Sono giorni che provo uno strano disagio. Dunque. Come ho raccontato decine
di volte, quattro anni fa mi sono messa a scrivere un libro mentre cercavo una
valida alternativa alla contemplazione delle macchie di muffa sul muro. Siccome
non sapevo che metterci, dentro questo libro, ho raccontato l’unica cosa che mi
stesse veramente a cuore, e cioè convincere le mie amiche del fatto che nonostante
tutto valesse la pena sposarsi. Potevo dirlo, e fino a quel momento lo avevo
detto alle mie amiche telefonando loro una ad una, proprio perché avevo avuto
anche io esattamente tutti gli stessi dubbi e tutte le stesse loro difficoltà.
Mio malgrado, dopo l’uscita del libro sono presto diventata una specie di
simbolo della battaglia a difesa della famiglia, una sorta di marmorea custode
di una rigida istituzione solida e incrollabile, una cristallina stentorea voce
in grado di risuonare sul caos. Sempre mio malgrado, non più una sorella delle
mie amiche in difficoltà come me, ma una che aveva tutte le risposte, non più
una che faceva fatica, ma una che si era lasciata la fatica alle spalle, non
più una che bussava a molte porte (cioè a Dio e ad alcuni santi, alcuni viventi
altri già canonizzati) per supplicare aiuto e misericordia e guida, ma una che
la guida la poteva offrire agli altri. Figuriamoci.
Però quando ti ci trovi, quando cammini
e ti volti indietro e ti accorgi che ci sono persone che ti stanno seguendo che
fai? Ti schermisci e dici “non seguitemi mi sono persa anch’io” perché
coltivare il dubbio si porta molto? O non cerchi piuttosto di incoraggiare chi
si fida di te, pur sapendo che continui a essere la stessa schiappa di prima,
quella squinternata che cerca aiuto ovunque, perché hai capito che l’aiuto che
ha funzionato per te può servire, evidentemente, anche ad altri?
Ecco dunque come è successo che mi sono
trasformata in una paladina con la spada fiammeggiante, pur non avendo il
fisico per il ruolo (ho i denti storti, i capelli a forma di asparagio, i piedi
grossi e il trucco sempre colato). Io volevo solo dire che valeva la pena
provarci, che la famiglia ha senso, che è un sistema imperfetto, ammaccato,
zoppicante, ma comunque il migliore possibile.
Il problema è che la
famiglia è sotto attacco, un attacco che non è mai stato così aggressivo e
dilagante nella storia dell’umanità, come ha ripetuto recentemente anche Papa
Francesco in uno dei discorsi ignorati dai più (evidentemente non è
piaciuto ai giornali – QUI il testo).
È sotto attacco, prima
ancora, la differenza stessa tra maschile e femminile, il fondamentale
meccanismo di funzionamento dei rapporti tra uomo e donna, due creature che,
pur parlando idiomi a loro stranieri, devono cercare di capirsi, e che in
questo sforzo di reciproca traduzione possono scoprire il mistero e la bellezza
di volersi bene veramente.
Questo attacco è
concentrico, e talmente vasto che non ce la posso fare a raccontarlo in tutte le sue
tappe.
Tutto, dalla cultura
mainstream alle leggi disegnate o approvate, dai film alla pubblicità, da
quella compatta uniforme carovana composta dal giornalista collettivo sembra
concordare: la teoria del gender ha vinto. L’irrilevanza della differenza tra
maschio e femmina, ritenuta un prodotto culturale e non una struttura profonda
ricevuta in dotazione, viene proclamata ovunque, con diverse gradazioni di
gravità. Dalla più opinabile gestione delle cose in casa, gestione che il
mainstream vuole totalmente paritaria (anche se un uomo contento di
organizzare una festicciola a casa per sedici ragazzini con caccia al tesoro
autoprodotta ci sarà pure ma io lo devo ancora conoscere) alla evidentemente
gravissima possibilità di adottare figli per coppie dello stesso sesso.
Nel mezzo c’è tutta una serie di problemi derivanti dall’irrilevanza di
maschile e femminile: per esempio un’assurda concezione del mondo del lavoro plasmato
sui maschi e nemico delle donne nella loro specificità, la maternità. Per
esempio la propaganda lgbt nelle scuole (i libri di testo sin dalle elementari
sono disseminati di messaggi subliminali, quando non sono un’aperta propaganda,
ho visto libri usati
negli asili nido – avete letto bene, nido – agghiaccianti), per
esempio una specie di polizia del linguaggio nelle redazioni, con il decalogo di parole che ci vorrebbero
vietate: dire “utero in affitto” in certi paesi tipo il Canada è già reato.
(Uteroinaffitto uteroinaffitto uteroinaffitto, lo dico quanto mi pare e lo dirò
sempre perché ricorda che per dare un bambino a due maschi, che un figlio non
lo possono avere, è stata usata una donna, per quanto a pagamento).
Di fronte a questa compatta aggressività
con cui si muovono i giganti Golia, noi Davide armati di fionda – incontri nei
teatri del centro o nelle parrocchie di periferia, blog, libri, social e poco
altro – noi che dovremmo vivere non so quanti anni per totalizzare sera per
sera parrocchia per parrocchia lo stesso numero di spettatori di una puntata di
Fazio, che possiamo fare? Continuare a tirare i nostri sassolini, a rischio di
renderci antipatici (io a volte mi sto antipatica e mi annoio da sola), a
rischio di essere quelli contro, di essere i “rosiconi”, quelli insopportabili
a cui ti verrebbe da dire “ma che vuoi, se la famiglia è bella tieniti la tua, e
non impedire a me di costruire la mia come mi piace”? Smettere di combattere e
cercare l’evangelizzazione per inseguimento, cioè solo con la testimonianza
della vita, di cui parla anche Papa Francesco?
È una domanda che mi faccio seriamente.
Una vera domanda. Anche perché me l’ha posta una persona che considero un
santo, e a cui voglio bene. Ho riflettuto per cercare di rispondere. Dunque,
cosa ho veramente a cuore io?
A me alla fine non interessa che venga
bloccata la legge Scalfarotto, figuriamoci, a me interessa la vita eterna, la
mia e quella delle persone a cui tengo prima di tutto, e poi delle altre, certa
come sono che cercando di conquistarcela avremo anche il centuplo quaggiù, cioè
saremo felici sin d’ora. Ai fini della vita eterna e del centuplo, dunque, è
meglio smettere di fare proclami e cercare “solo” (con mille virgolette, lo so
che non è poco, è moltissimo) di pregare e di vivere meglio che posso, perché di
ogni mia parola mi verrà chiesto conto? È meglio cercare di farmi “solo”
compagna di cammino di chi incontro? È meglio smettere di dire che Elton John
ha fatto una cosa crudele per ottenere quel bambino da tenere in braccio,
perché gli omosessuali hanno un legittimo desiderio di paternità o maternità
(tutti i desideri sono legittimi, il punto poi è il giudizio)? È meglio gridare
contro certi libri diffusi a scuola, o lasciare che i bambini vi siano esposti
facendo un lavoro di controinformazione a casa? Sono domande che mi faccio
davvero, che mi sono fatta. Io sono sempre quella di quattro anni fa, quella
che fa fatica, e che ha scritto cercando un’alternativa alla contemplazione
della muffa sul muro. Chi mi dà il diritto di pontificare? Chi mi fa sentire superiore
a qualcuno, tanto da potergli suggerire cosa fare? Non è meglio lasciar parlare
la mia allegria e il mio sorriso?
Io credo di no. Credo che non sia meglio
tacere, pur sapendo che siamo – ora sto pensando ai miei compagni moschettieri,
Padre Maurizio Botta, Mario Adinolfi e Marco Scicchitano – piccoli e poco
potenti (ma abbiamo un popolo che la pensa come noi). Per tre fondamentali
motivi, in ordine crescente di importanza.
Uno: non siamo più solo al discorso culturale, ma c’è l’urgenza di alcune leggi
che potrebbero essere approvate, e che come la 194 una volta passate
finirebbero per fare cultura (e io agli incontri pubblici parlo sempre anche di
quella sciagurata legge che continua a seminare morte, e anche fosse solo per
quello varrebbe la pena farli), e poi, dopo, sarebbe troppo tardi.
Due: si tratta di difendere i bambini e il loro diritto ad avere un padre
e una madre, e per difendere i bambini che sono i più deboli – da quando sono
concepiti fino a quando potranno difendersi da soli – vale la pena tutto,
perché mentre noi lasciamo parlare la bellezza delle nostre famiglie i disegni
di legge vanno avanti, cavalli di Troia, come li ha
definiti Bagnasco, per far passare una nuova cultura. È il consenso
quello che muove la politica, e la politica deve sapere che la maggior parte
della gente non aderisce a certe bandiere come quelle dei “diritti civili” (un
figlio comprato NON è un diritto civile).
Tre. Il motivo forse più importante. Io non so, non lo so veramente, se
sia sufficiente far parlare la bellezza del matrimonio. Perché questa bellezza
siamo sicuri che sia così evidente? Così forte da autoproclamarsi e
autodifendersi? Per la mia esperienza il matrimonio è bellezza, ma è anche
fatica. Altro che love is
love. L’amore è fatto anche di sangue e lacrime. L’amore è
sentimento ma è anche giudizio. È sentimento ma è anche un comandamento. È
sentimento ma è anche scelta, una scelta che a volte può andare addirittura
contro il sentimento, cosa che un tempo era integrata nel sentire comune, oggi
è totalmente inaccettabile. È alla fine la scoperta del limite nostro e
dell’altro, la decisione di perdonare l’altro del suo limite, e il bisogno
disperato di alzare lo sguardo a Dio che fasci le ferite e riempia i vuoti e risponda
alle attese. È dalla bruttezza quindi che viene la bellezza del matrimonio. È
dalla croce, ancora una volta, che viene la salvezza.
Ma prima bisogna starci. Accettare, aspettare, coltivare. Passare per la
fine del vino, aspettare che Gesù rimetta quello nuovo. Il matrimonio è una
cosa non umana, infatti i discepoli dicono che se le cose stanno così non
conviene sposarsi. Noi da soli non possiamo dire agli uomini che convenga.
Possiamo solo dire che è un’impresa nella quale vale la pena investire tutto,
buttarsi a corpo morto sperando di farcela ma non essendone affatto certi. Ma
crediamo che ci sia bisogno di qualcuno che ti dica la verità. Love is
not love. Love is God.
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