"chi è l’uomo che non desidera capire se stesso fino in fondo?"
«Dalla crisi si esce solo insieme, ristabilendo la fiducia vicendevole. Bisogna che chi è convinto di questo, si giochi. Quell’insieme è un contagio. Ma può contagiare solo chi è già stato “contagiato”. È come una grande catena: la catena della solidarietà della grande famiglia umana.
Non credo nei progetti e nei piani pastorali. Io stesso mi propongo di assecondare la vita della Chiesa di Dio, che è fatta ultimamente dallo Spirito del Risorto il quale suscita doni, nelle persone e nelle realtà associate. Il compito di chi guida è dare un orientamento, in modo tale che ognuno trovi il suo posto e al tempo stesso possa concorrere al bene della Chiesa. Concorrere al bene della Chiesa domanda all’uomo di essere in un adeguato rapporto con se stesso, con gli altri e con Dio, di essere capace di virtù teologali – fede, speranza e carità – ma anche di virtù cardinali – prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Un uomo simile, come diceva Péguy, è anche un cittadino eccellente.
Come il nostro io comunica attraverso il corpo, anche la Chiesa – come ogni realtà umana – comunica se stessa attraverso lo strumento in senso nobile dell’istituzione. Ma se la struttura prevale sulla vita come espressione della totalità dell’io e mette da parte la potenza creativa di una razionalità commossa, radicata nel profondo del cuore nostro, e prende il sopravvento allora uccide la vita. Non ho mai visto nascere la vita se non da una vita già in atto: lo vediamo, innanzitutto, nel rapporto tra l’uomo e la donna. Quindi non può mai essere l’organizzazione a far nascere la vita, mai. Ma più è debole, nelle nostre realtà associate, ivi compresa la Chiesa, la consistenza dell’io e delle sue azioni, più è debole il per chi il nostro io si muove, più noi saremo tentati di consegnare alla struttura organizzativa la totalità della nostra vita, personale ed associata».
«Il primo motivo di speranza è che Gesù nasce! Ma poiché Gesù è venuto fisicamente nel mondo duemila anni fa, quando lo pensiamo viene naturale per noi fare nostra la mentalità illuministica, quella per cui Lessing si chiedeva: chi colmerà questo terribile fossato che ci separa da Gesù? Siamo tentati di ricacciarlo nel passato, perché non assecondiamo fino in fondo il messaggio che la Chiesa – madre e maestra – ci ripropone. Non a caso sin dal suo inizio situa subito il Natale nella giusta prospettiva. La venuta nella carne di Gesù si collega alla Sua venuta finale. Non possiamo vivere il Natale in termini integrali se non aspettiamo il Gesù glorioso che viene a chiudere la storia e a compiere la giustizia. Se questo secondo polo dell’attesa lo dimentichiamo, il Natale sarà per noi un mito o una favola. Però non è questo il senso cristiano della nascita. Esso chiama subito in campo il fine, nel duplice valore di termine e di senso. Qui trova le sue radici la speranza cristiana.
E come terzo motivo, all’avvento della carne e all’avvento finale san Bernardo aggiungeva l’avvento di Gesù nel cuore di ogni cristiano che lo segue con umiltà. E questo produce conseguenze. Se non credete a me, credete almeno alle mie opere, diceva Gesù. Le tante opere della nostra Chiesa e della nostra società, le energie che tante donne e tanti uomini dedicano alla condivisione del bisogno dell’altro, danno vita a una infinità di segni di speranza, che dobbiamo guardare e seguire.
C’è il rischio per i cattolici di essere così «laici» tanto da incorrere nell’errore di separare la fede dalla vita? Scola lo aveva detto nel suo discorso in occasione di sant’Ambrogio, citando Paolo VI: «Siamo ormai così abituati noi moderni a considerare questa distinzione del profano dal sacro, che facilmente pensiamo i due campi non solo distinti, ma separati; e sovente non solo separati, ma ciascuno a sé sufficiente e dimentico della coessenzialità dell’uno e dell’altro nella formula integrale e reale della vita». «Oggi il rischio più grave di tutte le comunità a tutti i livelli è proprio il dualismo, la separazione, come diceva già Paolo VI, tra la fede e la vita. Pensare che la fede sia qualcosa che riguardi la sfera individuale, il mondo delle mie intenzioni, delle mie belle anche giuste aspirazioni, ma che la vita poi sia un’altra cosa. Da cristiani, noi non ci possiamo stare». Viene in aiuto la grazia della Chiesa: «partecipando dell’eucarestia, partecipiamo all’evento storico, singolare, irripetibile della passione, morte, e risurrezione di Gesù. Ma l’eucarestia non è un culto separato. Gesù, nel mistero del Natale, ha rotto la distinzione tra fanum, il sacro e pro-fanum, il profano, ciò che sta davanti-al-sacro. Bisogna che l’eucarestia passi nella vita. Ma come? Ripetendo il gesto. Solo ripetendo i gesti una creatura come noi può approfondire il mistero del Dio che si fa carne. Allora il modo in cui affrontiamo le circostanze della vita sarà radicalmente nuovo».
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