«Che cosa significa
“misericordia”? Guarisci il mio peccato, rendimi in grado di accettare la tua
volontà. Questo significa “misericordia”!».
Da qualche tempo (come ho accennato in un altro
intervento) sono alle prese con l’insegnamento di un padre spirituale ortodosso
del Monte Athos (sto aiutando un giovane e bravo monaco in un lavoro di
traduzione) e resto colpito da questa definizione della misericordia. Che suona
così antica ma proprio per questo così nuova per noi cattolici.
In primo piano non c’è la richiesta che Dio guardi ai
limiti della creatura e li giustifichi. C’è una creatura che si sente
peccatrice, invoca la guarigione e chiede aiuto per accettare la volontà
divina.
L’idea di misericordia
è qui ribaltata rispetto all’uso che appare ricorrente oggi in ambiente
cattolico, dove spesso, dicendo misericordia
divina, si pensa prima di tutto al diritto che l’uomo avrebbe di essere
comunque giustificato, accolto e compreso da un Dio la cui capacità di
misericordia sarebbe proporzionale alla sua disponibilità a giustificare,
accogliere e comprendere.
Mi sto accorgendo che il padre spirituale ortodosso
propone, nelle sue meditazioni, un alfabeto da noi quasi dimenticato. Voglio
qui proporre alcune parole.
«Metanoia». Significa conversione profonda, cambiare radicalmente
idea e atteggiamento. Cambiare vita, cambiare punti di riferimento: in primo
piano non ci siano i miei gusti, la mia sensibilità, il mio sentimento, ma la
volontà di Dio, i suoi comandamenti.
Pentimento. Anche questa parola non sono è certamente centrale
nella predicazione cattolica. Nella nostra Chiesa è più facile sentir parlare
di accoglienza e apertura. La stessa parola «peccatore» è stata estromessa. Al
suo posto abbiamo le fragilità, le ferite.
In ambito cattolico più che sul pentimento, e sulla conversione del peccatore,
si punta sull’infinita disponibilità di un Padre che è sempre pronto a
perdonare.
Obbedienza. Da noi raramente se ne parla. Obbedire? Se la Chiesa
è accoglienza, apertura e cura delle ferite, se l’atteggiamento raccomandato è
quello di non giudicare, di non distinguere tra bianco e nero, di non apparire
rigidi e dogmatici, come si può ricorrere all’idea di obbedienza? Obbedienza
verso che cosa? Verso la legge? Ma non si
dice continuamente che la legge va superata e che occorre invece il
discernimento nella singola situazione? Obbedienza verso chi? Verso Dio? Ma
non si dice continuamente che Dio può solo accogliere?
Rinuncia. Obbedire significa aderire alla volontà di Dio, non
alla propria, e questa adesione comporta una rinuncia. Si tratta di abbandonare
gli istinti e i sentimenti nostri, che ci spingono verso il basso, per lasciare
spazio a Dio, alla sua Parola, alla sua libertà di agire in noi. Ma il verbo
rinunciare suona male alle orecchie cattoliche. Da noi si preferisce immaginare
che sia Dio, in quanto misericordioso, a dover rinunciare al giudizio e al
castigo.
Tagliare. Un verbo inaspettato. Che cosa c’è da tagliare? La
propria volontà, per aderire a quella di Dio. L’idea del taglio non lascia
troppo spazio ai distinguo, alle sfumature, alle giustificazioni. È un’azione
decisa: taglio netto. Non sapevo che nella spiritualità ortodossa questo verbo
fosse così usato. Istintivamente ho pensato che fosse più corretto tradurlo con
un sinonimo meno crudo, come «adeguare» o «conformare», invece il giovane
monaco mi ha detto: «No, qui non c’è scelta, tagliare è tagliare».
Ascesa. È l’itinerario spirituale verso Dio. Guardare tutto
con i suoi occhi, dal suo punto di vista. Mettere in discussione se stessi per
consentire a Dio di operare. Affidarsi a Dio, con fiducia incondizionata,
specie quando l’affidamento mette a dura prova il nostro desiderio di
autonomia, per lasciare che sia Lui ad afferrarci. Da noi la parola «ascesa»
sa, nel migliore dei casi, di mistica riservata a pochi. Nella predicazione del
padre ortodosso è invece costantemente richiamata come dovere per ogni credente
che non voglia restare schiavo del peccato.
Tradizione. Ecco un’altra parola quasi bandita dal vocabolario
cattolico corrente. Da noi si dice tradizione e si pensa a qualcosa di vecchio,
da superare, o quanto meno da aggiornare. Il padre spirituale ortodosso invece
dice tradizione e pensa al tedoforo che consegna la fiaccola al compagno che
viene dopo. La fiaccola della fede porta
la luce nelle tenebre del mondo. La tradizione non è un peso da sopportare. È
luce da donare. IL regalo più grande.
Tra le tante parole con le quali mi sto confrontando
queste sono soltanto alcune, ma forniscono già un’infinità di spunti.
Che cos’hanno in comune? Direi che, intanto, non sono parole ambigue. Hanno un significato
preciso, non ambivalente. Questa chiarezza, questa precisione, da noi è sempre
più rara, perché preferiamo le espressioni sfumate, le mezze tinte e le mezze
misure, le parole e le frasi complesse. E poi sono tutte espressioni attraverso
le quali la creatura è spinta verso Dio.
Mentre nella predicazione cattolica (penso anche a
quella di Francesco) in genere si privilegia il movimento di Dio verso
l’uomo, il suo abbassarsi, il suo mettersi nei panni dell’uomo, qui abbiamo la
tendenza a sottolineare la richiesta contraria: che l’uomo si innalzi verso Dio
spogliandosi di se stesso.
Il peccatore è salvato se, prima di tutto, accetta di
essere peccatore. La disponibilità divina al perdono non è mai in discussione,
ma accanto a questa è richiamata la necessità che il peccatore,
sentendosi tale, si affidi totalmente a Dio e alla sua giustizia.
Vorrei essere un esperto di teologia ortodossa per
potermi spiegare meglio, ma spero di essere riuscito a trasmettere il capovolgimento di prospettiva rispetto a una
predicazione cattolica che sempre più raramente chiama in causa i doveri
dell’uomo verso Dio e punta piuttosto su quelli che appaiono i doveri di Dio
verso l’uomo.
Non sono in grado di dire se e in quale misura una
predicazione come quella del padre spirituale del quale mi sto occupando è accolta
e condivisa oggi nella cultura dei paesi di tradizione ortodossa. Anche lì il
processo di secolarizzazione è andato avanti velocemente. In ogni caso trovo
istruttivo il confronto con questo insegnamento.
«Sforzatevi di vivere la vostra giornata senza
peccato»: in questo modo il padre sintetizza il suo messaggio. Che ha per lui
anche un contenuto ecumenico. Infatti, pur non credendo nell’ecumenismo
istituzionale, pensa che sia possibile l’ecumenismo del cuore nel momento in cui i cristiani invocano lo
Spirito Santo riconoscendosi bisognosi.
C’è un criterio alla base delle riflessioni proposte
dal padre: la salvezza personale.
Laddove la predicazione cattolica sembra puntare sul rapporto tra gli uomini
(solidarietà, fratellanza) mettendone in ombra, o tra parentesi, lo scopo
precipuo, qui c’è un richiamo continuo al destino eterno dell’anima, la grande
posta in gioco.
Anche l’appartenenza
alla Chiesa è in funzione della salvezza dell’anima. La battaglia tra bene e male, tra il demonio e
Dio, che è battaglia prima di tutto interiore, non è nascosta o sottovalutata.
Idem per la fatica e il travaglio, conseguenze della battaglia.
Una visione di fede non edulcorata, mai disposta a
scendere a compromessi con l’umano desiderio di ricevere facile consolazione.
Una visione affascinante in quella che a noi risulta una ruvidezza d’altri
tempi.
Aldo Maria Valli
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