LA COLPA DI MONSIGNOR CAVINA
Le dimissioni del vescovo di Carpi sono un fatto gravissimo
che riguarda la libertà della Chiesa. Cosa ci insegna la sua vicenda e cosa lui
ha insegnato ai suoi nemici
Come hanno
giustamente notato gli amici del Centro Studi Livatino, le dimissioni di monsignor
Francesco Cavina da vescovo di Carpi sono un fatto gravissimo. È una
questione che riguarda la «libertà della Chiesa». Mentre in Italia si dibatte
di giustizia, di Csm, di politici a cena con pm, di magistrati che
mercanteggiano per avere dei posti, come se fossero dei politici qualunque
(ironia), accade che un incensurato, vescovo per di più, su cui non c’è nulla,
niente di niente, finisca sputtanato sui giornali, si pubblichino sue
intercettazioni, lo si metta alla gogna sebbene sia in via d’archiviazione, gli si riservi insomma quel trattamento che
da venticinque anni abbiamo visto riservare a tutti quelli che non garbano alla
sinistra, fino a portarlo a una decisione clamorosa e inaudita: le dimissioni.
E questo non è uno scandalo? E questa non è macchina del fango? E questa non è
una vicenda che dovrebbe portare a un
radicale ripensamento della giustizia e della mefitica commistione tra
certe procure e certe redazioni? Se fossimo un paese normale, e non una
discarica infettata dal manipulitismo grillino, accadrebbe questo. Ma non siamo
un paese normale. Siamo il paese il cui presidente del Consiglio è un avvocato
messo lì dal partito più manettaro della storia della Repubblica (e ho detto
tutto).
La santa alleanza
Ad aprile l’Espresso ha pubblicato un servizio che parlava di un’inchiesta che coinvolgeva
il sindaco e il vicesindaco di Carpi, entrambi del Pd. Il secondo, così si
raccontava, ha provato a fare le scarpe al primo. Ma all’Espresso interessava soprattutto il ruolo svolto nella vicenda da Cavina (il
titolo dell’articolo era “La santa alleanza”) che è stato sottoposto alla solita
“radiografia” malevola che s’usa da quelle parti. Sebbene il settimanale avesse
esplicitato che su di lui la stessa procura fosse orientata all’archiviazione
(perché nulla di penalmente rilevante aveva compiuto), tuttavia il ritratto che
si faceva del vescovo era quello del poco di buono. Allusioni, battutine,
persino pubblicazioni di intercettazioni. Alla
fine della fiera, la colpa più grave commessa da Cavina sembrava essere quella
di essere stimato da Benedetto XVI.
La colpa di essere Cavina
Forse questa vi sembrerà una battuta, ma – tragicamente – non lo è. Perché
la “colpa” di Cavina non è di aver fatto qualcosa (perché nulla ha fatto). La “colpa” di Cavina è di essere Cavina,
cioè un vescovo non conforme ai desiderata dell’Espresso. È la tragedia attuale dell’Italia:
giudicare un uomo per quel che “è” e non per quel che “fa”. È la gogna
mediatica, è l’inquisizione a mezzo stampa, è uno schifo.
Benedetto, Francesco, Alfie
Cavina arrivò a Carpi sette anni fa. E si ritrovò a fare i conti con una
situazione difficilissima (il terremoto). Anziché limitarsi a predicare dal
pulpito, s’è dato da fare per la sua gente affinché chi aveva perso il lavoro lo potesse ritrovare e s’è impegnato a ridare una speranza a una terra ferita. Lo ha fatto
secondo la sua sensibilità e capacità, portando a Carpi non solo Benedetto XVI
(che nell’occasione pronunciò la battuta «ma come? I
miei poveri 100 mila euro hanno ottenuto tanto valore e sono stati così
valorizzati?»), ma anche papa Francesco (che con Cavina ha un ottimo
rapporto). Cavina è il vescovo che è andato a Erbil in Kurdistan, portando in
tasca una lettera autografa di Bergoglio per i cristiani
perseguitati. Cavina è il sacerdote che
s’è prodigato per far arrivare in Vaticano Thomas Evans, il papà di Alfie, nelle ore decisive dello scontro con i
giudici inglesi e i medici dell’Alder Hey di Liverpool. La foto del giovane
padre col Pontefice ha fatto il giro del mondo. La colpa di Cavina non è dunque quella di aver “brigato” nelle beghe
tra sindaco e vicesindaco, ma quella di essere un pastore di santa romana
Chiesa che non garba all’Espresso. Come capite bene, mica poteva passarla liscia.
La lezione ai nemici.
Se in tutta questa storia non ci vedete il virus dell’anticlericalismo,
avete i paraocchi. Il resto -“quel resto” che viene dopo la cattiveria
originaria – è il giornalismo scemo e
codino che si trastulla a far diventare “notizie” ciò che notizie non sono:
cattiverie, allusioni, dicerie. Così, anche una volta arrivata la tanto
sospirata archiviazione, per monsignor Cavina non è finito il calvario. Poteva
sopportare ancora? Ha ritenuto di no, non solo per sé, e qui sta un fatto che
merita la sottolineatura, ma anche per il bene della sua diocesi e perché la
sua vocazione non fosse compromessa dalla malapianta del risentimento.
«Ho ritenuto di fare un passo indietro esclusivamente
per l’amore che porto a questa Chiesa locale alla quale ho cercato di dare
tutto quanto era nelle mie possibilità. Spero, in tale modo, che ora i riflettori
si spengano e sia restituita alla diocesi la necessaria tranquillità per
compiere la sua missione e a me la serenità e la pace per dedicarmi alla sola
ragione per la quale ho donato la mia vita al Signore: annunciare ai fratelli
le meraviglie del Suo amore».
La lezione che monsignor Cavina ha dato ai suoi
nemici è che un uomo di Dio può soccombere e risultare sconfitto fino
all’umiliazione, ma non verrà mai meno al compito che Dio gli ha affidato.
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