È stato una presenza decisiva per la mia vita: i miei genitori me l’hanno data, lui me ne ha dato il senso.
Con le Messe di suffragio celebrate in tutto il mondo in occasione dell’anniversario della morte di don Luigi Giussani (22 febbraio 2005), siamo entrati nelle celebrazioni per il centenario della nascita (15 ottobre 1922). Mi permetto di dire anch’io la mia, perché don Giussani è stato una presenza decisiva per la mia vita: i miei genitori me l’hanno data, don Giussani me ne ha dato il senso.
La prima volta che l’ho sentito, ascoltando per caso un suo intervento
registrato, sono stato fortemente segnato, per la forza e la chiarezza
dell’esposizione, la consequenzialità logica delle affermazioni, la
provocazione inevitabile a prendere posizione. Riassumo.
La verità non è una teoria con cui siamo d’accordo. È più grande di
noi; se esiste, non possiamo impadronircene, dobbiamo seguirla.
Per conoscerla non serve uno studio accanito delle
diverse proposizioni filosofiche o religiose; non ci basta il tempo e ci si
confonde la testa. Cominciamo dalla seria considerazione di quanto ci è
tramandato dalla tradizione che ci precede e che ci è comunicata da chi ci
vuole bene. Il Verbo, la spiegazione del vero, si è fatto carne in Cristo che
l’ha trasmesso e innestato in coloro che nei secoli l’hanno seguito
riconoscendo la sua presenza permanente e misteriosa dopo la resurrezione.
Nell’esperienza dei credenti, nella Chiesa, nella comunità cristiana
vediamo e siamo affascinati dalla nuova umanità introdotta nel mondo da Gesù.
Siamo chiamati a seguire Lui, attraverso altri uomini e donne, così come furono
chiamati i primi discepoli, Andrea e Giovanni, i loro amici e parenti e poi i
discepoli dei discepoli fino a noi. Provare per credere. Se avessimo trovato
un’alternativa più grande, avremmo cambiato. In questo caso, Giussani, alquanto
scettico in proposito, chiedeva di essere informato.GIANCARLO CESANA
Il ragionamento era ineccepibile, anche per la mia mentalità alquanto laica
e scientista. Soprattutto imponeva la necessità di decidere. Ho deciso e sono
ancora qui.
Ragione e libertà sono le doti fondamentali dell’uomo. Qualunque proposta seria, soprattutto religiosa, non può prescindere da esse; solo da esse la fede fiorisce e matura. Giussani non parlava invano, voleva una risposta, la conferma di quella verità che aveva instancabilmente cercato per sé. Lui cercava, metteva alla prova e interrogava sé e la realtà. Gli interrogativi e i dubbi che avevamo noi, li aveva avuti prima lui. Per questo era così capace di penetrare il cuore e l’intelligenza di chi lo ascoltava. La fede per lui non aveva nulla di scontato, come non avevano nulla di scontato le parole e i gesti. Stare con lui era un sommovimento continuo: non solo si capiva e la mente si apriva, bisognava prendere posizione. Giussani faceva Movimento, perché metteva in moto, commuoveva, cioè con-muoveva, chiamava a camminare insieme verso il destino.
Giussani prendeva parte. Come disse a Bassano del Grappa, in
occasione della consegna del Premio alla cultura cattolica (1995), «sono un
vecchio uomo di parte». Dichiarava le
proprie preferenze e indicava coloro, gruppi o persone, che sentiva come
“punti vivi”, in cui il mistero di Cristo si manifestava con più evidenza o era
sostenuto nella sua portata storica. Seguire lui era seguire loro, che egli
stesso seguiva, fino a mettere a rischio la reputazione, come successe in
politica. Non diceva ipocritamente che
non gli interessavano i partiti, gli interessavano quelli che difendevano o
almeno non erano ostili alla Chiesa. Se non eri d’accordo con lui dovevi
dirlo e dire perché.
Giussani guidava il Movimento con la parola e l’esempio, non solo i suoi,
ma anche quelli delle testimonianze che ci metteva davanti come presenze
significative. Ascoltava con estrema attenzione. Se una frase o un’esperienza
lo colpiva, la riprendeva e riproponeva con insistenza, così che chi aveva
detto o raccontato si sentiva lanciato in un protagonismo, che diventava
responsabilità.
Dio e la comunità
Fu una fioritura di personalità, che con
il tempo sono cresciute nella Chiesa e nel mondo. Io ho visto ragazzi, su cui non avrei
scommesso, diventare grandi nell’umanità, nel lavoro, nella costruzione della
famiglia, della comunità e della società.
In anni avari di vocazioni ho visto tanti giovani avviarsi al sacerdozio,
alla vita monastica, alla scelta della verginità pur in una vita secolare.
Dietro di loro c’era un motore sempre acceso, che aveva la sua origine in Giussani, ma anche nelle
personalità che egli suscitava intorno a sé. Giussani correggeva, spesso e
instancabilmente, ma non mollava mai nessuno che, per quanto in mezzo agli
errori, mantenesse il desiderio ideale di conversione e di amicizia.
Proprio in questi mesi stiamo affrontando il nuovo testo di Scuola di
comunità, l’attività catechetica fondamentale di Comunione e
Liberazione. Ci si confronta sulla vita, leggendo e meditando un
libro guida, che quest’anno raccoglie gli ultimi interventi di don Giussani
agli esercizi spirituali della Fraternità, dal 1997 al 2004.
Adesso abbiamo iniziato gli Esercizi del 1997, intitolati “Tu o dell’amicizia”. Come detto nell’introduzione, Giussani cominciava ad avere seri problemi di salute. Diceva che gli era «scoppiata la vecchiaia». Lungi dal cedere si preparava con cura, con l’intento di lasciare in eredità una parola il più possibile definitiva dell’esistenza, come l’aveva imparata lui. “Dio tutto in tutto” e “Cristo tutto in tutti” sono intitolati i primi due capitoli.
Tutto origina da Dio, che, interpellandoci sempre, rispetta l’autonomia
delle cose create e soprattutto la nostra libertà, cui chiede non di scomparire
e sottomettersi, ma di amarlo. Per esempio, Dio certamente non è l’autore né
vuole la guerra in Europa, ma sicuramente attraverso questo evento sciagurato
ci chiama a riconoscere Lui, la sua signoria, come fattore di pace e di
amicizia tra gli uomini. Questo noi lo possiamo fare per Cristo, “tutto in tutti”,
imitando Lui che è venuto per portarci al Padre con il dono della sua vita a
noi.
Nulla di quello che c’è e succede può negare Dio e tutto può essere
ricostituito in Cristo. «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate
qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31), tanto più
quando si fanno cose importanti come amare, studiare, lavorare e votare, per
dirne alcune.
Giussani ci ha cresciuti invitandoci a guardare alla fonte
dell’Essere, alla positività ultima della realtà, a Cristo vita, verità e via;
strada verso il compimento. Ci hanno accusati di integrismo, ma chi cerca Dio in
tutto non ha deliri di onnipotenza perché sa di essere in tutto limitato e di
aver bisogno in tutto dell’aiuto di Dio e degli uomini, con cui Cristo ci ha
reso fratelli.
Qualche tempo prima di morire – eravamo da soli nel soggiorno della casa al
mare – Giussani improvvisamente mi disse (cito a senso): «Vedi, per amare gli
uomini bisogna amare Dio e per amare Dio bisogna amare gli uomini». È la
parafrasi del grande comandamento da cui Gesù fa dipendere tutta la legge e i
profeti. Per individuare la presenza misteriosa di Dio nel mondo si deve volere bene al prossimo, a
cominciare da chi condivide la stessa fede, appartenere alla Chiesa, alla
comunità dei cristiani nella scuola, nel lavoro, nel quartiere. Senza
l’esperienza concreta di questo legame, anche i gesti più religiosi possono
diventare riti magici, senza dramma, o meglio ottusamente e disperatamente
distanti dalla vita.
L’intelligenza dell’amore
Giussani diceva spesso che con Gesù alla
fine possono essere d’accordo tutti; ciò con cui non sono d’accordo è la
Chiesa, la comunità
nell’ambiente che è il segno concreto della presenza di Cristo nel mondo.
«Segno e mistero coincidono», diceva, e ci credeva con tutto se stesso,
dedicandosi senza risparmio alla coltivazione dei segni che comunicavano il
mistero, con le parole, i canti, le testimonianza di “brani” di vita rinnovati.
«La gloria umana di Cristo»,
insisteva, invocando e valorizzando la nuova umanità che rende il cristianesimo
affascinante ed effettivamente propositivo.
Devo dirlo, la religiosità è troppo spesso espressa e relegata a un intimismo individuale che non ha forza affettiva e coinvolgente, che trascura l’attenzione a che i gesti siano curati e pensati per l’edificazione di tutti. Giussani era il contrario ed era un educatore nel senso che ci prendeva più sul serio di quanto ci prendevamo noi, invitandoci continuamente a contemplare Dio, in Cristo, non un’immagine idealizzata, tanto perfetta quanto distante, ma mistero presente in un corpo vivo, ricco e imprevedibile come è la vita di chi a poco a poco impara ad amare.
Non è un caso che nel citato testo di Scuola di comunità Giussani a certo
punto parli del dramma della moderna religiosità, descrivibile con i “cinque senza”: «Dio senza Cristo,
Cristo senza Chiesa, Chiesa senza mondo, mondo senza l’io e l’io senza Dio».
Lui i collegamenti li aveva ristabiliti per sé e per noi, con una grande
intelligenza affettiva: capiva cose e persone perché amava.
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