Risé: una legge che rende
"schiavi" i nostri figli
DIVORZIO BREVE. Ciò che tradizionalmente si intende definire “società” assume via via la parvenza di un pulviscolo indifferenziato. Le forme relazionali che di consueto si instauravano tra le persone sono, sempre più spesso, sostituite da temporanei e quasi accidentali interscambi tra singoli. Come leggere, altrimenti, l’ennesimo passo del Parlamento italiano nella direzione di favorire sempre di più non tanto la famiglia, quando chi ne ha una e vuole disfarsene? Ieri, infatti, la Commissione Giustizia della Camera ha completato l'esame degli emendamenti sulla proposta di legge relativa al divorzio breve. Tutte le correzioni sono state ritirate, salvo quella del relatore Maurizio Paniz che prevede la riduzione a un anno per il periodo di separazione prima di ottenere il divorzio (ora è di tre) mentre sarà di due anni in caso della presenza di figli minori. Cosa sta succedendo all’Italia (e al mondo)? Lo abbiamo chiesto a Claudio Risé.
Come interpreta la decisione della Commissione?
Mi sembra che la società occidentale si sia
incamminata ormai da tempo, almeno dagli anni 70, sulla strada della precarietà
dei rapporti tale per cui il rapporto breve viene reputato pratica normale,
mentre quello di chi decide di impegnarsi per tutta la vita è valutato
eccezionalmente.
E’ una posizione generalizzata?
Basta osservare la crescita dei divorzi che, seppur
con delle variabili di Paese in Paese, è comune a tutto l’Occidente. Vi è, del
resto, la tendenza prevalente ad agevolare i legami instabili a scapito di
quelli duraturi.
La politica, in tal caso, registra una esigenza o la
determina?
Le leggi - così come l’induzione provocata dai media -
sono scritte anticipando le richieste di separazione e divorzi e, di
conseguenza, le hanno provocate. La tendenza prevalente ad agevolare i legami
instabili a scapito di quelli duraturi è stata una scelta ben precisa dei
legislatori occidentali.
Quali effetti si riversano sulla società?
Abbiamo evidenze abbastanza ampie di disagi che
coinvolgono, specialmente, i bambini, ma anche gli adulti. Vi è una variegata
documentazione di tipo sociologico, psichiatrico, psicologico e clinico. Benché
non vi siano statistiche globali dedicate, in grado di stabilire una
correlazione specifica, disponiamo di una serie di studi, specialmente a
livello nazionale e, soprattutto, provenienti dagli Usa, che ci consentono di
indurre tale relazione tra legami deboli e patologie.
Ci spieghi meglio.
Sappiamo, ad esempio, che i figli cresciuti in
famiglie senza padri sono in testa a tutte le classifiche di tutti i disagi
psichici possibili. E che al moltiplicarsi dei legami deboli le malattie
psichiatriche di ogni genere, dalle nevrosi alle psicosi, sono aumentate.
In sostanza, al di là delle patologie, indebolire i
legami ha reso la gente più soddisfatta?
Non possiamo affermare “al di là delle patologie”.
Quando esse diventano così diffuse, quando, ad esempio, l’Oms ci comunica che,
entro il 2020, un quarto della popolazione mondiale sarà affetta da disturbi di
questo genere, la patologia diventa modalità d’essere, non più relegabile alle
casistiche cliniche.
Il matrimonio, laico o religioso, ha sempre
rappresentano una tra le principali dimensioni di realizzazione di sé nel
tempo. Tolta la caratteristica della durata temporale, cosa rimane?
La realizzazione di sé, oggi, è intesa in maniera
essenzialmente individualistica; non solo dal punto di vista del matrimonio ma
anche da quello degli altri legami sociali. La civiltà occidentale è fortemente
de-socialitzzata, tutti i legami prevalenti, quali la famiglia, il quartiere,
il gruppo, sono indeboliti. Di conseguenza i soggetti (sempre più
individualizzati, cioè soli), tendono a individuare il proprio compimento nel
successo economico, nella carriera, o nell’immagine che danno al mondo di sé.
La coppia, intesa come modello provvisorio, è indicativa, quindi, di un nuovo
modello sociale che è sempre più incline all’atomizzazione degli individui.
venerdì 24 febbraio 2012
(Paolo Nessi)
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