martedì 14 dicembre 2010

È lui l’ultimo vero democristiano

C'è ancora bisogno di Berlusconi?
intervista ad Eugenio Corti
di Emanuele Boffi

Per l’autore del Cavallo rosso «Pier Ferdinando non deve mandare allo sbaraglio il suo moncone di Dc. Deve dare man forte a Silvio, una specie di “inviato dalla Provvidenza” per tirarci fuori dai gorghi in cui ci hanno cacciato i pm e i comunisti»

Solo qualche anno fa, interpellati su quale fosse il maggiore scrittore vivente, i lettori di Avvenire risposero: Eugenio Corti. Corti, classe 1921, è il caso letterario che meglio fotografa il depresso e fazioso stato della cultura italiana. Il suo capolavoro, Il cavallo rosso, è stato pubblicato nel 1983 dalla Ares, «perché le altre case editrici erano in mano ai comunisti», diventando in pochi anni – senza, inizialmente, nemmeno il vantaggio della distribuzione – un’opera che vanta venticinque edizioni. Tradotto in sette lingue (russo, giapponese, inglese, spagnolo, rumeno, serbo, lituano), Il cavallo rosso è da anni considerato – soprattutto nella laica Francia – un’opera che non teme il confronto con Guerra e pace di Lev Tolstoj e Il signore degli anelli di John R. R. Tolkien. Sebbene il milieu nostrano l’abbia sempre bistrattato, in Francia il nome di Corti è accostato a quelli di Hemingway, Mann, Camus, Kafka e Musil; sebbene il suo nome non compaia nella Garzantina, il grande critico George Steiner è arrivato ad accostarlo a Vasilij Grossman: «Vita e destino e Il cavallo rosso eclissano quasi tutti i romanzi che vengono presi sul serio oggi»; sebbene oggi sia nato un comitato che si batte lodevolmente perché gli sia assegnato il Nobel per la letteratura, questo anziano scrittore brianzolo sa bene che, «anche se me lo merito», non gli sarà mai assegnato. È un segno dei tempi. Tempi in cui la massima onoreficenza mondiale è assegnata a guitti come Dario Fo e si plaude a ogni piè sospinto per le opere di Umberto Eco, «uno che – disse una volta Corti –, semplicemente, rappresenta il niente».
Non si troverà, però, alcun risentimento in Corti. Dice di essere grato per la vita che gli è stata concessa, perché «siamo nell’immanenza, ma siamo fatti per la trascendenza». Partito volontario col 30esimo Raggruppamento di artiglieria sul fronte russo, ha partecipato all’avanzata fino al Don e poi alla successiva ritirata, marciando di giorno a 15 gradi sottozero e di notte a meno 40. Ha travasato queste sue esperienze nei suoi libri e «ancora oggi continuo a ricevere lettere di familiari che mi chiedono le sorti dei loro congiunti. E io rispondo, rispondo a tutti». Afferma di sentirsi ancora un soldato, così come ogni buon cristiano dovrebbe sentirsi perché «militia est vita hominum super terra». E, poiché c’è ancora una buona battaglia da compiere, assegna a sé quella di anteporre la verità al successo. «È il mio compito: scrivere per tradurre in bellezza, ideale da cui non mi sono mai allontanato per tutta la vita».


Vita che lo ha portato a incrociare, da fiero cattolico ambrosiano, tutte le magagne del nostro secolo e la lenta dispersione del senso cristiano del vivere: «Ho conosciuto due santi massicci: don Carlo Gnocchi, che mi ha sposato, e don Luigi Giussani, uomo che ha fatto riscoprire la fede a tanti giovani». Eugenio Corti è sempre stato un cattolico “papista”, ha fatto parte del comitato contro il divorzio, ha indagato i motivi della diaspora cattolica nel suo scritto Breve storia della Democrazia cristiana, con particolare riguardo ai suoi errori del 1995, ora inserito ne Il fumo nel tempio (Ares 1996).

Oggi segue con attenzione le vicende d’attualità. Ha visto come se ne è andato il regista Mario Monicelli («Non ci ha fatto una gran figura. Ma quelli che ne hanno incensato l’uscita di scena sono degli avvoltoi. In particolare quelli di Repubblica») e continua a seguire con apprensione gli sviluppi incerti della politica italiana. «Però, sia chiaro, sono un uomo di cultura, non un intellettuale perché questi ultimi sono persone efficacissime nella sola demolizione, ma poi non costruiscono niente, se non disordine. Il nostro compito è invece quello di dire la verità».
E la verità, Corti l’ha scritta in matita su fogli di carta, così come aveva fatto per la prima stesura del Cavallo rosso (circa 1.300 pagine), per prepararsi sull’argomento su cui Tempi gli ha chiesto un parere, un argomento spicciolo e mondano, sul quale il grande scrittore s’è, però, applicato con serio puntiglio: «Lei mi chiede che cosa dovrebbero fare i cattolici in questo momento e, in particolare, il partito di Pier Ferdinando Casini. Ebbene, dovrebbero fare una semplice cosa: sostenere Silvio Berlusconi, evitando quello spirito di fazione che è sempre stato la malattia della politica, persino della Democrazia cristiana, come avvertì Alcide De Gasperi già nel giugno del 1954 davanti al Congresso riunito a Napoli: “Se siamo divisi o indeboliti dalle nostre discordie, diventiamo schiavi della situazione parlamentare”».

«È sempre stato così», dice Corti. «Quello spirito cristiano che, uscito dai conventi, aveva dato l’avvio a costruire la grande società cristiana medioevale e che ha fatto conoscere alla storia umana la più elevata condizione che si sia mai espressa su questa nostra terra, ha sempre sofferto un solo nemico: lo spirito di fazione. Dante ce lo presenta col personaggio di Farinata degli Uberti nel canto X dell’Inferno cui fa dire che tale guasto è quello che “mi tormenta più che questo letto”». Oggi come allora, i cattolici sono sopraffatti da «uno spirito di fazione che a me pare esemplarmente riassunto nella figura di Rosy Bindi». E, venendo al bailamme di queste settimane, Corti vede una sola soluzione: «Casini dovrebbe dare man forte a Berlusconi, una specie di “inviato dalla Provvidenza”. Perché l’attuale presidente del Consiglio è questo: un uomo mandato dalla Provvidenza, anche se lui non è un uomo provvidenziale».

Quella «scelta senza cervello»
Lo scrittore ripercorre la storia italiana degli ultimi anni: «L’avvento di Berlusconi è stato inevitabile dopo che la Dc, che da grande partito si era ridotto in briciole, era caduta nel precipizio. La maggior parte dei cattolici – persone per bene che hanno tenuto in piedi l’Italia combattendo contro i comunisti – e che agli ideali cristiani della Dc sono rimasti fedeli fino all’ultimo, resasi conto che non v’era più nulla da fare si sono spostati su Forza Italia e sulla Lega. Solo una piccola ridotta è confluita nell’Udc di Casini. Un moncone della storia della Dc è rimasto legato a quest’uomo abile, che ha saputo mantenerne assieme l’ultimo pezzo. Oggi, questo pezzo dovrebbe aiutare Berlusconi, finché egli avrà esaurito il suo compito provvidenziale. Poi, quando la sua parabola si sarà definitivamente conclusa e il suo partito si disperderà – perché questo accadrà, non c’è nessuno in grado di sostituirlo – allora anche Casini col suo moncone potrà ricomporre il vecchio amalgama democristiano. Verrà la tempesta e tutti saranno utili, ma fino ad allora Casini dovrebbe semplicemente sostenerlo, seppur a latere, non perdere tempo in giochetti balordi».

Per Corti il giochetto balordo, «la scelta senza cervello», è quella del cosiddetto terzo polo, un «agglomerato indistinto» con Gianfranco Fini e Francesco Rutelli. Sembra che Casini abbia scelto questa strada. Perché? «Perché, innanzitutto, lui in prima persona non è animato da quegli ideali che dice di rappresentare. Il suo è un partito composto da gente in attesa. In attesa che Berlusconi finisca. La Dc era composta da uomini che hanno portato il paese dalla povertà alla ricchezza, ben consapevoli di quale fosse la loro parte. Io nel 1948 ero pronto. Qui in Brianza avevo organizzato una formazione pronta a impugnare le armi, se i comunisti avessero fatto la rivoluzione». Invece, Casini «manda il suo moncone allo sbaraglio, buttandolo in imprese che, tra l’altro, si riveleranno fallimentari, ma che raggiungeranno uno scopo: indebolire Berlusconi».

Perché al maestro Corti, che è stato anche insignito nel 2000 del Premio per la cultura cattolica a Bassano del Grappa, piace così tanto l’anarchico libertino Berlusconi? «Perché è un democristiano autentico. Si professa liberale, ma non è vero. Dice così perché sa che la grande massa degli italiani non è cattolica e quindi fa un suo calcolo. Ma, in realtà, lui è naturalmente cristiano, un democristiano autentico che si è fatto prendere la mano dalle comodità e dalle ricchezze. Quante fesserie che ha combinato! Ha lasciato la moglie per legarsi a una donna che poi si è rivelata una mezza vipera, si dà alla pazza gioia con le ragazzine e mette in lista le ragazze solo perché sono belle. Certi affari sessuali se li doveva fare di nascosto come tutti, non in pubblico. Però è un uomo che si intende di economia e questo è fondamentale per il paese. È efficace sulla scena internazionale ed è l’uomo che ci ha portato fuori dai gorghi in cui ci hanno cacciato la magistratura e i comunisti. Per questo è un uomo della Provvidenza che ha trovato l’appoggio di un politico con fiuto come Umberto Bossi, l’altro che ha saputo, ma solo qui al Nord, intercettare i resti della Dc. Ma la Lega è un miscuglio: ci sono tanti cattolici, gente per bene, ma anche tanti che si baloccano alle cerimonie sul Po. Robe da baluba».

La furbizia di Repubblica
Come andrà a finire? «Credo che Berlusconi ce la farà. Tuttavia, questa volta, i caporioni avversari, soprattutto quelli di Repubblica, hanno operato bene, delegittimandolo davanti ai cattolici, enfatizzando le sue debolezze che, oggettivamente, gli creeranno qualche problema, soprattutto nell’elettorato femminile. È un rischio: anche mia madre, quando ci fu da scegliere tra monarchia e repubblica, scelse la seconda. Era girata voce che il re frequentasse qualche donna di troppo».
Per lo scrittore lo scontro tra Fini e Berlusconi è iniziato quando si sono alleati. «Fini è sempre stato con lui solo per sfruttare la situazione. Ora, essendo entrambi in corsa per la presidenza della Repubblica, dovevano necessariamente dividersi. Fini è un uomo che pensa solo al proprio tornaconto. Da questo punto di vista, è un traditore nato: da fascista convinto è diventato antifascista, da berlusconiano antiberlusconiano. Per questo Casini non dovrebbe fidarsi. Ma Casini, che è un po’ un diavolaccio, non lo capisce che deve stare con Berlusconi? Sarà anche uno scavezzacollo, ma è cristiano».
Da TEMPI 10 dicembre 2010


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