lunedì 4 luglio 2016

BONNEFOY, UN POETA CHE CERCA L’ASSOLUTO NEL CUORE DELLA REALTÀ

“C'è qui sull'orlo di chi siamo
Un impensato da capire?”

Yves Bonnefoy, il grande poeta francese che è morto il primo luglio a Parigi, ci ha lasciato un inesausto desiderio di senso e insieme di fratellanza verso il creato. Ci ha invitato a restituire all'oggetto terrestre la sua vocazione all'assoluto, e ad attingere ad una sorta di “infanzia linguistica” per ritrovare la nativa vicinanza delle parole e delle cose, minacciata dalla concettualizzazione e dall'astrattezza.

Su questo tema, per ridare alle parole il loro significato originale lo scorso anno il Crocevia ha costruito un percorso in cinque incontri.

Credo  che Yves Bonnefoy nel momento decisivo della vita abbia incontrato quell’impensato e lo abbia capito.

BONNEFOY, UN POETA CHE CERCA L’ASSOLUTO NEL CUORE DELLA REALTÀ

28 gennaio 2015 di LUIGI REITANI
in occasione della consegna del Premio "NONINO"
In un discorso sulla traduzione letteraria Yves Bonnefoy ha definito una volta la poesia come quel «ricorso al suono per ritrovare la memoria della presenza». In queste suggestive parole si condensa e giunge a compimento un lungo esercizio di riflessione critica avviato dal poeta fin dai suoi esordi negli anni Quaranta. Per Bonnefoy, infatti, la poesia è indissolubilmente legata all'esperienza: non a quella di un esteriore evento biografico, per quanto significativo, ma all'imprevedibile irruzione dell'assoluto nella sfera dei sensi. Quel momento in cui la «realtà appare sotto un'altra luce»; quell'attimo in cui le cose si rivelano nel loro groviglio di relazioni, lasciando intravedere molteplici, inaspettate sfaccettature; quell'istante in cui si prende intuitivamente coscienza del mondo nel suo esistere "qui ed ora". E insieme a questo: il sentirsi partecipi di tale esistere, nella sua - e nostra - finitudine. «Di qui l'emozione che ci sommerge in questo istante di presenza. Eravamo enigma, eccoci ormai evidenza».
La "presenza" è dunque, in senso enfatico, la subitanea e sconvolgente rivelazione di un senso profondo della vita, che si sottrae alla caducità, alla banalità del quotidiano, alla ripetizione dell'identico, alla giostra del sempre uguale. È l'esito di un incontro esistenziale con un paesaggio, un'opera d'arte, uno sconosciuto, una persona intima. Un simile incontro trasforma gli interrogativi sul nostro essere nel mondo (l'"enigma") in risoluta consapevolezza ("l'evidenza").
È palese, in questa riflessione, l'eco di quelle filosofie del Novecento che, da Husserl a Heidegger in avanti, hanno posto l'accento sulle modalità dell'essere dell'uomo nel mondo, ma ancora più determinante è in Bonnefoy la difesa del valore della poesia come chiave di accesso all'assoluto e in definitiva al senso stesso delle cose, in una linea della tradizione europea che parte da Hölderlin per attraversare l'Ottocento di Leopardi e Baudelaire. Perché il vero problema della "presenza" è per il poeta francese il problema della sua condivisione, se ci si vuole aprire agli altri e non consumarsi in uno sterile isolamento.
Ma come comunicare davvero, se il linguaggio astratto sottrae all'esperienza la sua unicità e ne depotenzia il valore in un sistema di concetti che più non appartiene alla vita? Non a caso Bonnefoy in uno dei suoi scritti più recenti si richiama esplicitamente a quel manifesto della crisi del linguaggio che è stato agli inizi del Novecento europeo “La lettera di Lord Chandos” di Hugo von Hofmannsthal, in cui appunto si pone il problema dell'indicibilità del mondo nella rete del linguaggio astratto. Ai concetti (non a caso uno dei suoi primi libri s'intitola “Anti-Platone”) Bonnefoy contrappone dunque la forma musicale della poesia, capace di trascendere i significati, di cui pure è portatrice, per rimandare al valore delle emozioni che li ha generati. La poesia sarà allora il tentativo di serbare e trasmettere la memoria dell'indicibile. Tentativo tragico, perché confrontato con il suo necessario fallimento. Nominare l'assoluto, infatti, non solo è impossibile, ma costituirebbe una sua falsificazione: «Amare la perfezione in quanto soglia, / Ma conosciuta negarla, dimenticarla morta, / L'imperfezione è la cima» (dalla raccolta “Ieri deserto regnante”).


Può a prima vista stupire che tale incondizionata necessità della poesia (in proposito Jean Starobinski ha giustamente parlato di un'«esigenza ontologica, assai più che estetica») sia stata mirabilmente teorizzata in un discorso il cui tema è la traduzione. Sapiente traduttore di Shakespeare, sui cui “Sonetti” è più volte ritornato, di Keats, di Leopardi e Petrarca, Yves Bonnefoy ha visto in questo arduo compito una conferma del carattere "transitivo" dell'arte, il cui valore sociale risiede nella capacità di riconvertirsi in esperienza. Il traduttore rappresenta così il caso-limite, e tuttavia illuminante, di un lettore votato non solo alla comprensione del testo poetico, ma anche alla sua riscrittura esistenziale. Nel passaggio da una lingua a un'altra i concetti perdono la loro fissità e si relativizzano, ma questo, anziché risultare uno scacco, è piuttosto un'opportunità. «La traduzione non è che la resa incerta di una poesia? No, è l'occasione di pensare alla poesia, di capirne le strade, di indicarne la necessità, di aiutare il suo ricominciamento qui da dove questa necessità rischiava di essere dimenticata».
Costruita su questa base, la poesia di Bonnefoy è necessariamente una poesia dei luoghi, continuamente evocati e invocati, come nella splendida raccolta Le assi curve («Che questo mondo rimanga / malgrado la morte! / Stretta contro il ramo / l'oliva grigia»), che spesso assume la struttura di una litania rapsodica. Una poesia in cui ritornano prepotenti ed espressivi alcuni elementi della natura, elevati ad archetipi, come la pietra, l'acqua, il fuoco. Del resto lo scrittore ha dedicato molte delle sue energie intellettuali alla direzione del grande “Dizionario delle mitologie e delle religioni” (1981). Ma si farebbe un grave torto a Bonnefoy vedendo in lui un fautore dell'irrazionale. Al contrario, la sua ricerca poggia non per ultimo su rigorosi studi di matematica. Ma è soprattutto alla storia dell'arte che il poeta ha rivolto la sua costante attenzione. Raffinato interprete di Giacometti, di cui è stato amico, Bonnefoy si è interessato come forse nessun altro scrittore contemporaneo alla pittura italiana dal Tre al Seicento. In questi studi c'è molto di più che una sapiente erudizione o la capacità di cogliere i particolari, l'abilità retorica di descrivere e narrare i dipinti. Quello che Bonnefoy pone è lo stesso problema delle immagini, ovvero del loro senso profondo, che ancora conduce all'idea centrale di una sostanza dell'essere riposta oltre l'apparenza dei fenomeni.
Nella magnifica prosa del 1972 “L'entroterra” (splendidamente resa da Gabriella Caramore, Donzelli) Bonnefoy fa del paesaggio italiano, nel suo intreccio indissolubile di natura e pittura, con ampi riferimenti all'arte di Piero della Francesca, il luogo per eccellenza della sua ricerca poetica ed esistenziale, la terra di una «misteriosa promessa». A questa altissima voce della lirica europea l'Italia ha dal suo canto rivolto da tempo l'attenzione di insigni studiosi, poeti e traduttori: da Carlo Ossola ad Andrea Zanzotto,fino a Diana Grange Fiori e a Fabio Scotto, curatore dell'eccellente "Meridiano" che raccoglie una vasta silloge della sua opera. Ai numerosi riconoscimenti già ottenuti nel nostro paese si aggiunge ora, meritatissimo e congeniale, il Premio internazionale Nonino.

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