“C'è qui sull'orlo di chi siamo
Un impensato da capire?”
Yves Bonnefoy, il grande
poeta francese che è morto il primo luglio a Parigi, ci ha lasciato un inesausto desiderio di senso e insieme di fratellanza
verso il creato. Ci ha invitato a restituire all'oggetto terrestre la sua
vocazione all'assoluto, e ad attingere ad una
sorta di “infanzia linguistica” per ritrovare la nativa vicinanza delle
parole e delle cose, minacciata dalla concettualizzazione e dall'astrattezza.
Su
questo tema, per ridare alle parole il loro significato originale lo scorso
anno il Crocevia ha costruito un percorso in cinque incontri.
Credo
che Yves Bonnefoy nel momento decisivo
della vita abbia incontrato quell’impensato e lo abbia capito.
BONNEFOY, UN POETA CHE CERCA L’ASSOLUTO NEL CUORE DELLA
REALTÀ
28 gennaio
2015 di LUIGI REITANI
in occasione della consegna del Premio "NONINO"
In un discorso sulla traduzione letteraria Yves Bonnefoy ha definito una volta la poesia come quel
«ricorso al suono per ritrovare la memoria della presenza». In queste
suggestive parole si condensa e giunge a compimento un lungo esercizio di
riflessione critica avviato dal poeta fin dai suoi esordi negli anni Quaranta.
Per Bonnefoy, infatti, la poesia è indissolubilmente
legata all'esperienza: non a quella di un esteriore evento biografico, per
quanto significativo, ma all'imprevedibile irruzione dell'assoluto nella sfera
dei sensi. Quel momento in cui la «realtà appare sotto un'altra luce»;
quell'attimo in cui le cose si rivelano nel loro groviglio di relazioni,
lasciando intravedere molteplici, inaspettate sfaccettature; quell'istante in
cui si prende intuitivamente coscienza del mondo nel suo esistere "qui ed
ora". E insieme a questo: il sentirsi partecipi di tale esistere, nella
sua - e nostra - finitudine. «Di qui
l'emozione che ci sommerge in questo istante di presenza. Eravamo enigma,
eccoci ormai evidenza».
La "presenza"
è dunque, in senso enfatico, la subitanea e sconvolgente rivelazione di un senso profondo della vita, che si sottrae alla
caducità, alla banalità del quotidiano, alla ripetizione dell'identico, alla
giostra del sempre uguale. È l'esito di
un incontro esistenziale con un paesaggio, un'opera d'arte, uno
sconosciuto, una persona intima. Un simile incontro trasforma gli interrogativi
sul nostro essere nel mondo (l'"enigma") in risoluta consapevolezza
("l'evidenza").
È palese, in questa riflessione, l'eco di quelle filosofie del Novecento
che, da Husserl a Heidegger in avanti, hanno posto l'accento sulle modalità
dell'essere dell'uomo nel mondo, ma ancora più determinante è in Bonnefoy la difesa del valore della poesia
come chiave di accesso all'assoluto e in definitiva al senso stesso delle cose,
in una linea della tradizione europea che parte da Hölderlin per attraversare
l'Ottocento di Leopardi e Baudelaire. Perché
il vero problema della "presenza" è per il poeta francese il problema
della sua condivisione, se ci si vuole aprire agli altri e non consumarsi in
uno sterile isolamento.
Ma come comunicare
davvero, se il linguaggio astratto sottrae all'esperienza la sua unicità e ne
depotenzia il valore in un sistema di concetti che più non appartiene alla
vita? Non a caso Bonnefoy in uno dei suoi scritti più recenti si richiama
esplicitamente a quel manifesto della crisi del linguaggio che è stato agli
inizi del Novecento europeo “La lettera di Lord Chandos” di Hugo von
Hofmannsthal, in cui appunto si pone il problema dell'indicibilità del mondo
nella rete del linguaggio astratto. Ai concetti (non a caso uno dei suoi primi
libri s'intitola “Anti-Platone”) Bonnefoy contrappone dunque la forma musicale
della poesia, capace di trascendere i significati, di cui pure è portatrice,
per rimandare al valore delle emozioni che li ha generati. La poesia sarà
allora il tentativo di serbare e trasmettere la memoria dell'indicibile.
Tentativo tragico, perché confrontato con il suo necessario fallimento.
Nominare l'assoluto, infatti, non solo è impossibile, ma costituirebbe una sua
falsificazione: «Amare la perfezione in
quanto soglia, / Ma conosciuta negarla, dimenticarla morta, / L'imperfezione è
la cima» (dalla raccolta “Ieri deserto regnante”).
Può a prima vista stupire che tale incondizionata necessità della poesia
(in proposito Jean Starobinski ha giustamente parlato di un'«esigenza
ontologica, assai più che estetica») sia stata mirabilmente teorizzata in un
discorso il cui tema è la traduzione. Sapiente traduttore di Shakespeare, sui
cui “Sonetti” è più volte ritornato, di Keats, di Leopardi e Petrarca, Yves
Bonnefoy ha visto in questo arduo compito una conferma del carattere
"transitivo" dell'arte, il cui valore sociale risiede nella capacità
di riconvertirsi in esperienza. Il
traduttore rappresenta così il caso-limite, e tuttavia illuminante, di un
lettore votato non solo alla comprensione del testo poetico, ma anche alla sua
riscrittura esistenziale. Nel passaggio da una lingua a un'altra i concetti
perdono la loro fissità e si relativizzano, ma questo, anziché risultare uno
scacco, è piuttosto un'opportunità. «La traduzione non è che la resa incerta di
una poesia? No, è l'occasione di pensare alla poesia, di capirne le strade, di
indicarne la necessità, di aiutare il suo ricominciamento qui da dove questa
necessità rischiava di essere dimenticata».
Costruita su questa base, la poesia di Bonnefoy è necessariamente una
poesia dei luoghi, continuamente evocati e invocati, come nella splendida
raccolta Le assi curve («Che questo
mondo rimanga / malgrado la morte! / Stretta contro il ramo / l'oliva grigia»),
che spesso assume la struttura di una litania rapsodica. Una poesia in cui
ritornano prepotenti ed espressivi alcuni elementi della natura, elevati ad
archetipi, come la pietra, l'acqua, il fuoco. Del resto lo scrittore ha
dedicato molte delle sue energie intellettuali alla direzione del grande
“Dizionario delle mitologie e delle religioni” (1981). Ma si farebbe un grave
torto a Bonnefoy vedendo in lui un fautore dell'irrazionale. Al contrario, la
sua ricerca poggia non per ultimo su rigorosi studi di matematica. Ma è
soprattutto alla storia dell'arte che il poeta ha rivolto la sua costante
attenzione. Raffinato interprete di Giacometti, di cui è stato amico, Bonnefoy
si è interessato come forse nessun altro scrittore contemporaneo alla pittura
italiana dal Tre al Seicento. In questi studi c'è molto di più che una sapiente
erudizione o la capacità di cogliere i particolari, l'abilità retorica di
descrivere e narrare i dipinti. Quello che Bonnefoy pone è lo stesso problema
delle immagini, ovvero del loro senso profondo, che ancora conduce all'idea
centrale di una sostanza dell'essere riposta oltre l'apparenza dei fenomeni.
Nella magnifica prosa del 1972 “L'entroterra” (splendidamente resa da
Gabriella Caramore, Donzelli) Bonnefoy fa del paesaggio italiano, nel suo
intreccio indissolubile di natura e pittura, con ampi riferimenti all'arte di
Piero della Francesca, il luogo per eccellenza della sua ricerca poetica ed
esistenziale, la terra di una «misteriosa promessa». A questa altissima voce
della lirica europea l'Italia ha dal suo canto rivolto da tempo l'attenzione di
insigni studiosi, poeti e traduttori: da Carlo Ossola ad Andrea Zanzotto,fino a
Diana Grange Fiori e a Fabio Scotto, curatore dell'eccellente
"Meridiano" che raccoglie una vasta silloge della sua opera. Ai
numerosi riconoscimenti già ottenuti nel nostro paese si aggiunge ora,
meritatissimo e congeniale, il Premio internazionale Nonino.
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