Da un villaggio della Guinea ai vertici del Vaticano. Storia del cardinale
Robert Sarah e del suo occhio profetico sull’agonia dell’occidente cristiano
“Oggi la chiesa deve combattere
controcorrente, con coraggio e speranza, senza temere di alzare la voce per
denunciare gli ipocriti, i manipolatori e i falsi profeti. In duemila anni, ha
affrontato molti venti contrari, ma alla fine delle strade più aride, ha
comunque riportato la vittoria” (Robert Sarah, “Dio o niente”)
Il problema dell’uomo occidentale, oggi, è che vive
come se Dio non esistesse. La maggior parte delle popolazioni occidentali non
vede ormai in Gesù nient’altro che una specie di idea, ma non un fatto e ancora
meno una persona”.
Robert Sarah non avrebbe mai immaginato di
pronunciare queste parole sull’agonia dell’occidente cristiano quando da
bambino giocava a calcio con gli amici nel minuscolo villaggio di Ourous, al
confine tra la Guinea e il Senegal, distante cinquecento chilometri di strade
sterrate e polverose dalla capitale Conakry. Nato in una famiglia animista
convertita al cattolicesimo, fu scelto da Paolo VI, il Papa che – mentre
il mondo irretito dallo spirito del tempo rifiutava sdegnato la Humanae vitae –
andava in Uganda a dire che “la nuova patria di Cristo è l’Africa”, ripetendo
quanto già aveva scandito cinque anni prima, canonizzando in San Pietro i
martiri di quella terra. Fu Montini, nei
mesi in cui avvertiva già l’incombere della morte ormai prossima, a volere quel
pretino di neppure trentatré anni arcivescovo di Conakry, la capitale della
Guinea. Lo volle contro il parere di qualche curiale rinchiuso nel recinto
romano, intento a domandarsi come si potesse far finire sulla cattedra
episcopale un uomo poco più che ragazzo. Giovanni Paolo II, ricevendolo una
mattina all’alba in Vaticano, gli avrebbe detto con tono bonario, una volta
conosciuta l’età del presule che aveva davanti, “ma lei è proprio un vescovo
bambino”.
l
Paolo VI lo impose
soprattutto contro il parere di Sékou Touré, il padre della patria e
rivoluzionario marxista che “sradicò la croce per sostituirla con la bandiera
nazionale”, seminando il terrore nel paese e aprendo campi di concentramento
dove mandare al macello gli oppositori che rifiutavano l’esilio o non si
rassegnavano a tacere. All’uomo forte del paese Sarah non piaceva, lo trovava
scomodo, minacciava di fargli fare la fine del predecessore, Raymond-Marie
Tchidimbo, arrestato, torturato e incarcerato per nove anni nel gulag di Camp
Boiro – “dove i militari praticavano torture indescrivibili” – prima di essere
liberato nel ’79 ed essere espulso. Solo dopo la morte di Touré, nel 1984,
Sarah seppe che per lui si stava preparando la forca: “L’ambasciatore della
Germania federale, Bernard Zimmermann, m’informò che dei documenti contenenti
una lista di personalità che avrebbero dovuto essere giustiziate erano stati
ritrovati sulla scrivania stessa di Sékou Touré. Io ero in cima a questa lista.
Il dittatore aveva progettato il mio arresto e il mio assassinio per il mese di
aprile. Dio è stato più rapido di Sékou Touré”, ha scritto il cardinale nel
libro “Dio o niente”, edito in Italia da Cantagalli.
( consiglio vivamente di continuare la lettura; nota di admin)
Forse, la decisione di
eliminarlo era maturata dopo quella frase pronunciata da Sarah in
un’allocuzione pubblica che il presidente mai gli perdonò: “Il potere usa
coloro che non hanno la saggezza di condividerlo”. Tutto quel che faceva il
vescovo era noto ai servizi segreti. Dopotutto, le spie del regime arrivavano ovunque,
fin dentro le stanze dell’episcopio: “Dai primi giorni ho chiesto di poter
condividere i miei pasti con tutti i sacerdoti che lavoravano negli uffici
dell’arcidiocesi. Volevo creare un ambiente di famiglia. Ma alcuni laici sono
venuti a trovarmi per mettermi in guardia. Tutti i miei piani pastorali erano
stati riportati al gabinetto del presidente. Con tristezza mi sono rassegnato a
mangiare da solo”.
Robert Sarah è da un anno prefetto della Congregazione
per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, nominato da Papa Francesco.
Prima, chiamato in Vaticano dalla Guinea nel 2001, era stato segretario
all’Evangelizzazione dei popoli (la vecchia Propaganda fide) e successivamente
presidente del Pontificio consiglio Cor Unum, il dicastero per la carità del Papa. Nel suo mandato, al centro ha messo la povertà
evangelica, cosa ben distinta dalla miseria (male da eliminare) e dalle
ideologie sulla “povertà zero” tanto di moda. Per Sarah, il povero va aiutato a
crescere integralmente, nella sua dignità. Non solo con qualche cassa di cibo e
tanica d’acqua sganciate dagli aerei. Risuona forte l’eco di quanto scrisse
Francesco in occasione della Quaresima del 2014: “Non meno preoccupante è la
miseria morale, che consiste nel diventare schiavi del vizio e del peccato. Il
Vangelo è il vero antidoto contro la miseria spirituale”.
Arrivato a Roma si
trovò un’auto e alcune religiose mandate in aeroporto da un gigante della
chiesa d’Africa, il cardinale Bernardin Gantin, che ricordava bene quando,
decenni prima, scendendo dalla scaletta dell’aereo, non trovò nessuno ad
accoglierlo (“mi faceva da vescovo, padre, consigliere. Aveva un affetto
immenso per me e io per lui”, dirà Sarah ricordando l’ex decano del collegio
cardinalizio scomparso nel 2008).
Per un ventennio fu
vescovo in un paese cosiddetto del “terzo mondo” la cui storia è stata
cadenzata da cambi violenti di regime e campagne d’epurazione degli oppositori
politici. Stagione in cui le croci venivano divelte, un po’ come nell’Unione
sovietica di Lenin e Stalin, strategia che però non faceva altro che rafforzare
la fede in chi credeva davvero. Anche a Ourous, il villaggio di Sarah, la croce
tornò a svettare al centro del villaggio non appena si seppe che Sékou Touré
era morto nella sala operatoria di un ospedale di Cleveland, negli Stati Uniti.
E’ con questo sguardo periferico che le
gerarchie della viva e dinamica chiesa africana parlano all’Europa aggrappata
ai falsi miti e ormai dimentica del quaerere Deum che contribuì a edificarla.
Il male che sta disfacendo l’occidente marcescente è il relativismo, “la base
filosofica delle democrazie occidentali”, ciò che Joseph Ratzinger dieci anni
fa definì “il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina,
l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni”.
In un sistema relativista, ha scritto Sarah, “tutte le
vie sono possibili come molteplici frammenti del cammino del progresso. Il bene
comune sarebbe il frutto di un dialogo continuo con tutti, l’incontro delle
diverse opinioni private, una torre di Babele fraterna in cui ciascuno possiede
una particella di verità”. Il relativismo moderno arriva al punto di
“pretendere di essere l’incarnazione della libertà”, che finisce per trasformarsi “nell’obbligo aggressivo di credere che
non esiste alcuna verità superiore”. Il rischio, scontato e tremendo, è che
l’uomo si crei “la sua propria religione, popolata di molteplici divinità, più
o meno patetiche, che nascono e muoiono a seconda delle pulsioni, in un mondo
che ricorda le religioni pagane antiche”. Sarah definisce tutto ciò una “gogna
totalitaria” in cui la chiesa “perde il suo carattere assoluto; i suoi dogmi,
il suo insegnamento e i suoi sacramenti sono quasi proibiti o sminuiti nel loro
rigore e nelle loro esigenze”. Il fine ultimo del relativismo filosofico è
rendere la chiesa “una qualsiasi”, causandone “la distruzione per diluizione
progressiva”. Cosa che, nota il cardinale, “i relativisti aspettano con
impazienza”. E’ un morbo diffuso che non è facile combattere, visto che il
relativismo “costituisce una forma di Magna carta di uno stile di vita
comunitaria”, cercando di “portare a compimento il processo di eliminazione
sociale di Dio” e orientando “l’uomo in una logica attraente che si rivela in
un sistema totalitario perverso”. Si torna così ineluttabilmente alla piccola
barca del pensiero di molti cristiani agitata dalle onde, “gettata da un
estremo all’altro”.
La risposta più efficace allo stordimento dell’uomo
contemporaneo, a ciò che Robert Sarah chiama il “disprezzo che sfiora la
cristianofobia” è la Dominus Iesus scritta da Ratzinger quando era capo dell’ex
Sant’Uffizio, la dichiarazione di
inizio millennio sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della
chiesa, poco digerita anche tra le mura vaticane e che lo storico Alberto
Melloni ha bollato come “il documento più fragile del pontificato
wojtylano”. Il male si è fatto largo nell’Europa un tempo cristianissima
che oggi s’è allontanata da Dio. Non l’ha fatto, però, “sulla base di un
rifiuto della sua esistenza, bensì sull’indifferenza riguardo al senso religioso.
Così – disse il porporato in un’intervista al vaticanista polacco Vladimir
Redzioch – l’affermazione tipica della
postmodernità, che nasce con la rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta,
per cui Dio non esiste, oggi è divenuta ‘che ci sia o non ci sia, poco importa:
ciascuno è libero di credere ciò che vuole, purché in privato’”.
Ma questa altro non è che “la negazione stessa del
principio della libertà di espressione, oltre che della libertà religiosa.
L’uomo occidentale ha precluso la strada a qualsiasi pretesa di ricerca
veritativa: se tutto è uguale, nulla conta più”.
Sarah individua nella contrapposizione tra la libertà e l’autorità il tratto saliente che caratterizza la società emersa dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta, fino al punto che persino tra i fedeli più assidui e convinti spesso vi è la convinzione che l’esperienza personale sia più importante delle regole stabilite dalla chiesa. “Ormai non sarebbe falso affermare che esiste una forma di rifiuto dei dogmi della chiesa, o una distanza crescente tra gli uomini, i fedeli e i dogmi”. L’ex arcivescovo di Conakry guarda al matrimonio, così dibattuto nel biennio sinodale appena concluso, e guarda il “fossato” che separa una parte del mondo e la chiesa: la questione è semplice, dice: “Deve cambiare atteggiamento il mondo o la chiesa deve cambiare la sua fedeltà a Dio?”. Oggi si pensa che “a motivo della bontà infinita del Signore tutto sia possibile, anche se non si cambia niente nella propria vita”.
Sarah individua nella contrapposizione tra la libertà e l’autorità il tratto saliente che caratterizza la società emersa dalle rivoluzioni degli anni Sessanta e Settanta, fino al punto che persino tra i fedeli più assidui e convinti spesso vi è la convinzione che l’esperienza personale sia più importante delle regole stabilite dalla chiesa. “Ormai non sarebbe falso affermare che esiste una forma di rifiuto dei dogmi della chiesa, o una distanza crescente tra gli uomini, i fedeli e i dogmi”. L’ex arcivescovo di Conakry guarda al matrimonio, così dibattuto nel biennio sinodale appena concluso, e guarda il “fossato” che separa una parte del mondo e la chiesa: la questione è semplice, dice: “Deve cambiare atteggiamento il mondo o la chiesa deve cambiare la sua fedeltà a Dio?”. Oggi si pensa che “a motivo della bontà infinita del Signore tutto sia possibile, anche se non si cambia niente nella propria vita”.
L’occidente si sbaglia
di grosso se crede che il “liberalismo morale” porti a un progresso della
civiltà. Basta guardare i numeri, le conseguenze portate da questa supposta
libertà: in Francia sono state praticate 220 mila interruzioni volontarie di
gravidanza all’anno, un aborto ogni tre nascite. “C’è una guerra dichiarata
contro la vita. Come si fa a concepire
il fatto che così tanti bambini siano eliminati dal grembo delle loro madri col
pretesto di un diritto della donna alla libertà del suo corpo?”. Ma la nuova
battaglia “ideologica” della postmodernità occidentale è diventata l’eutanasia.
“Se non usciamo dalla cultura di morte, l’umanità si avvicina alla perdita di
se stessa”. In questo primo scorcio di Terzo millennio, nota Sarah, “la
distruzione della vita non è più un atto barbarico, ma un progresso della
civiltà; la legge prende a pretesto un diritto di libertà individuale per dare
all’uomo la possibilità di uccidere il suo prossimo”. E questa non è più
decadenza, bensì “dittatura dell’orrore, di un genocidio programmato”. La chiesa è chiamata a dare risposte,
“non può più andare avanti facendo finta che la realtà non esista; non può più
accontentarsi di un entusiasmo effimero. Davanti all’ondata di
soggettivismo, gli uomini di chiesa devono stare attenti a non negare la realtà
inebriandosi di apparenza e di gloria ingannevole”. La chiesa, insomma, è
chiamata a recuperare una visione: “Se il suo insegnamento non è compreso, non
deve temere di rimettere cento volte mano all’opera. Non si tratta di addolcire le esigenze del Vangelo o di cambiare la
dottrina di Gesù e degli apostoli per adattarsi alle mode evanescenti, ma di
rimetterci radicalmente in causa sul modo in cui noi stessi viviamo il Vangelo
e presentiamo il dogma”.
Non che l’Africa cristiana, con le vocazioni in rapida crescita, sia
l’eldorado, una sorta di Terra promessa in cui scorrono fiumi di latte e miele.
Benedetto XVI, nel 2009, lanciò il monito, quando avvertì che quel continente
rappresenta sì “un immenso polmone spirituale per un’umanità che appare in
crisi di fede e di speranza”, ma anche
questo polmone – sottolineava il Pontefice oggi emerito – “può ammalarsi”, e
due “pericolose patologie oggi lo stanno intaccando: il materialismo pratico,
combinato con il pensiero relativista e nichilista”. Analisi che Sarah
condivide, quando ricorda che “i problemi della chiesa africana vengono proprio
dal suo essere giovane”, e quindi anche i fedeli e lo stesso clero possono
farsi “prenderere dalla mondanità spirituale”, quel fenomeno su cui tanto
insiste Francesco nella sua predicazione incessante e che altro non è che “un
fenomeno di corruzione dell’anima”. Il cardinale sposa fino in fondo la
battaglia di Bergoglio: “Come negare che esiste un rilassamento morale in
alcuni uomini di chiesa? Il carrierismo e la tentazione della mondanità sono
dei mali molto reali. Alcuni si immaginano che siano dei mali dell’immaginario
del Papa. Ahimè – dice Sarah – il narcisismo clericale non è solo un tema
letterario. La malattia può essere profonda”.
Sono elementi, questi,
che portano a ritenere che la vera crisi non sia quella che attraverserebbe la
chiesa, bensì una “crisi di Dio”: “La
più grande difficoltà degli uomini non è il credere quello che la chiesa
insegna sul piano morale; la cosa più dura per il mondo postmoderno è il
credere in Dio e nel suo figlio unico. La più grande preoccupazione deve
restare Dio”. Un tema che Papa Francesco aveva toccato nell’omelia –
ingiustamente sottovalutata nel contesto del viaggio negli Stati Uniti – tenuta
lo scorso settembre al Madison Square Garden di New York, quando pose
l’interrogativo su “come trovare Dio nello smog delle nostre città, come
incontrarci con Gesù vivo e operante nell’oggi delle nostre città
multiculturali, nel ritmo dei cambiamenti”. Nella nostra epoca, scriveva l’ex
arcivescovo di Conakry, spesso “i fini ultimi e l’eternità sono diventati una
specie di peso psicologico senza alcuna necessità. I cristiani stessi, in molte
occasioni, si sono accomodati in un’apostasia silenziosa”.
ilfoglio
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