DON BOSCO, DON GIUSSANI E GUARESCHI
Aprile 2018 Peppino Zola
In occasione del
Sinodo, molti “esperti” cattolici cercano un “linguaggio” nuovo per parlare
alle nuove generazioni. L’esempio di don Bosco, Giussani e Guareschi
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Card. Woytyla. e don Giussani 1973 |
Caro direttore, in
questi giorni, sull’onda del “lancio” del Sinodo sui giovani che si terrà nel
prossimo ottobre, ho letto e sentito molti “esperti” cattolici sottolineare che
occorre trovare un “linguaggio” nuovo per parlare alle nuove generazioni, quasi
che ci si dovrebbe mettere a tavolino per inventare qualche cosa di “diverso”
per potere annunciare Gesù. Seguendo questa strada, si rischia di non pescare
le cose da dire nella stessa storia della Chiesa, pensando che ogni volta
occorra ricominciare da zero. Un nuovo
inizio non è ricominciare da zero.
Pensando a queste cose, mi sono venuti in mente due grandi
educatori: san Giovanni Bosco del secolo XIX ed il servo di Dio don Luigi
Giussani, che ha iniziato la sua opera nel secolo XX fino agli inizi del secolo
presente. Questi due immensi sacerdoti hanno avuto in comune, innanzi tutto, la passione per Gesù Cristo presente nella
Chiesa cattolica e quindi in misura struggente il desiderio di annunciarLo soprattutto
ai giovani; la decisione di abbandonare tutto il resto per andare a condividere
la vita dei giovani stessi (anche se in situazioni diverse); di credere in
quello che dicevano e facevano, tanto che i giovani si sono convertiti
seguendoli. Entrambi non hanno inventato un “linguaggio” nuovo a tavolino, ma,
forti della fede in Cristo, hanno
annunciato ciò che lo spirito dettava loro.
Caro direttore, mi chiedo perché gli attuali educatori cattolici non si
chiedano per quale motivo, solo pochi decenni fa, il sacerdote ambrosiano sia
riuscito a parlare ai giovani moderni, molti dei quali lo hanno seguito anche
nella loro vita adulta. Se essi si rivolgessero ai suoi metodi ed alle sue
indicazioni, invece che arrovellarsi su che cosa inventare di nuovo, forse
perderebbero meno tempo e sarebbero finalmente un po’ efficaci. L’efficacia di
don Giussani risiede nel fatto che egli credeva veramente in Gesù Cristo, come
si può constatare leggendo le pagine 162 e 163 della Vita di don Giussani di Alberto Savorana
(Rizzoli): egli è entrato al liceo Berchet «con
il cuore tutto gonfio dal pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo, è
il cuore della vita dell’uomo». Questo è stato il suo punto di partenza e
dovrebbe essere il punto di partenza di chiunque voglia parlare cristianamente
ai giovani di oggi.
Ma don Giussani ha indicato anche un metodo,
a cui nessuno degli “esperti” sentiti in questi giorni ha fatto riferimento. Mi
riferisco, in particolare, a quanto don Giussani scrisse nel 1959 (dopo i primi
cinque anni di esperienza in Gioventù Studentesca) nel libretto intitolato Gioventù Studentesca.
Riflessioni sopra un’esperienza, che ora possiamo ritrovare nel
volume Il cammino al vero è
un’esperienza (Rizzoli). Tale libretto indica, in termini
molto precisi, un chiaro percorso educativo e così inizia: «Il richiamo cristiano deve essere: deciso come gesto; elementare
nella comunicazione; integrale nelle dimensioni; comunitario nella
realizzazione».
Con questa lettera, vorrei riprendere il primo di questo 4 punti: il
richiamo cristiano (la prima parola scritta da don Giussani sulla sua
esperienza in GS è una parola missionaria) deve essere
DECISO COME GESTO.
In due pagine (25-26), don Giussani indica un metodo che mi pare sconfessi
tutta la timidezza dei cattolici quando affrontano il problema dell’annuncio.
Infatti, egli scrive che «la prima
condizione per raggiungere tutti è una iniziativa chiara di fronte a chiunque…
perché… può essere illusione ambiguamente coltivata quella… di proporsi alle
persone con una indecisione tale da sminuire il richiamo, nel timore che il suo
urto contro la mentalità corrente indisponga gli altri». E poi aggiunge:
«Ad un certo momento occorre porsi di fronte ai problemi seri… anche nel
dialogo con gli altri e per questo occorre la forza di mettersi contro, che è
quanto Cristo ci ha chiesto per farci entrare nel regno: “chi avrà avuto
vergogna di me di fronte agli uomini, anch’io avrò vergogna di lui di fronte al
Padre mio”». Don Giussani termina questo punto, scrivendo che occorre «sfidare l’opinione di tutti per
seguire Gesù». Innanzi tutto, quindi, occorre non avere alcuna paura, sia
personalmente che comunitariamente, nel richiamare a Cristo, il quale ci ha già
preconizzato che, comunque, non saremo popolari nel farlo: non avremo certo
l’approvazione del “mondo”. Tutta la liturgia della settimana Santa e
dell’ottava di Pasqua ci invita, guarda caso, ad essere espliciti e chiari
nell’annunciare la Risurrezione di Gesù (san Pietro è andato in galera per
questo).
Ho letto recentemente un episodio del don Camillo di Guareschi, quello
intitolato “La paura continua”. Don Camillo, che aveva scritto una certa verità
sul giornaletto della sua parrocchia, confida a Cristo la sua amarezza per
avere incontrato la disapprovazione di tanti parrocchiani. Cristo, dalla croce,
gli risponde spiegandogli perché ha suscitato l’odio di tanti: «Ti odiano.
Vivevano caldi e tranquilli dentro il bozzolo della loro viltà… nessuno aveva
detto pubblicamente questa verità. Tu hai parlato e agito in modo tale che essi
ora debbono saperla la verità. E perciò ti odiano e hanno paura di te… essi non
ti saranno riconoscenti, ma ti odieranno e, se potranno, ti uccideranno, perché
tu li costringi ad accorgersi di quello
che essi già sapevano ma, per amor di quieto vivere, fingevano di non sapere.
Essi hanno occhi ma non vogliono vedere. Essi hanno orecchie ma non vogliono
sentire».
Anche questo brano di Guareschi (sembra quasi di leggere un pezzo di
Vangelo) sottolinea come l’annuncio cristiano porta in sé una dimensione
drammatica, che non può avere i tratti di un’azione piccolo borghese.
L’annuncio deve essere deciso innanzi tutto per salvare la verità di chi lo fa;
ma anche per mettere in moto la libertà dell’altro, a costo di smuovere le
acque tranquille.
Capisco perché don Giussani, al termine di un memorabile
intervento al Meeting di Rimini, disse a noi, diventati adulti: «Auguro a me e
a voi di non stare mai tranquilli».