Gli
estremisti contro il magistrato, così come accade a decine di autori come il
sottoscritto. Ecco perché lui rischia di diventare ridicolo
di Giampaolo Pansa
Tratto da Libero del 26 febbraio 2012
di Giampaolo Pansa
Tratto da Libero del 26 febbraio 2012
Diventare un
uomo ridicolo. Dopo aver tanto lottato contro terroristi e mafiosi, è questo il
rischio che corre Giancarlo Caselli, super magistrato e capo della Procura di
Torino. Lo corre per un motivo sciocco: considerarsi l’unica vittima di
estremisti violenti che contestano i suoi libri e il suo lavoro. Caselli
dimentica di essere soltanto l’ultimo dei tanti costretti a fare la stessa
esperienza. E adesso gli racconterò il mio caso. Nel 2003 pubblico Il sangue dei
vinti, libro che racconta le vendette dei partigiani dopo il 25 aprile, contro
i fascisti sconfitti. Nasce un trambusto pazzesco sui giornali e alla tivù.
Vecchi amici di sinistra mi accusano di averlo scritto per soldi e su ordine di
Silvio Berlusconi, in quel momento al governo. Ma la piazza, o la piazzetta,
non si muove. Deve assalire il Caimano e non ha tempo da perdere con un microbo
come me. Continuo a scrivere libri revisionisti sulla guerra civile e
nell’ottobre 2006 esce La grande bugia. La stagione politica è cambiata. Adesso
al governo c’è il secondo centrosinistra di Romano Prodi. Il Cavaliere è
sconfitto e può essere lasciato in pace. L’attenzione si sposta sul microbo
Pansa. Un testardo che si merita una bella lezione. Il 16 ottobre 2006 si tiene
a Reggio Emilia il primo di una serie di dibattiti su quel libro. Il salone di
un hotel della città è strapieno. A dialogare con me c’è Aldo Cazzullo,
giornalista, inviato speciale del Corriere della sera. Sto per rispondere alla
sua domanda iniziale quando nella sala, tra la gente, emerge una dozzina di
violenti. Vogliono interrompere la serata e punirmi.
Il capo del
gruppo corre verso il nostro tavolo e mi scaglia addosso una copia della Grande
bugia, urlando: «È un libro infame, sono venuto da Roma apposta per
gettarglielo in faccia!». Segue un lancio di volantini stampati con cura.
Riproducono una banconota da 50 euro con la scritta: «Pansa prezzolato - con
l’infamia ci hai speculato». Arrivato alla nostra pedana, il gruppo srotola un
lenzuolo color sangue, con lo slogan «Triangolo rosso? Nessun rimorso». Come a
dire, i partigiani comunisti hanno fatto bene ad accoppare tanti nemici della
rivoluzione. I violenti sono molto agitati. Urlano da forsennati. Mostrano al
pubblico il pugno chiuso. Uno di loro strilla di continuo, a macchinetta: «Viva
Schio! Viva Schio!». È la città veneta dove nel luglio 1945 la polizia
partigiana rossa ha occupato il carcere e ammazzato cinquantatré persone.
Aldo
Cazzullo e io restiamo al nostro posto e mandiamo al diavolo il capo del gruppo
che pretende di leggere un volantino interminabile. A quel punto, la gente in
sala comincia a scandire «Libertà, libertà!». I violenti si rendono conto di
essere in minoranza e due poliziotti li allontanano. Si saprà dopo che
appartengono a una fazione di ultrà rossi, «Antifascist Militant». Sono tipi
senza faccia, sconosciuti. Tranne uno che si rivela tre mesi dopo in un
convegno antifascista a Roma, organizzato da Rifondazione comunista. È Simone
Sallusti, responsabile organizzativo del partito nella capitale. Rivolto ai
compagni, si presenta e dice: «Sono andato a Reggio Emilia per contestare
Pansa. E ne sono orgoglioso!». Applausi e pugni chiusi. Adesso siamo al 17
ottobre. La faccenda di Reggio sta su molti quotidiani e nei telegiornali. Nel
pomeriggio ricevo qualche telefonata di solidarietà. Ma soltanto di politici
moderati, ricordo Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella. Tuttavia, verso
sera arriva il messaggio più importante. Giorgio Napolitano, da pochi mesi
presidente della Repubblica, con un comunicato del Quirinale, esprime «la sua
profonda deplorazione per gli atti di violenza» a Reggio Emilia.
Soltanto
dopo il suo intervento, spuntano un paio di telefonate da sinistra, di Prodi e
di Piero Fassino. Chiamate personali e riservate, niente di pubblico perché a
sinistra il Pansa è considerato un diffamatore della Resistenza. Per ultima si
fa viva una redattrice della Stampa, Egle Santolini. Su incarico della
direzione, mi avvisa che l’indomani troverò sul loro giornale due articoli che
mi riguardano. Mi consiglia: «Li legga con calma». Li leggo il 18 ottobre. Alla
Stampa, dove ho lavorato per anni, devo avere qualche amico del giaguaro.
Entrambi i pezzi sono contro di me, con una rabbia speciale. Un articolo del
professor Angelo d’Orsi e un’intervista, manco a dirlo, di Giorgio Bocca. Il
professore ricicla un suo vecchio articolo, con l’aggiunta di un falso. Lui
descrive l’aggressione di Reggio Emilia così: «Insulti e baruffe tra giovani di
sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le
parti».
Sempre il 18
ottobre, mi telefona uno dei vicedirettori della Stampa, Massimo Gramellini, la
cosiddetta penna brillante del giornale. Un pennacchione giulivo che si ritiene
di sinistra. Con ilare cautela, mi chiede se voglio rispondere, ma lo mando a
quel paese. Subito dopo mi chiama il direttore, Giulio Anselmi. Ci conosciamo
da anni. E abbiamo lavorato insieme all’Espresso. Anselmi deve essersi reso
conto di aver pubblicato una carognata. Si lava subito le mani e mi indica come
bersaglio il suo vice: «Guarda che quella pagina l’ha messa insieme Gramellini.
Ha fatto tutto lui ed è lui che devi ringraziare, non è colpa mia». Gli
ribatto: «Ma il direttore non sei tu?». Anselmi: «Io non potevo farci nulla».
Penso: misteri del giornalismo italiano, con troppi direttori senza autorità.
L’assalto di
Reggio fa scuola. Il 19 ottobre devo presentare il libro a Bassano del Grappa.
Ma nella notte, gli ultrà rossi hanno sabotato le serrature dei tre ingressi
della libreria. Ci vuole un lavoro di tre ore per sbloccarle. Riesco a fare il
dibattito, mentre in strada urlano dei giovanotti che pretendono di entrare e
leggere un documento contro di me. Dopo Bassano, parlo in altre due città
venete, Castelfranco e Carmignano di Brenta. E mi rendo conto di avere addosso
l’Anpi, il club dei partigiani rossi, e le solite bande di ultrà. Ma ormai sono
protetto dalla polizia e dai carabinieri. Il capo della Digos di Padova mi
spiega che dovunque troverò le medesime ostilità. Aggiunge: «Li conosciamo, lei
deve stare tranquillo perché sarà sempre tutelato dalle forze dell’ordine».
Presentare
un libro scortato da agenti e carabinieri? La faccenda non mi piace per niente.
Mi amareggia e mi obbliga a domandarmi perché mai debba sottrarre a compiti ben
più importanti tanti ragazzi in divisa. È in quel momento che decido di
annullare quattordici dibattiti dei trenta già previsti. Lo faccio pensando:
«Credevo di essere un cittadino libero in un paese libero, ma devo arrendermi:
non è per niente così».
Da allora
sono trascorsi cinque anni e non ho più presentato in pubblico i miei libri. Mi
sono reso conto che questa rinuncia non ha influenza sulla diffusione, però mi
sento dimezzato. Lo stesso accade a tanti autori di destra. E oggi anche a
eccellenze di sinistra, come Giancarlo Caselli. La ruota è girata, ma il
risultato è sempre un brutto affare. Signor procuratore capo di Torino, ci
rifletta. Smetta di fare la vittima. Gioverà a lei e a tutti noi
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