È appena tornato dagli Stati Uniti, dove si reca frequentemente a incontrare le comunità di Cl (vedi foto a Chicago dello scorso luglio) nate oltreoceano in questi anni, segno di un carisma che continua a fiorire e che ha messo radici in 80 Paesi. In questi giorni sta preparando la lezione introduttiva della Scuola di comunità del 2012, lo strumento di educazione alla fede inventato da don Giussani per verificare quanto la fede c’entra con la vita di tutti i giorni. Il lancio pubblico della Scuola di comunità è previsto per mercoledì, con una videoconferenza da Milano che verrà seguita da cinquantamila persone collegate da decine di città italiane. Incontrando don Julián Carrón, che guida Comunione e Liberazione dalla morte del fondatore nel 2005, si resta colpiti dal suo sguardo sereno e certo, dalla determinazione con cui scandisce le parole. Come se, più che comunicare idee, testimoniasse la profondità delle radici su cui è piantata la sua vita. Una certezza e una positività che lasciano il segno, in una stagione all’insegna dell’instabilità e del dubbio.
La crisi che stiamo vivendo non è meramente economica, ma affonda le sue radici nell’umano. È una sfida radicale alla concezione della vita che ciascuno di noi ha. È qui dove si vede se uno ha qualcosa che davanti alla crisi «tiene» e gli consente di non essere smarrito, scettico o rassegnato. Conservo nel cuore una frase di Giussani che è di un’attualità impressionante: «Mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto». In Germania, Benedetto XVI è andato al fondo della questione: «L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo ’perde’ sempre di più la vita». Io faccio spesso l’esempio del termosifone: quando lo spegni per un po’ non ti accorgi di nulla, ma dopo un po’ il freddo prende il sopravvento. Davanti alla crisi noi siamo soli col nostro freddo, ci riteniamo autosufficienti, oppure abbiamo qualche risorsa di caldo che ci consente di affrontarla e di non restare smarriti?
Lei cita spesso la frase di Péguy: «Per sperare occorre avere ricevuto una grande grazia». Chi non ha fede in Dio non può sperare?
Sperare appartiene alla natura stessa dell’uomo, è una «mossa» originaria e incancellabile. Lo riconosce anche Pavese: «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?». Tutti veniamo al mondo con un’apertura totale di fronte al reale, come è evidente nella curiosità dei bambini, ma strada facendo questo atteggiamento si corrompe, tanto che è quasi impossibile trovare adulti che non siano almeno un po’ permeati dallo scetticismo. Perché questa mossa originaria possa tenere nel tempo, perché non ceda di fronte alle fatiche dell’esistenza, occorre avere ricevuto una grande grazia, quella che i cristiani hanno appena celebrato nel Natale.
C’è qualcuno che testimonia con più forza questa posizione umana?
La figura più esemplare che abbiamo davanti è quella di Benedetto XVI. È difficile trovare un’altra personalità che abbia una lucidità di giudizio sulla situazione attuale e che allo stesso tempo, senza ritirarsi in uno spiritualismo estraneo al reale, continua a sfidare tutti mostrando come la fede può dare un contributo decisivo per affrontare le sfide che abbiamo davanti. Abbiamo la fortuna di avere tra noi un gigante.
Ma il Papa è un gigante isolato?
Come tutti i giganti ha bisogno di figli. La questione è se noi ci lasciamo interpellare e illuminare dalla sua testimonianza, e così possiamo partecipare della genialità del gigante. Nella misura in cui il popolo cristiano si muove nel solco della sua testimonianza, il mondo vedrà fiorire persone capaci di partecipare alla costruzione del bene comune a partire dalla certezza che Cristo salva l’uomo.
Come è possibile condividere uno sguardo carico di speranza con tutti, anche con chi non professa alcuna fede religiosa?
Non abbiamo lezioni da impartire a nessuno, ma un tesoro ricevuto da testimoniare a tutti. Siamo stati scelti nella nostra piccolezza per portare ovunque lo sguardo con cui Gesù guarda gli uomini. Nella misura in cui siamo investiti da questo sguardo, possiamo renderlo presente a chiunque e fare un pezzo di strada insieme per rendere più umana la convivenza. Lo dimostra, ad esempio, la ricchezza di umanità che ha accompagnato le decine di incontri promossi dalle comunità di Cl a partire dal documento «La crisi, sfida per un cambiamento», con la partecipazione di personalità di diversa estrazione culturale.
Cosa chiedere alla politica e a chi ci governa perché con la loro azione alimentino una prospettiva di positività?
Alla politica non possiamo chiedere quello che non può dare. Da essa non ci aspettiamo la salvezza, ma che crei le condizioni per stimolare e favorire le iniziative di chi costruisce per il bene comune, di chi crea lavoro, risorse, ricchezza e ambiti in cui la società possa crescere.
Lei incontra tanti giovani, in Italia e nel mondo: come li vede?
La questione è che ci siano adulti disponibili a prenderne sul serio il bisogno con una proposta che li interroga e li sfida. Quando incontrano testimoni credibili, quando si riaccende il motore del desiderio, emergono personalità che lasciano a bocca aperta. In fondo è un problema educativo: quando trova un alveo, la loro energia vitale prorompe.
Benedetto XVI ha indetto l’Anno della fede, come a indicare la necessità di tornare alle radici del cristianesimo. È un contrattacco rispetto a una secolarizzazione sempre più pervasiva e insieme una presa d’atto di quanto i cristiani stanno smarrendo le loro radici?
Il cristianesimo continua a comunicarsi se per ogni generazione riaccade un nuovo inizio. È come in una famiglia: il fatto che i genitori siano credenti non è di per sé una garanzia che anche i figli lo diventino; deve scattare la mossa della libertà, un’adesione ragionevole alla fede. Il Papa avverte l’urgenza di riproporre il contenuto essenziale della fede perché sono prevalse concezioni che la riducono a discorso, dottrina, etica o sentimento. Ma queste riduzioni non reggono di fronte alle sfide della modernità, che ci costringe a riscoprire la natura del cristianesimo. Anche oggi è dunque necessario un nuovo inizio, per testimoniare come la ragione e la libertà trovano nella fede il loro compimento, rendendo evidente che il cristianesimo è qualcosa di umanamente conveniente. In questo senso l’Anno della fede è rivolto prima di tutto ai cristiani, ma, nella misura in cui noi vivremo un «nuovo inizio», può giovare a tutti, secondo il metodo scelto da Gesù: dare la grazia ad alcuni perché attraverso di loro possa arrivare a tutti coloro che sono disponibili ad accoglierla.
Tra pochi giorni ricomincia la Scuola di comunità, lo strumento di educazione alla fede proposto a tutti da Comunione e liberazione. Qual è il tema del 2012?
Nel libro «All’origine della pretesa cristiana», il testo di quest’anno, c’è una straordinaria sintonia con le motivazioni dell’Anno della fede. In quelle pagine Giussani mostra la ragionevolezza della fede attraverso lo sguardo di coloro che hanno partecipato a quel primo tentativo di «verifica» che fu la convivenza di Gesù coi discepoli. Nell’incontro che fin dall’inizio li affascinò per la sua eccezionalità, si mise in moto il desiderio di condividere con Lui tutta la vita. Cristo continua a proporsi oggi attraverso la Chiesa, incontrando tutta la nostra umanità. In un’epoca di smarrimento e confusione come questa, è motivo di gratitudine avere ricevuto la grazia della fede, che è davvero l’unica ragione per sperare. L’unica che ha la consistenza sufficiente per fare respirare l’uomo in qualsiasi circostanza.
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