CARI
FRATELLI NELLA FEDE, ALZIAMO LO SGUARDO
Lettera aperta ai ciellini, che un po' si perdono via
sui social in discussioni infruttuose sulle regole. «Non annacquiamo l'enormità
del nostro carisma»
Peppino Zola
Caro direttore, scrivo a te, caro amico, anche se, in
realtà, la lettera vorrei spedirla a tutti i fratelli e a tutte le sorelle che
condividono con me l’esperienza di Comunione e Liberazione: e vorrei scrivere
loro perché l’incontro fatto con il Movimento nato intorno a don Giussani è
stato così determinante per la mia oramai lunga vita (ho superato gli
ottant’anni dei “più robusti” del salmo) che non riesco a rimanere indifferente
rispetto al pericolo di vedere dei fratelli e delle sorelle nella fede perdere
tempo rispetto al cuore intimo della nostra esperienza.
Dopo avere avuto per tre anni don Giussani come
insegnante di religione al liceo Berchet, sono entrato “definitivamente” nel
Movimento (allora nella forma di Gioventù Studentesca) nell’autunno del 1958 e
quindi sto appartenendo a questa straordinaria storia da ben 64 anni, dato che
don Giussani, come ho già avuto modo di scrivere, mi ha buttato in una vita
intensa e avventurosa, di cui sono e sono sempre stato immensamente grato al
Signore, che ha avuto pietà dei miei limiti. E mi ha permesso di “non stare mai
tranquillo”, come lo stesso don Gius ci ha augurato al termine di un suo
memorabile intervento al Meeting di Rimini.
E sono stati anni attraversati, insieme ad avvenimenti
esaltanti, anche da momenti di grande difficoltà (per esempio la lacerante
divisione del 1968), che però non ci hanno mai impedito di guardare lietamente
al punto essenziale della nostra esperienza, cioè Cristo stesso, vissuto
nell’appartenenza alla comunione come dono totalmente gratuito. Ma allora,
perché ho pensato di scrivere agli amici ed alle amiche dal popolo a cui
appartengo? Perché ho intravisto un pericolo (anche se, d’altra parte, sono
commosso dalla testimonianza di una vita cristiana eroica vissuta da molti
amici). Mi spiego.
Come sappiamo, Santa Madre Chiesa ci ha chiesto di
aggiornare le regole che tengono insieme gli iscritti della Fraternità di
Comunione e Liberazione e tutti noi siamo stati giustamente coinvolti in questo
cammino, richiestoci per aumentare la coscienza con cui viviamo la nostra fede.
Questo cammino è fatto anche di passaggi “tecnici” che riguardano la stesura di
uno statuto aggiornato, mentre la vita del Movimento deve continuare senza
alcuna interruzione, affinché il nostro contributo alla Chiesa non venga meno
neppure per un secondo.
Come in tutte le cose umane, può accadere che alcuni
di questi passaggi non siano sempre semplici. Ecco, sui social ho visto degli
amici soffermarsi pubblicamente su alcuni di questi passaggi, con giudizi e
osservazioni poco fraterni e comunque esagerati, in modo tale da correre il
pericolo di annacquare la comunione esistente (comunque) tra di noi. Viene
spesso ricordato un detto di qualche saggio orientale, che dice più o meno
così: “quando un dito indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Ho pensato di
scrivere queste righe per aiutarci a fare memoria della “luna”, cioè
dell’essenziale della nostra esperienza, che ci aiuta a dare il giusto posto
anche a possibili errori che possano essere commessi. In poche parole, vorrei
invitare me stesso e tutti gli amici a tenere lo sguardo fisso sulla sostanza
della nostra vita e della nostra esperienza cristiana, senza farci troppo
distrarre da problematiche importanti, ma secondarie rispetto alla “luna”. Lo
sguardo alla sostanza ci farebbe vivere con più serenità (ed anche con un po’
di ironia) certi passaggi “tecnici”, che pure sono necessari.
La Grazia del Signore ci ha fatto incontrare un
carisma eccezionale, impersonato da un gigante della fede (ora sempre più
riconosciuto come tale), che, precedendo ogni analisi sulla “crisi” della
Chiesa, ha avuto il coraggio di riannunciare la presenza eccezionalmente
“nuova” di Cristo ad un mondo che già aveva iniziato ad allontanarsi dal
cristianesimo (approfittando anche del fatto che molti cattolici avevano, in
sostanza, vergogna di parlare direttamente di Gesù, il che, peraltro, è una
tendenza normale nella storia cristiana).
A pagina 162 della monumentale Vita di don
Giussani scritta da Alberto Savorana possiamo leggere queste parole di
don Giussani: «Me lo ricordo come fosse oggi: liceo classico Berchet, ore 9 del
mattino, primo giorno di scuola, ottobre 1954. Mi ricordo il sentimento che
avevo mentre salivo i pochi gradini d’entrata al liceo: era l’ingenuità di un
entusiasmo, di una baldanza, che mi aveva fatto lasciare la pur amata strada
dell’insegnamento della teologia nel seminario diocesano di Venegono per poter
aiutare i giovani a riscoprire i termini di una fede reale».
E Savorana aggiunge che «Giussani si rivedeva in quel
momento, “con il cuore tutto gonfio dal pensiero che Cristo è tutto per la vita
dell’uomo, è il cuore della vita dell’uomo”». Nello stesso prologo dell’attuale
statuto della Fraternità viene riaffermato che il carisma donato a don Giussani
è caratterizzato dalla «insistenza sulla memoria di Cristo come affermazione
dei fattori sorgivi dell’esperienza cristiana…»; dalla «insistenza sul fatto
che la memoria di Cristo non può essere generata se non nella immanenza ad una
comunità vissuta» e dalla «insistenza sul fatto che la memoria di Cristo
inevitabilmente tende a generare una comunionalità visibile e propositiva nella
società».
Tre grandi
parole, dunque, hanno investito tutti coloro che hanno incontrato il Movimento:
Gesù Cristo, Comunità (o comunione, amicizia, compagnia) e impegno nella
società. A
fronte di questa grandiosa proposta che don Giussani ci ha fatto e ci continua
a fare, capite, caro direttore e cari amici e amiche nella fede, come sarebbe
almeno sproporzionato farci distrarre da fattori che, ripeto, sono importanti,
ma che lo sono se ci aiutano ad essere più fedeli alla responsabilità
missionaria che don Giussani ci ha testimoniato con tutta la sua vita, anche
quando la salute non lo aiutava più. Anche perché don Giussani non ci ha
lasciati soli con questa nostra responsabilità, ma ci ha tracciato una strada e
cioè un metodo che sarebbe imperdonabile dimenticare.
Lo ha fatto quando ci
ha ricordato che la vera e reale vita cristiana è tale quando vive tre
dimensioni: cultura, carità e missione. Nel libro Il cammino al vero è un’esperienza,
don Giussani chiarisce che nessuna di tali dimensioni può essere messa in
secondo piano, perché l’integralità di tali dimensioni in ogni gesto umano e
cristiano «è questione addirittura di vita o di morte per il gesto stesso;
poiché senza l’impostazione almeno implicita di tutte le sue fondamentali
dimensioni, il gesto non è povero, ma addirittura manca di verità», perché la
verità è Una e non può essere spezzettata. Con la cultura noi abbiamo la responsabilità di «offrire agli uomini il
significato di tutto», da cui dipende ogni giudizio; con la carità, la tenerezza di condividere il
bisogno che incontriamo; con la missione
l’eliminazione di ogni limite alla nostra presenza ed al nostro annuncio,
perché abbiamo avuto il mandato di andare fino ai confini del mondo.
Cari tutti, mi sono buttato a scrivervi perché ho
l’impressione che noi rischiamo, al di là dell’obbedienza con cui dobbiamo
velocemente rispondere a ciò che la Chiesa ci chiede, di annacquare e ridurre
l’enormità del richiamo che il nostro carisma ci ha fatto con tutte le
dimensioni di cui sopra e con il metodo che ne deriva. In questo senso mi e vi
pongo alcune domande. Ci impegniamo veramente nel formulare e nel trasmettere
il giudizio di Cristo ai nostri fratelli uomini? Condividiamo veramente con
affezione e carità i bisogni che incontriamo sia nel mondo che tra di noi (e,
ripeto, in molti casi la testimonianza che riceviamo è grandiosa)? Abbiamo la
preoccupazione di andare ai posti di lavoro con lo stesso fervore e ardore con
cui don Giussani è salito sui gradini del Berchet? Almeno tentiamo che nel
nostro ambiente ci sia una comunità che, attraverso la propria unità, testimoni
la presenza di Cristo? La parola “missione” non ci è venuta un po’ estranea?
Tra l’altro, proprio in questo periodo abbiamo una
grande opportunità per risvegliarci dalla nostra sonnolenza ed è costituita dal
libro di don Giussani Dare la vita per l’opera di un altro, che ci
è stato indicato come testo per l’attuale scuola di comunità. Fin dal titolo,
il libro pone la vera questione che l’esperienza cristiana pone. Questo enorme
testo, se vissuto, letto, capito e verificato con la nostra esperienza di vita,
ci indica la modalità con cui vivere le tre dimensioni sopra citate, senza
correre il pericolo di farci cadere nelle trappole moralistiche ed etiche:
dall’ontologia lì indicataci possiamo trarre nuovo spunto per vivere lietamente
e quotidianamente la nostra presenza missionaria.
Cari amici, lasciamo perdere le piccole difficoltà che
possiamo incontrare anche tra di noi e guardiamo con “ingenua baldanza” alla
strada che il carisma del servo di Dio don Luigi Giussani ci ha tracciato,
magari imitando quelli tra di noi che già possiamo considerare “santi” (e ce ne
sono tanti).
Con grande affetto ed in comunione,
Peppino
Zola
Tempi 30/03/2022 -
17:17
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