di GIULIANO CAZZOLA
PAUL Nizan, uno scrittore francese del secolo scorso, commentava così la condizione giovanile: «Avevo vent’anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Essere giovani non è facile, soprattutto oggi che sono venuti a mancare quei riferimenti — nella famiglia, nella società, persino nella politica dopo l’eclissi delle grandi ideologie del XX secolo — che rappresentano i punti cardinali di una personalità in formazione. Ma che cosa c’entra il disagio giovanile con la riforma Gelmini ? Il maggior danno che gli adulti possono arrecare ai giovani è quello di assecondarli nei loro errori, senza avvertirli che corrono il rischio di difendere le loro catene. In altre parole, di battersi per conservare degli ordinamenti economici e sociali da cui hanno tratto e traggono vantaggio le generazioni precedenti, mentre loro non potranno mai avvalersene.
La vicenda della riforma dell’università è un esempio esplicito di tale contraddizione.
Per la prima volta un governo, come ha fatto per la scuola in generale, tenta di “guardare l’erba dalla perte delle radici”, di affrontare le problematiche degli Atenei dall’angolo di visuale dell’interesse degli studenti (e non da quello dei docenti, come è sempre accaduto) e si trova nel bel mezzo di una contestazione spesso violenta a causa –è questo il motore di tutto- della rivendicazione di essere stabilizzati che proviene da qualche migliaio di ricercatori.
Pesa sui giovani la “mistica” del precariato: la denuncia ossessiva e sterile di una condizione di lavoro e di vita ritenuta priva di sbocchi e di gratificazioni, che ha finito per deresponsabilizzare i giovani e per trasformarli, contemporaneamente, in vittime e carnefici di se stessi.
E gli adulti hanno creduto di potersi sottrarre alle loro responsabilità di genitori opportunisti non facendo mancare nulla ai figli nell’ambito del privato ed accusando il sistema di non garantire più la “stabilità del posto fisso”. Ma davvero quei giovani che manifestano e occupano le stazioni e le strade, che invadono gli edifici pubblici, costituiscono la generazione più sventurata nella storia del paese? E come commentare allora la vicenda di milioni di italiani che hanno attraversato gli oceani disperdendosi in ogni angolo sperduto del pianeta? O dei giovani che all’inizio del boom economico hanno risalito la penisola per andare a lavorare nelle fabbriche del triangolo industriale, sottostando a situazioni assai peggiori di quelle a cui sono sottoposti gli immigrati di oggi? O ancora, che osa dire delle generazioni a cui è toccato combattere sui fronti della seconda guerra mondiale (sono i nonni dei ragazzi di oggi) e poi ricostruire un paese devastato? Hanno mai patito la fame i giovani d’oggi? Quanti hanno detto loro dei no?
Purtroppo- qui sta la nostra responsabilità- è passata l’idea che gli standard di lavoro e di vita, le istituzioni e i diritti che la società italiana si è data negli anni 70 fossero un traguardo di benessere irrinunciabile. Invece in quegli anni sciagurati abbiamo usurpato modelli al di sopra delle reali possibilità. E per farlo abbiamo gonfiato a dismisura il debito pubblico.
Ma non di questo ci rimproverano i giovani. Non ci criticano per l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che è la principale causa della loro precarietà. Non ci rimproverano per aver difeso regimi pensionistici insostenibili ed aver scaricato in loro tutti i costi del risanamento. In fondo sono i migliori custodi dei nostri privilegi.
Resto del Carlino 23 dicembre 2010
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