La Giunta del Senato non diventi il plotone
d'esecuzione della Costituzione
la decisione sul Cav. può uccidere
del tutto la politica
21 agosto 2013
La decisione sulla decadenza da
senatore di Silvio Berlusconi non è una questione privata. Il governo e
l’Italia non ne usciranno indenni. Nel ’92-’93 la Costituzione più bella del
mondo fu resa monca, come ha ricordato Michele Ainis, quando una classe
politica impaurita abbatté l’articolo 68 posto a presidio dell’equilibrio fra i
poteri dello stato. Ora la prima applicazione della discutibile logica
apparente di una legge, anch’essa nata frettolosamente sotto la pressione
mediatica, potrebbe rappresentare un’esiziale e definitiva cessione di
sovranità. Non c’è solo in gioco il diritto di milioni di elettori del Pdl alla
propria leadership. Si eviti di ripetere l’errore commesso per vent’anni,
quando ci si è illusi che dopo aver delegato la sovranità alla magistratura per
combattere Silvio Berlusconi, un bel giorno si sarebbe potuto fare marcia
indietro.
La riva del fiume non dev’essere mai
sembrata un luogo così comodo sul quale adagiarsi e attendere (possibilmente
poco), con la corrente a seguire il suo
corso tra un Esposito (il giudice) e una Severino (la legge), e i depositari
della sovranità del popolo auto-costretti a una burocratica “presa d’atto”. E
se in altre epoche la supina ratifica parlamentare degli eventi esterni ha
richiesto quantomeno la fatica di prendere la Costituzione più bella del mondo
e depositarla sulla ghigliottina che l’ha fatta monca (ce ne volle di fatica
nel ’92 e nel ’93, quando la resa della politica passò dalla doppia revisione
costituzionale che, ce lo ha ricordato anche Michele Ainis, recise il potere di
clemenza delle Camere e abbatté l’articolo 68 posto a presidio dell’equilibrio
fra i poteri dello stato), stavolta l’occasione per l’esiziale e definitiva cessione
di sovranità si presenta sotto le forme anodine di una legge figlia, come tante
altre leggi mal scritte, di pagine di cronaca piene di scandali e del terrore
della classe politica di restarne travolta.
Proprio così. Perché se al comprensibile furor di popolo dei giorni di
Batman non fosse seguita la paura del Parlamento di apparire come una piccola
grande Gotham City, o il timore che gli scranni dai quali si fosse levata una
voce critica nei confronti delle nuove norme sulla incandidabilità potessero essere
confusi con quei triclini sui quali si adagiavano candidi laticlavi di porpora
fasciati e a sovrastarli enormi teste di maiale, forse si sarebbe preteso che
l’articolo 66 della Costituzione più bella del mondo, oltre a essere
doverosamente citato, della legge costituisse senza ambiguità il faro
d’orientamento. Si sarebbe fatto in modo che l’articolo 25 fosse debitamente
considerato. Si sarebbe avuto adeguato riguardo per quell’articolo 1 che
assegna la sovranità allo stesso popolo in nome del quale vengono pronunciate
le sentenze. Soprattutto – e a prescindere da ogni caso specifico – si sarebbe
evitato che un tribunale potesse giudicare insieme di un presunto reato e della
permanenza in carica di un parlamentare già eletto (e magari della sopravvivenza
di un governo), e si sarebbe evitato di porre il Parlamento di fronte a una
drammatica alternativa: mettere in discussione la discutibile logica apparente
di una legge dello stato, o calpestare la Costituzione spogliandosi delle
proprie prerogative e degradando se stesso a mero notaio di decisioni altrui
come vorrebbe ad esempio Stefano Rodotà (chissà se anche lui, oltre a Prodi,
sarebbe stato meglio di Napolitano…).
Se così fossero andate le cose,
Mortati e Gullo, Togliatti e Terracini riposerebbero in pace, senza sotterranei
turbamenti. Non essendo così andate le cose,
sta agli uomini e alle donne che siedono in Parlamento la presa d’atto che non
di salvacondotti dovrà discutere il Senato, ma del rigore costituzionale e
della prima e decisiva applicazione di una legge frettolosa. E che a seconda di
come questa legge verrà interpretata – perché Costituzione alla mano così
adamantina oggettivamente non è – quel po’ che resta dello stato di diritto,
dell’equilibrio fra i poteri e della sovranità del Parlamento potrà essere
preservato oppure ulteriormente compromesso. Insomma: anche chi provasse orrore
alla sola idea di farsi carico del diritto dei sette milioni di elettori del
Pdl alla propria leadership, eviti almeno di ripetere l’errore commesso in
questi vent’anni, quando ci si è illusi che dopo aver delegato la sovranità
alla magistratura perché funzionale a combattere Silvio Berlusconi, un bel
giorno si sarebbe potuto fare marcia indietro. La caduta del governo Prodi
dovrebbe pur insegnare qualcosa.
Quanto sia complessa, delicata e per
nulla scontata la materia che il Senato si troverà a maneggiare dal 9
settembre, lo dimostrano le preoccupate
riflessioni di giuristi non certo sospettabili di simpatie berlusconiane come
Piero Alberto Capotosti e Giovanni Fiandaca. L’auspicio, che è quasi un appello
accorato, è che nessun pregiudizio, nessun congresso di partito, nessuna
tentazione di chiudere con un colpo secco una partita di vent’anni facciano
velo a ciò che questo snodo rappresenta per il presente del nostro paese e per
il futuro della nostra democrazia. Non stiamo discutendo di un fatto personale
e privato: ce lo ha ricordato anche chi, dopo aver assistito da presidente
della Camera all’abbattimento delle garanzie che i padri costituenti avevano
posto a presidio dell’equilibrio costituzionale, da una posizione ancor più
elevata ha constatato quali disastri quella scelta abbia prodotto sul nostro
fragile sistema.
Vi sono momenti nei quali
dall’interpretazione di una norma di legge passa la sorte di un paese. Si discuta dunque senza pregiudizi, e si prenda in
considerazione anche l’ipotesi che a dire l’ultima parola possa essere la Corte
costituzionale. Non ci si lasci ammaliare da sentenze e presunti “precedenti”
che riguardano casi molto diversi, perché con tutto il rispetto il Parlamento è
il Parlamento e le sentenze non sono temi a piacere. Se si dovesse trasformare
la Giunta del Senato da luogo della meditata ponderazione al teatro di un
plotone di esecuzione, il centrodestra avrà il suo dramma da affrontare ma
l’Italia non ne uscirebbe indenne. Tra calcoli meschini ed esiziali
superficialità, un sistema già sottoposto al limite dello stress, perché
privato da tre anni di una maggioranza eletta dal popolo, rischierebbe la
definitiva implosione con conseguenze incontrollabili. Gli indizi per fiutare
il pericolo si avvertono tutti: fra questi, il riaffacciarsi della tentazione
di attribuire virtù miracolistiche alla sola riforma della legge elettorale.
Come ci ha ricordato Giovanni
Orsina, l’ultima volta in cui le parti in
campo rifiutarono il coraggio di un alto compromesso, nel senso più nobile che
in un paese in crisi si possa attribuire a questo termine, quelle parti erano i
socialisti e i popolari e si era agli inizi degli anni Venti del secolo scorso.
Sappiamo com’è andata a finire. Evitiamo che la storia si ripeta, anche perché
la situazione dell’Italia è tale che il refrain non avrebbe nemmeno la levità
di una farsa. E, per dirla con uno che il drammatico trapasso a questa nostra
infelice seconda Repubblica l’ha conosciuto bene, a furia di aspettare il
nemico sulla riva del fiume si vedranno passare altri pezzi di ordinamento
costituzionale.
di Gaetano Quagliariello
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