A 100 giorni dal suo ingresso in Diocesi
intervista all’Arcivescovo Mons. Luigi Negri
In questi primi mesi ha già potuto
incontrare e conoscere molte realtà, sia dentro la chiesa locale che sul
territorio, a livello Amministrativo e Istituzionale. Possiamo fare un primo
bilancio?
Vorrei prima di tutto sottolineare il
senso profondo di una grande accoglienza di cui sono stato oggetto, e della
grande speranza che mi viene testimoniata in tutti gli incontri, sia quelli
ecclesiali che quelli civili. Parlo di un’attesa di autorevolezza esplicita,
quella che non è possibile senza avere una proposta di vita autentica.
Qualsiasi altra autorevolezza o diventa autoritarismo, come forse è stato nel
passato, o diventa estraneità.
Oggi l’autorità, purtroppo, anche a
livello ecclesiastico, è sentita estranea perché difficilmente si riesce a
capire in che cosa consista la sua proposta di vita. Si conoscono le competenze
istituzionali, che sono spesso esplicitate e accompagnate da un certo apparato
ecclesiastico che durerà ancora decenni, ma non la sua proposta di vita.
Sotto questo aspetto devo dire che
cattolici e laici, incontrati sia muovendomi per la città che nelle sedi istituzionali,
mi hanno mostrato una fortissima simpatia, anche umana dovuta forse al mio modo
di pormi e al mio temperamento, a conferma dell’idea maturata in questi miei
ultimi anni di episcopato che il presente e il futuro della Chiesa, e della
società, è legato ad un dialogo intenso e serio fra cattolici non clericali e
laici non laicisti.
E riguardo al prossimo futuro?
Certamente dentro questa grande
accoglienza ho incominciato a intravedere le linee di un lavoro che sarà molto
intenso, per certi aspetti anche pesante, soprattutto penalizzato dalla
relativa brevità di questo episcopato.
La prima riguarda il cammino propriamente
ecclesiale.
Si tratterà di affrontare per la prima
volta con decisione il tema della Nuova Evangelizzazione. Non come un tema teorico,
omiletico o pastorale in senso ristretto, ma come la grande novità da riportare
nel cuore di tutti quelli che, toccati dalla fede, oggi se ne trovano distanti,
come ha detto Benedetto XVI nel recente Sinodo. Si tratta di una consapevolezza
profonda e di una novità di esperienza che la Chiesa deve vivere in tutte le
sue articolazioni.
Ci deve essere una Nuova Evangelizzazione
in parrocchia, nelle strutture associative della vita ecclesiale, nella vita
delle singole persone e nella loro presenza missionaria e culturale negli
ambienti che frequentano. La Nuova evangelizzazione non è una cosa fra le altre
ma è la forma stessa, come dicevano una volta i Tomisti, della vita.
Si tratta di
una grande sfida ma non possiamo recedere da questa prospettiva aperta da
Giovanni Paolo II e approfondita da Benedetto XVI ed ora riproposta, in termini
semanticamente nuovi, da Papa Francesco quando dice che bisogna portare Cristo,
la novità della vita in Lui, alle periferie dell’esistenza. Le periferie sono
dentro la vita dell’uomo del piccolo paese del Bondenese come dentro le grandi
città e dentro le strutture culturali, sociali e politiche.
Si tratta di una grossa sfida e mi sembra
di avere già intravisto una vasta realtà di preti e di laici disponibili a
correre quest’avventura per la loro vita. Come ho già detto negli incontri
vicariali e in molte altre occasioni, ho incontrato gente che non vive soltanto
una tensione di generosità nei confronti delle strutture ecclesiali ma che vive
anche la verità del proprio essere e appartenere alla Chiesa, e la conseguente
generosità, verso le realtà più semplici e nei modi più umili. Ho sempre
davanti agli occhi l’esempio delle signore che puliscono le chiese, che ho
trovato sempre così dignitose, anche quelle solo parzialmente agibili dopo il
terremoto. Queste signore, nelle semplici cose che fanno, esprimono una
preoccupazione esteticamente piena di fede.
Concretamente con cosa dovrà misurarsi la
Nuova Evangelizzazione nella nostra realtà Ferrarese-Comacchiese?
La Nuova Evangelizzazione avrà bisogno di
misurarsi a fondo con le due grandi sfide che vengono dalla realtà e dalla
storia di questi ultimi mesi.
Per prima la questione del terremoto, che
ci sollecita ad una nuova solidarietà a livello ecclesiale e sociale, perché il
terremoto rappresenti una sfida positiva e non un disastro. Per cui occorre
rinnovare una capacità di andare oltre i guasti del terremoto che non solo
soltanto, come diceva il Card. Caffarra, i guasti delle strutture ma i guasti e
le rovine delle anime. Quindi rinnovare l’esperienza della fede in modo tale
che questa sfida, che è esistenziale, materiale, economica e sociale, possa
essere vissuta in modo positivo. Pungolando anche le Istituzioni a fare la loro
parte, perché come ho detto, e mi sembra che la formula fosse abbastanza
felice, non si può vivere l’emergenza come se fosse normalità. Se questo accade
vuol dire che qualcosa non funziona. E qui ciò che non funzione è assolutamente
chiaro, ed è anche chiaro che la pazienza dei Vescovi, ed in particolare quella
del Vescovo di Ferrara-Comacchio, non sarà senza fine.
L’altra grande sfida, che la Nuova
Evangelizzazione dovrà affrontare, è quella che viene dalla terribile crisi
economica che esige modi nuovi di presenza nella vita ecclesiale e sociale.
Una crisi che credo non si sia ancora
percepita nella sua reale portata ed ha bisogno di una educazione di tutti a
nuove forme di sobrietà e di solidarietà.
Voglio
ridirlo, ripeterlo vibratamente e cogliere ancora questa occasione per
sottolinearlo: è inutile prendersela con chi non capisce le questioni
economiche quando la generazione adulta, e addirittura le istituzioni,
consentono a centinaia o migliaia di giovani di bruciare la loro vita, quasi
tutte le notti, in enormi sbronze di alcol e droga. Stanno a vedere e, al
massimo, intervengono per ridurre le conseguenze negative sul piano
dell’estetica della piazza o della vita della città.
Certamente non consentirò più, e
studieremo i modi, che la piazza della Cattedrale, corpo unico con la
Cattedrale stessa, e quindi nella piena disponibilità della Chiesa di
Ferrara-Comacchio, possa servire a queste vicende che, come ho già detto altre
volte, sono postribolo a cielo aperto.
Come pensa che la nostra comunità
cristiana possa attrezzarsi per queste sfide?
Per rispondere veramente dobbiamo capire
anche tutte le difficoltà del passato che diventano limiti per il presente. Non
che prima di me ci siano stati solo limiti, assolutamente, è sempre meglio
pensare che ogni persona si esprime con il massimo dell’intelligenza che gli è
consentita.
Devo però dire che, per quanto riguarda la
presenza nella vita culturale, sociale e politica, i cristiani sono assenti
come tali.
E’ come se il cammino della fede si
fermasse nell’ambito della propria vita personale, al massimo famigliare, nelle
vicende di una pratica spirituale e devozionale sufficientemente intensa, anche
se in calo in città, ma che non investe le grandi questioni culturali, sociali
e politiche su cui si gioca il presente e il futuro della società.
C’è come un “sentiero interrotto”, per
usare un’espressione di Heidegger nei confronti della storia della filosofia
occidentale, che la Chiesa, nel Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto
XVI, ha vigorosamente aperto ma che qui resta interrotto. Il problema non è la
presenza di cattolici che, con una certa spiritualità e una certa pratica di
fede e morale personale, si impegnano nella vita politica. Il mio problema è:
come si impegnano nella vita politica? Quali sono le istanze profonde alla luce
delle quali si compiono analisi di carattere politico? Le scelte possono essere
diversificate ma la radice, il corpo della presenza dei cattolici, è unitario
sia come esperienza di fede che come unità culturale. I criteri fondamentali
della presenza socio-politica dei cristiani, come ricorda la bellissima nota
della Congregazione per la Dottrina della Fede del 2002 sui criteri
fondamentali per la presenza dei cattolici in politica firmata dall’allora
Card. Ratzinger, si possono sintetizzare nei valori non negoziabili della
dottrina sociale della Chiesa. Vorrei che ci chiedessimo seriamente, noi
cattolici e in particolare noi ecclesiastici, se nelle scelte politiche di
tanti nostri compagni di strada (nel senso di appartenenti all’esperienza
ecclesiale) in primo piano ci siano i valori non negoziabili alla luce dei
quali si impostano analisi di carattere socio-politico e quindi economico, e a
seguire scelte anche di alleanze oppure no.
A me sembra che qui da noi, come nel resto
d’Italia, in primo piano ci siano le analisi, le simpatie, le sintonie, che
sono tutte legittime ma non possono essere il valore fondamentale. I valori non
negoziabili vengono richiamati ogni tanto e in modo sempre più flebile. Penso
alla vita, alla famiglia, alla paternità e maternità, alla giustizia sociale in
senso cattolico e solidarista, e non scimiottando i discorsi del sindacalismo
da una parte o del capitalismo debole dall’altra.
C’è un cammino educativo lungo il quale la
Chiesa è chiamata a ritrovare la fede, la cultura, la morale e la politica,
come ha detto Papa Francesco al Presidente della Cei e quindi a tutti i Vescovi
pertanto anche a me, che ero lì presente.
“Sono cose vostre” ha detto il Papa, e quindi non si può interrompere l’azione
educativa della Chiesa, ed essa non delega a nessuno le responsabilità che sono
sue. Certamente in Italia, e certamente qui, si deve uscire dal silenzio, da
una chiesa del silenzio che non è stata l’esito di un totalitarismo pesante ma
che si è autosilenziata, o perlomeno ha rischiato di esserlo, a fronte di un
totalitarismo duro ma soft: duro come pratica politica ma sufficientemente
scaltro e apparentemente benevolo nell’esercizio della vita socio-politica.
Sento ciò che ho detto come una grande
sfida alla mia vita di Pastore e di cristiano, e vorrei comunicare a tutti il
bruciore di questo disagio perché diventi preghiera al Signore affinché ci
cambi il cuore e l’intelligenza ma soprattutto ci renda impetuosi nell’azione.
Non inamidati, come dice il Papa, non
silenziosi e quieti per paura di sbagliare. Anch’io come Papa Francesco
preferirei una Chiesa di Ferrara-Comacchio che può sbagliare ma perché è viva,
anziché una Chiesa che non sbaglia mai. Gli unici che non sbagliano mai sono
quelli che non sono più sulla terra, sono i morti.
a cura di Massimo Manservigi
(da la Voce di Ferrara-Comacchio del 28
giugno 2013)
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