venerdì 15 luglio 2016

GRANDE INTERVISTA A RÉMI BRAGUE

L’EUROPA CORRE PERICOLI MOLTO PIÙ GRAVI DELLA BREXIT
TEMPI Luglio 11, 2016 Elisa Grimi
Lo storico della filosofia della Sorbona spiega cosa vuol dire quando dice che «dobbiamo tornare al Medio Evo». E augura sulla sua generazione (quella degli ex sessantottini «privilegiati») di finire «prima possibile nell’immondezzaio della storia»

«Pensate alla Svizzera, rannicchiata nel cuore del continente, con le sue tre lingue ufficiali più il romancio, e le sue due confessioni cristiane: un’Europa in miniatura, che tuttavia non fa parte dell’Unione. L’Europa è più grande dell’Unione Europea». 
Rémi Brague, saggista e storico della filosofia, docente alle università di Parigi I Pantheon-Sorbona e di Monaco Ludwig-Maximilian, ha studiato e scritto molto a riguardo dell’identità europea. All’indomani del referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, ha risposto ad alcune domanda di Tempi.


Professore, che cosa pensa di questa Europa all’indomani della Brexit?
La cultura europea ha le sue ricchezze, e i pericoli che la minacciano si trovano a un livello diverso da quello politico. In ogni caso immagino che nessuno desideri rimorchiare la Gran Bretagna per trainarla fino al Pacifico e ormeggiarla al fianco della Nuova Zelanda. E immagino che gli studenti del continente continueranno a sognare di formarsi a Oxbridge. Mentre io per parte mia continuerò a ridere leggendo P. G. Wodehouse, e a riflettere leggendo Chesterton o C. S. Lewis.

Subito dopo il referendum la sterlina ha avuto una flessione ma poi ha rimbalzato. C’è chi si mostra entusiasta del risultato, per molti inglesi sembra trattarsi di una vera e propria liberazione da un potere impersonale e distante. Gli si deve dare torto?
Le reazioni dei britannici mi sembrano più sfumate di così. Non è certo che siano tutti entusiasti, nemmeno fra quelli che hanno votato per l’uscita dall’Unione Europea. In ogni caso, occorre vedere quali cambiamenti concreti seguiranno a questo referendum, perché la decisione non si ferma lì, la parola ora passa al parlamento.

Il fenomeno delle migrazioni di massa è sotto gli occhi di tutti. Molti migranti sono profughi costretti a fuggire dalla propria terra per potere sopravvivere. Hanno perso tutto e si ritrovano a dovere ricostruire la propria vita in terre che non conoscono veramente, dove lingua, cultura e tradizione sono diverse dalle loro. Crede che i problemi per l’accoglienza di questi migranti, insieme a quelli determinati dalla massiccia immigrazione comunitaria, siano stati determinanti per la vittoria della Brexit alle urne? Si tratta di una motivazione egoista o realista?
La presenza massiccia di immigrati provenienti da regioni del mondo i cui costumi e le cui religioni sono molto diversi da quelli europei, è un problema reale. Bisogna avere il coraggio di porlo e di cercare i mezzi per affrontarlo in modo più serio che con discorsi sulla tolleranza, la diversità, il meticciato e altre ingenuità. Bisogna anche ricordarsi che l’Occidente è in gran parte responsabile delle guerre che ispirano il desiderio di queste persone di abbandonare i loro paesi e cercare in Europa la pace e il benessere.

Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, alla vigilia del voto aveva detto che una Brexit sarebbe stata «l’inizio della fine della civiltà occidentale così come la conosciamo». A risultato conosciuto, non sono mancati commenti da tutto il mondo. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato che «l’idea dell’unità europea è una idea di pace, non possiamo mai dimenticarlo», mentre il presidente francese François Hollande ha detto che farà «di tutto affinché si adotti un cambiamento profondo piuttosto che un ripiegamento dell’Europa». È solo un gioco di facciata delle principali potenze europee, preoccupate che il sistema collassi, e con esso i loro crudi interessi?

Queste affermazioni apocalittiche mi sembrano un po’ ridicole. La civiltà occidentale mi sembra minacciata da altri fattori più gravi da ben prima della Brexit. Anzitutto dalla mancanza di fiducia in se stessa.
La «fine della civiltà occidentale» è una possibilità reale, ma niente dimostra che debba consistere in un crollo brusco. Temo piuttosto un suo esaurimento progressivo, a causa della rinuncia a se stessa, che sarebbe indolore e passerebbe quasi inavvertito. Le parole di Angela Merkel mi sembrano invece un richiamo salutare: il motivo iniziale del progetto dei padri dell’Europa (Adenauer, Schuman, De Gasperi) non era la ricchezza economica, ma il mantenimento della pace: si trattava anzitutto di rendere impossibile un nuovo scontro fra la Francia e la Germania.

Il collante di questa Europa sembra essere unicamente la moneta, collante che si sta rivelando sempre più fallace. Crede sia possibile ritornare a parlare di identità europea per ciò che la costituisce nella sua origine, tornare a parlare cioè della storia dell’Occidente?
Non sono sicuro che si debba vedere nella moneta unica qualcosa di scarsa importanza. Ricordo di avere avuto una reazione emotiva molto forte quando ho visto apparire le prime monete dell’euro, che portano ciascuna, a differenza delle banconote, il sigillo del paese che le ha emesse. «Gli amici sono anche qui», mi è venuto spontaneo pensare. Inoltre, mentre la carta o il pezzetto di metallo non hanno alcun valore intrinseco, la moneta detta «fiduciaria» esiste solamente grazie alla fiducia, e dunque la simboleggia. Non si deve opporre l’economia a un’identità europea che sarebbe solo spirituale.

Papa Francesco ha recentemente dichiarato che, guardando al tasso altissimo di disoccupazione in Europa, c’è certamente qualcosa che non va in questa Unione “massiccia”. Ma ha anche sottolineato che due sono le parole che egli associa a questa Europa: fecondità e creatività. Lei crede realisticamente che oggi sia realizzabile un progetto d’integrazione che non sia solo burocratico ed economico-commerciale ma anche educativo e culturale?
Fecondità? Se si tratta di uno sguardo retrospettivo al passato, la fecondità effettivamente è stata una delle cause più importanti del successo storico dell’Europa a partire dall’XI secolo. Se invece si guarda al presente, parlare di fecondità è uno scherzo di cattivo gusto, dal momento che sappiamo che le popolazioni europee non rinnovano le loro generazioni e si condannano così all’estinzione. Creatività? Sì, certamente, a condizione di non pretendere di «creare» a partire dal nulla. Perché è più facile distruggere che costruire. Nelle rivoluzioni capita spesso che si distrugga per fare piazza pulita, senza che poi sorga nulla di durevole. Ho l’impressione che il progetto di integrazione europea non funzioni meglio in nessun altro ambito che in quello dell’educazione. Il programma Erasmus funziona piuttosto bene e permette a un numero sempre maggiore di giovani di scoprire altre lingue e paesi europei diversi dai loro.

A Parigi si è di recente concluso il Symposium Thomisticum, un convegno internazionale di filosofia in collaborazione con studiosi provenienti da tutto il mondo. In tale occasione lei ha proposto una riflessione in cui si esortava il ritorno al Medio Evo, quello dei padri della Chiesa (non quindi il periodo buio), in cui era possibile una visione unitaria della società. Il convegno si è svolto nei pressi del Pantheon, sul quale è impresso il motto “Liberté, égalité, fraternité”. Forse che tale finta laicità che questa iscrizione celebra non sia l’origine della perdizione dell’Europa di oggi?
Il Medio Evo al quale ho detto che dovremmo tornare, con una formula volontariamente paradossale e provocatoria, non è quello che coincide col sogno di una società organica che non è mai esistita se non nell’immaginazione. Io pensavo solamente ai concetti fondamentali del pensiero medievale: la creazione, la provvidenza, la redenzione, il perdono. È il Medio Evo dei padri della Chiesa, ma anche quello dei grandi scolastici, e anche quello degli scrittori. È il Medio Evo che è stato anche, prima del Rinascimento italiano, il teatro di una successione quasi ininterrotta di microrinascimenti che tentavano di recuperare quel che poteva essere salvato dell’eredità antica, sia pagana sia cristiana: Boezio, Cassiodoro, Alcuino, Giovanni Scoto Eriugena, la scuola di Chartres.

Le nuove generazioni sono in balìa degli alti e bassi dell’economia mondiale. Impostano la loro vita inseguendo l’altalena di crescita e decrescita del Pil, l’enorme precarietà impedisce loro di formare una famiglia. Da questo punto di vista, l’esperimento europeo non è forse fallito? Come possono gli europei ritrovare se stessi in queste condizioni?
La situazione che lei descrive, e che costituisce in gran parte la causa del tracollo demografico dell’Europa, è il risultato di decisioni prese dagli europei della mia generazione, i figli del baby boom diventati sessantottini. Questi privilegiati, che grazie all’ombrello nucleare americano non hanno conosciuto la guerra in Europa e hanno goduto dei «Trenta gloriosi» (gli anni del miracolo economico europeo fra il 1945 e il 1973, ndr), si sono mostrati di un egoismo scoraggiante nei confronti della generazione seguente, che hanno voluto d’altra parte poco numerosa. Le hanno lasciato un ambiente inquinato, un debito pubblico sempre crescente e, nell’ambito morale, degli esempi di comportamento devianti e mortiferi. Mi auguro che la presente generazione ci getti prima possibile nell’immondezzaio della storia.

Allontanandosi dallo sguardo ipocrita tipico della realtà del suo tempo, G. K. Chesterton scriveva quasi un centinaio di anni fa La Nuova Gerusalemme, un racconto in cui il protagonista partendo da Londra, capitale del più grande impero di allora, si recava nella Parigi capitale del giacobinismo che aveva coniato il mondo moderno, quindi scendeva nella Roma papale, imperiale e repubblicana; attraversava poi il mare per arrivare all’ombra delle piramidi egiziane e da lì giungeva nella Terra Promessa dei Patriarchi biblici. Vale ancora il suo pensiero per cui «l’uomo moderno è simile a un viandante che non ricorda più il nome della sua meta e deve ritornare nel punto da cui proviene per scoprire dove è diretto»? È possibile questo per un europeo di oggi? Da dove partire?
Devo confessare che, benché io ami tantissimo l’opera di G. K. Chesterton, il libro La Nuova Gerusalemme manca alle mie letture. Chinarsi sulle proprie origini e sulla propria storia non è un modo sbagliato per sapere chi si è. Questo non significa che saremmo obbligati a continuare nella stessa direzione dei nostri antenati. Spetta solo a noi, che viviamo nel tempo presente, decidere. Ma è proprio per questo che abbiamo bisogno di prendere più chiaramente coscienza di quello che siamo. E noi siamo costituiti da esperienze accumulate dai nostri antenati. Che non ne siamo coscienti non cambia nulla alla questione.


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 L'Europa dopo la Brexit. Intervista a Rémi Brague | Tempi.it 

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