Intervista a Giuseppe De Rita
Oggi contro il nero, domani contro l’ebreo e poi, ancora, il dito puntato contro qualcun altro. Sono solo idiozie o forme di un razzismo strisciante che nasce da un generale malessere? Sono tutte domande che rivolgiamo al sociologo Giuseppe De Rita, presidente e segretario generale del Censis, l’istituto di ricerca che puntualmente fornisce fotografie aggiornate di noi italiani.
Professore, adesso Calderoli, ma di tanto in tanto emergono fenomeni di intolleranza. L’Italia è diventata razzista?
Non siamo mai stati razzisti, nemmeno quando arrivarono i meridionali a Milano. In realtà, non c’è mai stato un meccanismo di razzismo in senso proprio. Certo, un italiano può sentirsi diverso da uno con la pelle nera, ma nei fatti il razzismo non c’è. È dovuto a un aumento dell’alterità, cioè il considerare l’altro come diverso da noi. Ma non più di questo.
Un aumento di alterità anche per il vicepresidente del Senato?
In quest’ultimo caso vedo un doppio protagonismo di persone le quali sanno che con queste battute vanno sicuramente sui giornali e creano un caso, ottenendo una piccola centralità per due giorni sulla scena politica.
E l’altro protagonismo?
È quello della lingua, l’italiano è affezionato alla sua lingua, alla pronuncia di alcune parole. Basterebbe vedere anche la sua affezione al dialetto. L’italiano sente nel modo in cui si esprime in termini linguistici un fatto connotante di se stesso. Ciascuno è la propria lingua. Naturalmente, certe volte, la lingua scappa. Dice delle cose irriguardose, ma non tutti rinuncerebbero a usare allo stadio o in altri luoghi certi epiteti. La lingua è più veloce del cervello. Le cose dette forse non sono sufficientemente pensate.
D’accordo: voce dal sen fuggita. Ma cosa spinge ad avere manifestazioni razziste in una società che razzista non è?
C’è nella società italiana una base fondamentale fatta di rancore. Viviamo un momento rancoroso. Non ci va bene niente. Usciamo di casa e non ci va bene l’edicolante o il bigliettaio del tram, ammesso ci sia ancora. O non ci piace il collega d’ufficio... C’è una sorta di insoddisfazione, di «ciclo basso dell’empatia», cioè il rapporto con gli altri, che fa vedere tutto in termini rancorosi.
I giornali lo alimentano?
Nel senso che li apri e trovi venticinque notizie che ti fanno essere rancoroso con il mondo e con la gente che si comporta in una certa maniera. Questo rancore, a un certo punto, assume in certe occasioni, come allo stadio, forma di razzismo: verso l’arbitro o un giocatore avversario che ha la pelle nera. Ma queste manifestazioni razziste sono espressive solo del rancore e non nella destinazione del rancore. Insomma, il problema è mio che non so stare con gli altri e quindi esprimo rancore. Farlo passare come forma di razzismo è quasi nobilitarlo. Ma è soltanto rancore diffuso.
Ma cosa lo determina? Forse una generale insoddisfazione della società italiana?
Qualcuno ha scritto che il rancore è il «risentimento per quello che non è stato». Noi siamo un popolo che fino a qualche anno fa era ricco, abbastanza potente, quinta potenza del mondo, prima e seconda casa eccetera eccetera... La generazione attuale, che invece non prevede di raggiungere quegli stessi obiettivi, ha il risentimento per quello che non è stato, per quello che non è e per quello che pensa non potrà essere.
Non sarà anche che l’Italia, a differenza di altre nazioni europee, molto più tardi ha avuto propri cittadini con un colore diverso della pelle?
Ma l’Italia da tempo ha avuto modo di conoscere lo straniero, il diverso da sé. Li abbiamo conosciuti tutti, dai Longobardi agli Unni, fino ai Piemontesi, stranieri per buona parte dei Meridionali. Il diverso l’abbiamo visto sempre come qualcuno superiore a noi, perché ci aveva occupato, perché ci comandava. Era sostanzialmente un nemico che accettavamo per quieto vivere o per vigliaccheria. Nel momento in cui il diverso non è più potente di noi ma, al contrario, è più debole di noi, forse ci rifacciamo proprio con questa forma rancorosa.
Professore, adesso Calderoli, ma di tanto in tanto emergono fenomeni di intolleranza. L’Italia è diventata razzista?
Non siamo mai stati razzisti, nemmeno quando arrivarono i meridionali a Milano. In realtà, non c’è mai stato un meccanismo di razzismo in senso proprio. Certo, un italiano può sentirsi diverso da uno con la pelle nera, ma nei fatti il razzismo non c’è. È dovuto a un aumento dell’alterità, cioè il considerare l’altro come diverso da noi. Ma non più di questo.
Un aumento di alterità anche per il vicepresidente del Senato?
In quest’ultimo caso vedo un doppio protagonismo di persone le quali sanno che con queste battute vanno sicuramente sui giornali e creano un caso, ottenendo una piccola centralità per due giorni sulla scena politica.
E l’altro protagonismo?
È quello della lingua, l’italiano è affezionato alla sua lingua, alla pronuncia di alcune parole. Basterebbe vedere anche la sua affezione al dialetto. L’italiano sente nel modo in cui si esprime in termini linguistici un fatto connotante di se stesso. Ciascuno è la propria lingua. Naturalmente, certe volte, la lingua scappa. Dice delle cose irriguardose, ma non tutti rinuncerebbero a usare allo stadio o in altri luoghi certi epiteti. La lingua è più veloce del cervello. Le cose dette forse non sono sufficientemente pensate.
D’accordo: voce dal sen fuggita. Ma cosa spinge ad avere manifestazioni razziste in una società che razzista non è?
C’è nella società italiana una base fondamentale fatta di rancore. Viviamo un momento rancoroso. Non ci va bene niente. Usciamo di casa e non ci va bene l’edicolante o il bigliettaio del tram, ammesso ci sia ancora. O non ci piace il collega d’ufficio... C’è una sorta di insoddisfazione, di «ciclo basso dell’empatia», cioè il rapporto con gli altri, che fa vedere tutto in termini rancorosi.
I giornali lo alimentano?
Nel senso che li apri e trovi venticinque notizie che ti fanno essere rancoroso con il mondo e con la gente che si comporta in una certa maniera. Questo rancore, a un certo punto, assume in certe occasioni, come allo stadio, forma di razzismo: verso l’arbitro o un giocatore avversario che ha la pelle nera. Ma queste manifestazioni razziste sono espressive solo del rancore e non nella destinazione del rancore. Insomma, il problema è mio che non so stare con gli altri e quindi esprimo rancore. Farlo passare come forma di razzismo è quasi nobilitarlo. Ma è soltanto rancore diffuso.
Ma cosa lo determina? Forse una generale insoddisfazione della società italiana?
Qualcuno ha scritto che il rancore è il «risentimento per quello che non è stato». Noi siamo un popolo che fino a qualche anno fa era ricco, abbastanza potente, quinta potenza del mondo, prima e seconda casa eccetera eccetera... La generazione attuale, che invece non prevede di raggiungere quegli stessi obiettivi, ha il risentimento per quello che non è stato, per quello che non è e per quello che pensa non potrà essere.
Non sarà anche che l’Italia, a differenza di altre nazioni europee, molto più tardi ha avuto propri cittadini con un colore diverso della pelle?
Ma l’Italia da tempo ha avuto modo di conoscere lo straniero, il diverso da sé. Li abbiamo conosciuti tutti, dai Longobardi agli Unni, fino ai Piemontesi, stranieri per buona parte dei Meridionali. Il diverso l’abbiamo visto sempre come qualcuno superiore a noi, perché ci aveva occupato, perché ci comandava. Era sostanzialmente un nemico che accettavamo per quieto vivere o per vigliaccheria. Nel momento in cui il diverso non è più potente di noi ma, al contrario, è più debole di noi, forse ci rifacciamo proprio con questa forma rancorosa.
Giovanni Ruggiero
da AVVENIRE
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