GEORGE
WEIGEL
Ecco
perché chi ha a cuore la Chiesa (e lo stato di diritto) deve sperare che
l’ingiusta condanna per pedofilia del Cardinale PELL“numero tre del Vaticano” sia rovesciata
in appello. Sapendo che forse nemmeno così si fermerà l’isteria anticattolica
Articolo tratto
dal numero di Tempi di aprile 2019
Nel dicembre
scorso il cardinale George Pell, arcivescovo emerito di Sydney e capo della segreteria
vaticana per l’Economia, è stato dichiarato colpevole di
abuso sessuale “storico” da un tribunale di Melbourne, Australia, dove era
stato arcivescovo prima di trasferirsi a Sydney. Nel febbraio 2019 il cardinale
è stato condannato a sei anni e mezzo di carcere. Pell ha sempre e fermamente
sostenuto la propria innocenza, e a giugno si terrà il processo d’appello sia
contro il verdetto che contro la condanna.
Gli amici
dell’Australia, gli amici della Chiesa cattolica e gli amici della verità
devono sperare che il ricorso abbia successo, poiché se il verdetto e la
condanna fossero confermati, la reputazione della giustizia australiana
subirebbe un duro colpo, e l’attacco violento e calunnioso alla Chiesa
cattolica che ha contribuito in maniera significativa a connotare il clima
attorno al processo nei confronti di Pell ne uscirebbe giustificato – e di
certo seguirebbero nuovi attacchi.
Con poche
onorevoli eccezioni, i media del mondo che si sono occupati del processo, del
verdetto e della condanna nei confronti di Pell si sono accodati a una stampa
australiana estremamente prevenuta e spesso isterica, il che ha costituito un
altro fattore di distorsione del procedimento giudiziario in questa vicenda
ignobile. Ma prima di esaminare l’atmosfera che circonda il cardinal Pell in
Australia – paragonabile al clima rabbioso che rese una farsa il processo e la
condanna del capitano Alfred Dreyfus nella Francia della fine del XIX secolo –
riepilogare i fatti più rilevanti aiuterà a comprendere la perfidia della
sentenza contro il cardinal Pell.
(l'articolo di Weigel e' molto dettagliato e dopo la lettura consente di dare un giudizio chiaro su quanto e' accaduto)
• Un anno prima
che fosse formulata qualunque incriminazione, la polizia dello Stato di
Victoria (dove si trova Melbourne) si mise alla caccia di notizie sul conto del
cardinal Pell, una inchiesta nota come “Operazione Incatenamento” [“Operation
Tethering”, ndt]. La polizia si spinse fino a chiedere pubblicità sulla stampa
locale, in cerca di “informazioni” riguardo a misfatti avvenuti nel passato
nella cattedrale di St. Patrick di Melbourne.
• All’inizio del
2017 il cardinale fu informato dalla polizia che l’“indagine” non aveva avuto
esiti; poi, parecchi mesi dopo, apprese che in realtà le incriminazioni erano
imminenti.
• In quanto
cittadino del Vaticano con passaporto vaticano, il cardinale, che sapeva di
essere innocente, e sapeva che il clima febbrile di Melbourne avrebbe reso
difficile lo svolgimento di un giusto processo, avrebbe potuto scegliere di
rimanere in Vaticano – e le autorità dello Stato di Victoria non avrebbero
potuto farci nulla, per via della sua immunità diplomatica. Eppure il cardinal
Pell decise immediatamente di rientrare in Australia per difendere il proprio onore
e, per estensione, il contributo che aveva dato alla ricostruzione del
cattolicesimo australiano in oltre vent’anni di servizio come arcivescovo delle
due principali sedi episcopali del paese.
• In seguito a
una esauriente “udienza preliminare” durante la quale il suo avvocato difensore
aveva demolito la tesi dell’accusa, il magistrato incaricato, dopo aver
rigettato alcune imputazioni come letteralmente incredibili, decise tuttavia
che altre accuse fossero sottoposte a processo – pur ammettendo che, sulla base
di varie accuse tra queste, lei stessa [il magistrato] non avrebbe votato a
favore di una condanna.
• Il primo
processo con giuria nei confronti del cardinale, nell’ottobre del 2018, si è
concluso senza un verdetto, data l’impossibilità per i giurati di raggiungere
un parere unanime. Fonti affidabili hanno fatto sapere che la giuria aveva
votato in netta maggioranza per scagionare il cardinal Pell; che il presidente
della giuria, presumibilmente convinto dell’innocenza del cardinale, piangeva
mentre comunicava l’impasse della giuria; e che molti altri giurati erano
visibilmente turbati. A questo punto la procura avrebbe potuto lasciar cadere
le accuse, invece ha scelto di istruire un secondo processo. Al pari del
precedente, questo processo sarebbe stato condotto davanti a una giuria
inzuppata della propaganda anti-Pell che inonda la stampa e i social media
australiani, questo perché il codice penale dello Stato di Victoria non ammette
un processo senza giuria con un solo giudice, nemmeno quando appare improbabile
individuare una giuria imparziale.
• Al secondo
processo, come nel primo, la procura non ha presentato alcuna prova nemmeno del
fatto che i presunti crimini fossero mai avvenuti; la sola “prova” consisteva
nella denuncia da parte di uno dei due querelanti originari. (Il secondo
querelante saltato fuori dall’“indagine” della polizia è morto prima che il
caso giungesse a processo, dopo aver detto a sua madre di non avere in realtà
mai subìto abusi). La procura non ha presentato alcun riscontro a conferma
dell’accusa del querelante. La difesa al contrario ha presentato più di una
dozzina di testimoni che hanno asserito sotto giuramento che i presunti crimini
non avrebbero potuto aver luogo, considerato che il locale della cattedrale
dove i crimini sarebbero stati perpetrati era sorvegliato dalla sicurezza;
questi testimoni hanno anche detto che nel giorno del presunto abuso nessuno si
accorse dell’assenza di alcun bambino del coro dalla processione dopo la Messa.
La difesa ha chiarito che non c’erano state denunce all’epoca della presunta
violenza, circa vent’anni prima, né erano circolati racconti o voci sul
presunto episodio negli anni successivi. È stato spiegato anche che il
cardinale non era mai rimasto da solo dopo la Messa – il momento in cui si
sostiene che il presunto abuso sarebbe accaduto – dal momento che aveva sempre
avuto accanto a sé altri ministri liturgici prima, durante e dopo il rito,
oltre ai benefattori dopo la celebrazione. A dirla tutta, per Pell trovarsi (da
solo) in sacrestia, dove si presume che il crimine abbia avuto luogo, avrebbe
voluto dire abbandonare la sua vecchia abitudine di salutare i fedeli fuori
dalla cattedrale dopo la Messa – e poi, in qualche modo, guadagnare la
sacrestia in solitudine e senza farsi notare da nessuno. La giuria è stata
inoltre informata che la polizia non aveva mai seriamente indagato la scena del
presunto delitto, uno spazio sicuro dietro a porte chiuse a chiave. Per di più,
è stato attentamente evidenziato come quei presunti atti abominevoli sarebbero
stati fisicamente impossibili, visto che Pell indossava i paramenti liturgici
nel momento in cui avrebbe abusato del querelante. Alla giuria è stato poi
mostrato un video dell’interrogatorio del cardinale condotto dalla polizia
all’inizio del 2017, nel quale Pell aveva controbattuto tranquillamente a tutte
le accuse, mentre gli investigatori si coprivano di ridicolo.
• La giuria del
secondo processo ha deliberato per diversi giorni, domandando di tanto in tanto
indicazioni al giudice. Dopo di che ha raggiunto un verdetto unanime di
colpevolezza, cosa che, a detta dei presenti in aula, è sembrata sorprendere il
giudice – il quale tuttavia, in base al codice penale dello Stato di Victoria,
non aveva facoltà di rigettare il parere anche qualora lo avesse ritenuto
errato. Non ci vuole una fervida immaginazione per pensare che la giuria, col
suo criterio di giudizio distorto dal clima esterno dettato dall’isteria
anti-Pell e anticattolica, abbia semplicemente ignorato le istruzioni del
giudice riguardo a come debbano essere considerate le prove – o in questo caso
la mancanza di prove –, e abbia prodotto un verdetto che riflettesse l’opinione
pubblica, non i fatti di questa vicenda. E quell’opinione pubblica era, in una
parola, avvelenata: all’esterno del tribunale, la folla reclamava il sangue di
George Pell a ogni fase di questo procedimento grottesco, dalla citazione in
giudizio all’“udienza preliminare” ai due processi.
• L’udienza per
la lettura della sentenza dopo il processo è stata descritta da una persona che
vi ha preso parte come «qualcosa di kafkiano», perché nessuno dei tre uomini
che hanno discusso la sentenza – il giudice, il procuratore e l’avvocato
difensore di Pell – credeva davvero che le violenze per cui il cardinale era
stato condannato avessero avuto luogo.
• Alla lettura
ufficiale della sentenza nei confronti del cardinal Pell a metà marzo, il
giudice (che aveva dimostrato equità in entrambi i processi) ha detto
ripetutamente che stava facendo ciò che la legge gli imponeva di fare – cioè
assecondare la decisione della giuria. Non ha mai detto di condividere le
conclusioni della giuria, come ci si aspetta in casi come questo. La sua
condanna è stata più leggera di quanto sperava la pubblica accusa, e la folla
ha protestato, sia per le strade che sui media mainstream e sui social network
– sebbene diverse anime coraggiose tra gli opinionisti australiani abbiano
scritto invece che tutta questa vicenda ha violato gli standard più elementari
della giustizia, per non dire del principio della colpevolezza “al di là di
ogni ragionevole dubbio”.
UN AVVERSARIO
SCOMODO
Come è potuta
accadere questa farsa? In parte è accaduta perché, prima della nomina di George
Pell ad arcivescovo di Melbourne, la Chiesa cattolica in Australia non era
stata in grado di affrontare gli abusi sessuali del clero aiutando le vittime,
punendo i carnefici e chiedendo conto ai vescovi del loro malgoverno. Uno degli
aspetti più ironici di questo errore giudiziario è il fatto che Pell è stato il
primo vescovo australiano a mettere in atto procedure per trattare con rigore
le accuse di abusi sessuali a opera del clero e a riformare la prassi nei
seminari in modo da ridurre il più possibile la probabilità di violenze. In
effetti a Sydney Pell aveva applicato su di sé il protocollo che lui stesso
aveva stabilito per la gestione delle accuse di abusi, lì e a Melbourne,
lasciando il proprio incarico fino al momento in cui una inchiesta condotta da
un ex giudice della Corte suprema australiana lo ha scagionato dalle false
accuse.
In parte [questa
farsa] è accaduta perché George Pell è stato per decenni una figura controversa
tanto a livello politico quanto a livello ecclesiastico in Australia. Si è
sempre rifiutato di inchinarsi al politicamente corretto su questioni che vanno
dall’agenda Lgbtq all’immigrazione ai cambiamenti climatici antropogenici, il
che ha fatto montare la furia della sinistra australiana. È sempre stato un
vigoroso difensore dell’ortodossia cattolica e un attento riformatore della
Chiesa nel solco di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, il che ha fatto
montare la furia dei progressisti cattolici. È sempre stato una forte
personalità pubblica che non esitava a sfidare i luoghi comuni di una stampa la
cui convinzione riguardo alla propria infallibilità farebbe arrossire il beato
Pio IX. Così, nel corso dei decenni, i suoi nemici politici e oppositori
ecclesiastici hanno creato la caricatura di un autocrate clericale arrogante,
duro di cuore e reazionario, un ritratto grottesco in cui nessuno dei suoi
amici riconosceva l’uomo che aveva incontrato (e io mi annovero tra quegli
amici, visto che conosco il cardinale da oltre mezzo secolo). Ma quella
ignobile rappresentazione “calzava” con l’altra caricatura che veniva
propagandata in Australia nello stesso periodo: la caricatura di una Chiesa
cattolica fuori dal mondo, misogina, omofoba e politicamente reazionaria.
A RISCHIO LA
REPUTAZIONE DEL PAESE
Avendo trascorso
la maggior parte degli ultimi quarant’anni nella vita pubblica, spesso in
pubbliche polemiche, posso sostenere senza timore di esagerare che non ho mai
visto un personaggio nei confronti del quale i nemici abbiano mentito in
maniera altrettanto sfacciata e spudorata. I persecutori di Pell sono stati
senza vergogna per decenni, e rimangono senza vergogna oggi.
Questa farsa è
accaduta anche perché l’Australia – e lo Stato di Victoria in particolare – è
radicalmente cambiata nelle ultime due generazioni, divenendo un focolaio di
anticattolicesimo laicista e aggressivo in connubio con il politicamente
corretto. E raramente questi pregiudizi sono stati sfidati al punto in cui sono
stati sfidati altrove nel mondo anglofono. Così i persecutori della Chiesa
cattolica, del cardinal Pell e di chiunque sostenga idee politiche
conservatrici hanno capito che possono formulare senza rischiare nulla le
accuse più ignobili, che poi risuoneranno nella camera dell’eco [echo chamber,
ndt] della stampa australiana (compresa l’agenzia radiotelevisiva nazionale, la
Australian Broadcasting Corporation) e dei social media del paese, al punto tale
che menzogne evidenti vengono accettate come fatti accertati.
E tutto questo è
avvenuto perché varie fazioni interessate alla rovina del cardinal Pell hanno
voluto che accadesse – il che solleva interrogativi a cui i media australiani
impegnati davvero nel giornalismo investigativo dovrebbero dedicarsi
ostinatamente:
• Perché la
polizia dello Stato di Victoria ha lanciato l’“Operazione Incatenamento”? Di
che cosa si discuteva tra la polizia e l’ufficio del procuratore mentre si
svolgeva quella indagine e dopo la sua conclusione?
• È una pura
coincidenza che questa farsa sia iniziata proprio nel momento in cui,
nell’ambito del suo lavoro in Vaticano, il cardinale Pell aveva cominciato a
scoperchiare una corruzione finanziaria di notevole dimensione? Chi ha tratto
beneficio dalla persecuzione di Pell nei torbidi ambienti della finanza
internazionale?
• Chi paga per i
cartelli stampati in modo professionale che vengono sollevati davanti alle
telecamere ogni volta che il cardinal Pell appare in pubblico? Chi organizza le
folle all’esterno del tribunale di Melbourne?
• E le risposte a
questi tre insiemi di domande si intersecano?
C’è dunque molto
in gioco, nel processo di appello del cardinal Pell.
L’Australia gode
della reputazione di paese dal dibattito pubblico appassionato ma equilibrato:
una democrazia matura che offre un esempio alle nuove democrazie del mondo. Ora
tale reputazione è in grave pericolo, dal momento che uno dei figli più
illustri dell’Australia è stato dichiarato colpevole di crimini abominevoli
dopo un processo celebrato in un clima da caccia alle streghe, da una giuria
che non ha ricevuto uno straccio di prova a conferma del fatto che il reato
fosse stato consumato.
UNA STRADA IN
SALITA
Ora sono il
sistema della giustizia penale australiano e la polizia dello Stato di Victoria
a essere sotto processo nel tribunale dell’opinione pubblica del mondo
razionale. E se il ricorso del cardinale sarà rigettato, sicuramente sorgerà
una domanda: si può viaggiare in tranquillità o fare affari serenamente in un
paese dove lo stato di diritto sembra essere stato sospeso dalla legge di
un’opinione pubblica isterica?
La Chiesa
cattolica in Australia avrà serie ripercussioni se la condanna del cardinal
Pell non sarà rovesciata in appello. E anche se la verità alla fine prevarrà e
il cardinale sarà scagionato, la Chiesa si troverà davanti una strada dura: una
strada che potrà essere percorsa soltanto da una Chiesa evangelicamente
dinamica, desiderosa di affrontare sia i propri errori che i suoi persecutori faziosi.
Chiunque si
preoccupa per la giustizia, per la Chiesa e per il cardinal Pell dunque
pregherà affinché nel processo d’appello quest’uomo innocente sia riabilitato.
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