diagonale dell’intero quadro e sta salda, come perno, come unico punto fisso e sicuro della scena. La croce è la meridiana della storia, è la trave portante del mondo che Cristo è venuto ad edificare. È, infine, l’impalcatura del tempio che Cristo avrebbe ricostruito in tre giorni.
Poi ci sono i quattro volti positivi: quello del Cireneo, del buon Ladrone, della Veronica e quello di Gesù.
Il Cireneo è colui che ha accettato su di sé il giogo della croce e già ne sperimenta gli effetti. Il buon ladrone getta uno sguardo implorante verso Cristo, si ritrae dalla salvezza a buon mercato dello zelante religioso e si volge verso il compagno di viaggio: l’uomo che con lui porta la croce. Cristo è l’icona della pace nel caos, della beltà nella bruttura del mondo. Egli ha gli occhi chiusi, ma è l’unico che vede; il suo capo reclinato riposa già sul legno della croce, pienamente abbandonato alla volontà del Padre, sicuro della volontà d’Amore del Padre anche in quest’ora. (Is 52, 13-14; 53, 3-4). Cristo è al centro della diagonale della croce e di un’altra diagonale che partendo dal buon ladrone giunge alla Veronica. Anche la Veronica ha gli occhi chiusi eppure vede: vede la gloria del Cristo vivente.
Dall’oscurità assoluta che regna sulla scena il volto della Veronica sorge luminoso. Nessuna fonte di luce è presso di lei se non ciò che ella vede, se non ciò a cui è diretto il suo intimo sguardo, la sua beatificante contemplazione: il volto del Cristo che impresso sul telo annuncia già la sua Risurrezione. Clio, come diceva Peguy, la musa della storia cerca vane traccia ed è sempre in ritardo, mentre lei la Veronica del calvario sbaraglia tutti: tira fuori il suo fazzoletto, un fazzoletto da nulla e trova una traccia eterna.
È, infatti, solo a questo punto che Bosch ci rivela il diciannovesimo volto del dipinto. L’unico che guarda verso l’osservatore. L’unico che ci interpella: il volto sereno e divino di Cristo impresso nel telo sindonico. È lui, il Risorto, che dà senso all’esistenza umana. É il Cristo che fissa nel tempo la pace, dentro il susseguirsi di una storia minacciosa ma, alla fin fine, caricaturale. Solo in Cristo l’uomo ritrova il suo volto umano, ritrova impressa in lui, l’immagine del Cielo.
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