Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo
degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro
sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere
anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono
abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono
bastano a sollevare interrogativi importanti.
Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?
Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani. Come mai?
Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un
maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di
immigrati, o di stranieri di fede islamica. Ma i dati non sembrano facilmente
conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.
Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del
patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da
un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è
difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere
che i paesi scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito?
O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?
Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in
dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi,
suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel
Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni
del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?
Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un
modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del
patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri
dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il
fatto di avere reso il paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha
provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta
libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la
violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla
libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e
’80.
Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche
ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che
cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione
della donna? Mah…
Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per
quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne
nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate.
Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti,
troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la
cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha
anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i
genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli
insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere
un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo,
abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche
prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti,
bensì conquistepossibili, spesso costose in termini di sforzi, e
sempre esposte al rischio di fallimento.
In breve, e detto brutalmente: nelle società
“arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate
non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello
della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i
genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono
intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi,
quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero
trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di
protezione familiare è fuori gioco.
Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.
Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con
cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise
(quasi + 20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di
minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti,
risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente
rapporto della Polizia criminale.
La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi
sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un
deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la
scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei
diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il
rischio di fallire.
Tratto dal sito Fondazione Hume
i grafici sono tratti dal sito Openpolis
https://www.openpolis.it/esercizi/femminicidio/
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