venerdì 8 giugno 2018

ANGELO SCOLA : IL SIGNIFICATO DEL BENE COMUNE


 Con il post n. 2000 riprendiamo un intervento del 2012 del Card. Angelo Scola, sul tema del BENE COMUNE, argomento che il Crocevia ha ripreso più volte nel corso degli ultimi anni

1.      Il “bene comune”: un valore non più ovvio

Sarebbe del tutto illusorio pensare che il mero ricorso alla categoria di “bene comune” possa fungere oggi da punto di riferimento per l’edificazione della vita sociale. Basti riflettere sul dato che questa categoria teorica è propria di una “etica sostantiva”, un’etica che veicola, quindi, una determinata concezione del bene umano. Etiche sostantive non possono di fatto essere poste alla base di società pluralistiche come quelle attuali. Il significato della categoria di “bene comune” è infatti assai problematica nell’odierna condizione sociale pluralistica che, con Maritain, possiamo definire di babélisme: «La voce che ciascuno proferisce non è che un puro rumore per i suoi compagni di viaggio». In questo senso potremmo dire che viviamo una crisi comunicativa. Non riusciamo a raggiungere una concezione universale dell’uomo come orizzonte di una comune intesa. In assenza di questo codice, la pluralità fa problema, tanto più che l’aumento e l’accelerazione dei flussi migratori (processo di meticciato di civiltà) hanno decisamente cambiato l’assetto del mondo: i “diversi” che noi siamo si trovano – volenti o nolenti – a dover progettare una convivenza, senza poter più contare sui grandi racconti del passato, su quelle potenti narrazioni che suggerivano d’emblée le coordinate del bene comune. Sembra che oggi non sia più possibile raccontare in modo credibile la verità circa l’esperienza umana.
Giussani, Balthasar e Scola (dal sito di CL)
Viviamo ormai nella convinzione più o meno esplicita che la ragione umana sia uno strumento debole, incapace di portare a termine il compito di conoscere la realtà e di stabilire valori da tutti condivisibili. Considerata l’atmosfera che respiriamo, si capisce quanto sia divenuto difficile comunicare tra persone e soggetti associati che hanno concezioni del mondo così diverse e contrastanti. Non è un caso che le democrazie siano oggi per lo più in crisi. Dobbiamo rassegnarci a questo stato di cose o è invece possibile trovare strade percorribili per il recupero del valore sostanziale del “bene comune” in vista dell’edificazione di una società che renda possibile la “vita buona”? La difficoltà a comunicare a questo livello costitutivo della vita civile va considerata come un grave sintomo da non sottovalutare, se vogliamo difendere lo spazio politico di una convivenza democratica. Habermas è sempre stato particolarmente attento a questo indicatore: «La condizione in cui si trova una democrazia si può accertare solo sentendo il polso del suo spazio pubblico politico».

2.     Bene comune e comunicazione

Per un tale ricupero è imprescindibile partire da quella che possiamo chiamare l’esperienza elementare ed integrale, comune all’uomo di ogni epoca. Essa parla una lingua che è come una sorgente perenne: niente e nessuno la può spegnere. Attraverso le grandi ed universali parole della vita e della morte, dell’amore, della giustizia e della pace, il fiume carsico della questione non posta improvvisamente riaffiora: «Ed io che sono?»; «Alla fine chi mi assicura?». Così l’io e l’altro, nell’unità duale insuperabile di individuo e comunità, che caratterizza l’uomo in quanto creatura, tornano alla ribalta. A livello dei rapporti interpersonali, che possiedono un obiettivo primato nell’umana convivenza, la comunicazione riconosce l’unicità di ogni singolo uomo e nella maggioranza degli uomini giunge ad affermare il Fattore personale e trascendente che ne custodisce gelosamente l’assoluta dignità. Tuttavia non è possibile fermarsi a questo livello del problema. Infatti il terzo compare sempre e tra i tre (la società) è necessario che si stabilisca un ordine (istituzioni, politica, Stato), per impedire che la possibile assolutezza della gratuità nel rapporto io-tu diventi ingiustizia rispetto al terzo: «L’io appunto in quanto responsabile verso l’altro e verso il terzo, non può restare indifferente alle loro interazioni e, nella sua carità per l’uno, non può liberarsi dal suo amore per l’altro (…) Ecco l’ora della giustizia inevitabile che la stessa carità esige». È importante sottolineare quindi che l’apparire del terzo è un dato costitutivo dell’umana esperienza. Basta pensare al rapporto del bambino con il padre in relazione a quello con la madre. È il padre a porre originariamente la questione del terzo. La libertà del figlio, che incontra nel rapporto con la madre la sua prima identificazione, è dolorosamente condotta dalla presenza del padre a quel salutare scambio col reale che gli evita la chiusura autistica. Fin da questo livello elementare la presenza del terzo introduce, per così dire, al principio di realtà. La relazione familiare (padre, madre, figlio) rappresenta in nuce l’avvenimento della communitas, cioè della società e, in questo modo, ci permette di prendere coscienza dell'originaria socialità dell'uomo. A questo punto è possibile, proprio a partire dalla considerazione di questa esperienza comune ad ogni uomo, affermare che la relazione costituisce un bene condiviso che, se viene assunto consapevolmente, può essere riconosciuto come il bene comune, il bene dell’essere insieme all’interno delle odierne società pluralistiche. L’identità umana infatti documenta che costitutivamente la persona è un io-in-relazione. Il bene sociale primario dell’essere insieme, che trova nella relazione e, pertanto, nella comunicazione la sua punta espressiva, deve essere scelto da tutti i soggetti che abitano la società civile, come bene politico.

3.     Per una riformulazione del “bene comune”


Occorre, tuttavia, proporre un passaggio ulteriore. Quali espressioni concrete possiede questo bene pratico comune dell’essere insieme? Importanti espressioni sono legate alle “pratiche solidali”. Infatti perché abbia senso parlare di pratiche solidali - volontariato, organizzazioni non profit - occorre riconoscere il bene comune sociale primario dell’essere insieme. Le pratiche di solidarietà esprimono la compartecipazione sia nei beni che nei carichi (pesi) sociali. D’altra parte, se vogliamo godere di questo bene comune in un modo non lesivo della dignità umana non possiamo mortificare (paternalisticamente) l’agire degli attori sociali: la sussidiarietà serve proprio a questo scopo, cioè esprime l’iniziativa (singola o collettiva), altrettanto fondamentale e non riducibile al tutto sociale stesso. Per esprimere questo quadro complesso, Benedetto XVI ha fatto riferimento a quello che possiamo chiamare un vero e proprio schizzo architettonico della vita sociale. Dice, infatti, il Papa: «possiamo tratteggiare le interconnessioni fra … quattro principi – dignità umana, solidarietà, sussidiarietà e bene comune - ponendo la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la "solidarietà" e la "sussidiarietà", e uno verticale, che rappresenta il "bene comune"». In questo “schizzo” ci sono dunque due assi fondamentali che dobbiamo trattenere, se vogliamo ripensare attentamente il significato del bene comune e delle pratiche solidali che lo esprimono:
(a) Sull’asse orizzontale: non è possibile rispettare la dignità umana senza aver cura solidale di chi è in difficoltà; ma non è possibile una solidarietà autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di iniziativa. Così, se la sussidiarietà corrisponde alla dimensione di singolarità irriducibile della persona come protagonista e non oggetto della società, la solidarietà corrisponde alla dimensione della appartenenza sociale: duplice dimensione, la cui espressione e il cui rispetto sono indispensabili per una socialità a misura della dignità di ogni persona umana.
(b) Sull’asse verticale: il bene comune è il bene condiviso nella stessa socialità, che come bene umano non ha automatica attuazione ma va voluto e praticamente perseguito (la società è maxime opus rationis). Esso sta a fondamento della società, come un bene di persone il cui valore dà sostanza e insieme eccede il bene comune. Per questo il bene comune compiutamente inteso non si conclude con quello storico sociale, ma è aperto al bene comune delle persone come tali. In questo senso non è possibile rispettare fino in fondo la dignità umana senza adombrare una prospettiva escatologica di compimento della persona e di tutte le persone. Diventa comprensibile quello che già Maritain aveva indicato nel 1947: c’è un bene comune – come San Tommaso insegna – che vale di più del bene dei singoli consociati; ma questo bene comune, che Maritain chiama «bene comune immanente», vale meno (è infatti “infravalente”) di quel bene cui la comunità umana è ultimamente ordinata e che per Maritain (come per Tommaso) è il «Bene comune increato delle tre Persone divine». Si capisce allora perché Benedetto XVI affermi che la vera solidarietà compie se stessa quando diviene carità e che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore: perché è qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta inaudita alla promessa inscritta nel bene comune immanente. Questo schizzo architettonico diventa allora un riferimento essenziale per tutte quelle dinamiche contemporanee che puntano a un’ipotesi di vita buona umanamente sostenibile. In particolare, le due coordinate (orizzontale e verticale) disegnano un framework che sembra diventare irrinunciabile per interpretare lo spazio sociale in senso autenticamente democratico:
a) l’asse orizzontale (sussidiarietà – solidarietà) è infatti compatibile solo con un’adeguata valorizzazione del protagonismo tipico nella società civile: l’idea, verso cui si stanno orientando le più acute interpretazioni sociologiche contemporanee, è proprio che c’è un capitale di solidarietà che solo gli attori della società civile sono in grado di generare e di cui nessuno Stato democratico può fare a meno. Da qui l’accento posto in maniera decisa su assetti istituzionali in grado di garantire, attraverso il principio di sussidiarietà, la libertà e le forme civili dell’essere insieme.
b) l’asse verticale (bene comune immanente – Bene comune increato) esige invece quella libertà che, da più parti ormai, viene riconosciuta sempre più consapevolmente come irrinunciabile: la libertà religiosa. Si tratta infatti di giungere a riconoscere che la dimensione socio-politica non può essere l’orizzonte esclusivo della persona umana. Rinasce qui la questione: come proporre questo schizzo architettonico emergente dall’insegnamento sociale della Chiesa in una società pluralistica?

4.     Un “pensiero comune pratico” in favore del “bene comune”

Per rispondere vorrei riferirmi ad un’intelligente proposta di Maritain, nel suo discorso all’Unesco del 1947 (La voie de la paix). In quell’occasione, Maritain affermò che, stante la pluralità irriducibile degli attori sociali, l'ambito politico deve puntare a convergere verso un «pensiero comune pratico», cioè uno «stesso insieme di convinzioni volte all’azione». Il che implica accettare l’inevitabile divergenza delle visioni del mondo, scommettendo al contempo sulla possibilità di intendersi concretamente sul da farsi. Questo non vuol dire rinunciare al piano della giustificazione teorica dell’agire pratico: sarebbe una scelta nullista. Significa piuttosto riconoscere che l’ambito politico non necessita, per essere in buona salute, del consenso totale (assai improbabile) intorno a visioni sostantive della vita. Accettando questa delimitazione si può realizzare quel bene comune essenziale che Maritain suggeriva, quando parlava della società umana come “corps de communications sociales”. Come s’è detto, il bene comune secondo la visione cristiana abbraccia l’intera vita dell’uomo e non solo quella storica, ma questo, a livello di convivenza civile, non produce una pretesa di condivisione totale da parte degli altri soggetti. Piuttosto l’ampiezza di visione sostiene l’impegno a contribuire al bene pratico dell’essere insieme formulando proposte circa tutti gli aspetti antropologici, sociali ed economici della vita associata. In due ambiti almeno, a mio parere, questa visione può essere recepita con grande giovamento della società civile. Mi limito a qualche considerazione. Il primo si riferisce a quella che altrove ho chiamato nuova laicità. La visione che abbiamo brevemente tratteggiato ci domanda di abbandonare significati secolaristi e meramente oppositivi di laicità: se l’obiettivo del politico è un pensiero pratico comune, anche i cittadini credenti debbono poter dire la loro. Ciò significa che il politico deve essere l’ambito in cui tutti i “diversi” debbono avere la possibilità di contribuire responsabilmente al bene comune della relazione-comunicazione, cercando di spiegare ciò che per loro vale in un linguaggio che sia accessibile a tutti. Si può allora essere giustamente perplessi di fronte alla presunta laicità di scelte politiche che mirano a eliminare ogni riferimento religioso nello spazio pubblico: quel che si ottiene, infatti, non è un pensiero pratico comune, bensì un minimo comune denominatore, rispetto al quale le diversità culturali subiscono di fatto una privatizzazione estraniante. È veramente pubblico, e perciò sanamente laico, solo quello spazio che scommette sulla libertà dei cittadini, credenti e non credenti, di mettersi in gioco attraverso una “narrazione reciproca”, intesa come l’opera comune di raccontare il significato della propria esperienza, secondo una logica - come insegna Ricoeur – di reciproco, seppur faticoso, riconoscimento. Il che ci fa capire un altro elemento importante: l’impegno a tradurre la propria visione del mondo in un linguaggio comprensibile anche da chi non la condivide non deve gravare solo sui cittadini credenti, ma dev’essere inteso - ricorda giustamente Habermas - come «un [comune] impegno collaborativo». Il secondo tema si rifà, per qualche aspetto, al titolo dell’odierna giornata. Le vicende del Terzo settore nell’attuale frangente di crisi economico-finanziaria, rivelano chiaramente quanto a lungo si siano adottati solo degli aggiustamenti pragmatici, che non hanno intaccato ancora il nocciolo dell’ordinamento giuridico e, a dire di non pochi, la miopia che lo ha caratterizzato. Per limitarci al momento attuale dobbiamo riconoscere che una società impoverita non può fare a lungo da parafulmine ad uno Stato povero e inefficiente. Se una risposta statalista pervasiva, oltre a non suscitare alcun fascino, non risulta praticabile per ragioni finanziarie, il ritorno a un liberalismo minimalista, nel quale lo Stato si spogliasse semplicemente dei suoi compiti perché non è in grado di perseguirli in proprio, non aprirebbe spazi per la società civile. Si allargherebbe semplicemente la forbice tra chi si trova in condizioni di bisogno e chi riesce in proprio a far fronte alla crisi. Va inoltre considerato che una grave crisi economica ed occupazionale, se non governata, ha delle implicazioni sociali assai gravi per società come le nostre. Facciamo solo un esempio. La crisi del mercato del lavoro dovrebbe teoricamente obbligare gli immigrati a rientrare nel giro di pochi mesi nella propria Patria. Tuttavia, i contesti da cui provengono molti di essi – penso soprattutto ai paesi africani – soffrono di un’instabilità politica endemica, quando non siano già vittime di una guerra civile o di uno stato di estrema carestia. Tutto ciò rende più probabile che gli immigrati decidano di rimanere nel Paese ospitante pur nell’illegalità, con i problemi che ne conseguono.

5.     Relazioni buone e bene comune

Le rapsodiche notazioni che vi ho proposto circa il bene comune mostrando la necessità di un articolato ripensamento di questa necessaria categoria, possono trovare nella comunicazione quel carattere pratico che favorisca la crescita del tasso di relazioni buone. Esse sono alla base dell’ethos, fattore imprescindibile per la riorganizzazione complessiva della nostra società in questa travagliata fase di transizione.

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