mercoledì 23 dicembre 2015

SANTO NATALE 2015

Giubileo della Misericordia

JACOPO DELLA QUERCIA
MADONNA DELLA MELAGRANA

Ecco la pace non più promessa, ma inviata,
non differita ma donata,
non profetata, ma offerta.

Ecco che Dio Padre ha inviato sulla terra
quasi un sacco pieno della sua misericordia:
un sacco ripeto che si deve rompere nella passione,
perché il nostro prezzo, che in lui è nascosto, si effonda;
un sacco che, anche se piccolo,
è certamente pieno.

Perché ci è stato dato un bambino
nel quale abita tutta la pienezza della divinità.


(San Bernardo, Epifania I, 2)

DIO BENEDICA GLI SLOVENI CHE INDOMITI RICONOSCONO L’ESISTENZA DELLA REALTÀ.


La Slovenia boccia le nozze gay (tutti zitti)
Il referendum irlandese fu un caso mediatico, ora la notizia è censurata

Il 22 maggio scorso i cittadini irlandesi hanno approvato con il 62 per cento dei voti il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Era la prima volta in un paese di tradizione cattolica, era la prima volta in cui uno stato approvava le nozze gay attraverso un referendum popolare. Non era certo la notizia a mancare. Infatti per giorni e giorni sui principali giornali mondiali, sulle tv e nei social media dominarono le informazioni, e soprattutto i festeggiamenti per l’avvenuta svolta civile e antropologica della ex cattolica Irlanda.


Bene. Domenica 20 dicembre, in Slovenia, un analogo referendum abrogativo ha bocciato con un altrettanto sonoro 63 per cento la legge che nel marzo scorso aveva equiparato il matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, consentendo anche l’adozione di bambini.



Ora, come sulla Settimana enigmistica, trovate la differenza.
 La differenza balza agli occhi, ed è questa: il vergognoso silenziatore – giusto la notizia in cronaca – imposto dalle maggiori testate italiane e internazionali a un avvenimento che ha una portata socio-culturale non trascurabile (anche il piccolo paese della ex Yugoslavia, come l’Irlanda, è a maggioranza cattolica).

Ma l’eccezionalismo culturale di un piccolo paese che allo Zeitgeist omossessualista si oppone, è evidentemente un fatto da censurare. Un blogger italiano, ospitato da un giornale di forti pulsioni populiste, è riuscito a scrivere: “Sappiamo benissimo che l’astensionismo premia le peggiori pulsioni di un paese”. Una bella idea della democrazia, chapeau. Ci sarebbe da dire che anche altri  paesi di “nuova democrazia” come la Croazia e la Slovacchia hanno recentemente scritto in Costituzione  che il matrimonio è l’unione di un uomo e di una donna. Ma che importa, farlo sapere?

da ilfoglio

martedì 22 dicembre 2015

PAROLA CHIARA : I CRISTIANI CREDONO IN CRISTO; I “CRISTIANISTI” NEL CRISTIANESIMO


La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo.
Brani di una intervista con Rémi Brague, tratta da “30 GIORNI” 10/2004, di Gianni Valente
Cattedrale di Chartres

Professore, partiamo da qui. Lei definisce i cristiani come coloro che credono in Cristo. I “cristianisti”, invece, sono quelli che esaltano e difendono il cristianesimo, la civiltà cristiana…
RÉMI BRAGUE: La parola “cristianista” forse non è molto carina. Ma non mi dispiace averla proposta. Prima di tutto perché è divertente. E poi perché spinge le persone a riflettere su ciò che vogliono veramente. Quelli che difendono il valore del cristianesimo e il suo ruolo positivo nella storia mi sono di certo più simpatici di quelli che lo negano. Io non intendo certo scoraggiarli. Mi piacerebbe persino che in Francia fossero più numerosi. E questo non perché costoro siano degli “alleati oggettivi”. Ma soltanto perché quello che dicono è vero. Dunque, grazie ai “cristianisti”. Soltanto, io vorrei ricordare loro che il cristianesimo non si interessa a sé stesso. S’interessa a Cristo. E anche Cristo stesso non s’interessa del proprio io: Lui s’interessa a Dio, che chiama in un modo unico, «Padre». E all’uomo, a cui propone un nuovo accesso a Dio. 

In una certa valorizzazione del cristianesimo in chiave ideologico-culturale non si riaffaccia l’approccio già manifestatosi ai tempi dell’Action française?
BRAGUE: L’Action française, dopo la Prima guerra mondiale, aveva potuto attirare dei cristiani autentici e intelligenti: Bernanos, per esempio. Ma l’ispirazione ultima del movimento era meramente nazionalista. La Francia era stata plasmata dalla Chiesa. Per questo loro si dicevano cattolici, perché si volevano francesi al cento per cento. Il loro principale pensatore, Charles Maurras, era un discepolo di Auguste Comte; ammirava la chiarezza greca e l’ordine romano. Si dichiarava ateo, ma cattolico. La Chiesa era per lui una garanzia contro «il veleno giudeo del Vangelo». Al fondo, era un’idolatria, nel suo aspetto peggiore: mettere Dio al servizio del culto di sé stessi. Che si tratti dell’individuo o della nazione, la sostanza non cambia. E agli idoli bisogna sempre sacrificare qualcosa di vivo, come la gioventù europea, massacrata a Verdun o altrove. 

 
Chartres :Gesù risorto e Maria Maddalena
Si discute molto delle radici cristiane dell’Europa e più in generale della civiltà occidentale. Come giudica la loro lettura di questo rapporto?
BRAGUE: Il cristianesimo non ha niente d’occidentale. È venuto da Oriente. I nostri avi sono diventati cristiani. Hanno aderito a una religione che all’inizio era per loro straniera. Le radici? Che immagine strana... Perché considerarsi come una pianta? In gergo francese, “piantarsi” vuol dire sbagliarsi, o fare un errore… Se si vogliono a ogni costo delle radici, allora diciamo con Platone: noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, non si può afferrare, sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola. E noi siamo anche animali mobili. Il cristianesimo non è riservato agli europei. È missionario. Crede che ogni uomo abbia il diritto di conoscere il messaggio cristiano, che ogni uomo meriti di diventare cristiano.

Lei, attraverso i suoi studi e i suoi libri, ha descritto il rapporto innegabile tra il cristianesimo e la civiltà europea. Come andò veramente?
BRAGUE: La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Pensate a papa Gregorio Magno. Ciò che lui ha creato – ad esempio il canto gregoriano – ha sfidato i secoli. Ora, lui immaginava che la fine del mondo fosse imminente. E dunque, non ci sarebbe stata alcuna “civilizzazione cristiana”, per mancanza di tempo. Lui voleva soltanto mettere un po’ d’ordine nel mondo, prima di lasciarlo. Come si rassetta la casa prima di partire per le vacanze. Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi. Ma serve molto tempo per rendersene conto e per realizzare questo nei fatti. Per questo, forse, noi siamo solo all’inizio del cristianesimo.

Nel dibattito sulle radici cristiane dell’Europa cosa l’ha colpita? 
BRAGUE: Nel dibattito sulla citazione nella Costituzione europea delle radici cristiane dell’Europa, avrei voglia di non dar ragione né ai “cristianisti” né ai loro avversari. Cominciamo dai loro avversari. Direi loro: se si vuole fare della storia, allora bisogna chiamare le cose col loro nome, e dire che le due religioni che hanno segnato l’Europa sono l’ebraismo e il cristianesimo, e nessun’altra. Perché limitarsi a parlare di eredità religiosa e umanista? Un professore di storia non si accontenterebbe di tale definizione e scriverebbe in rosso, sul margine: «Troppo vago, precisate!». Ciò che mi dà fastidio è lo stato d’animo che in questo si manifesta, e cioè l’impulso tipicamente ideologico di negare la realtà e riscrivere il passato. E negare la realtà porta necessariamente a distruggerla. Allo stesso tempo, ai “cristianisti” direi: non è perché il passato è stato quello che è stato che l’avvenire gli debba necessariamente rassomigliare. La domanda giusta da porsi è se la nostra civiltà ha ancora il desiderio di vivere e di agire. E se, piuttosto che circondarla di barriere di ogni sorta, non sarebbe meglio che gli fosse ridonato questo desiderio. Per questo occorre attingere alla sorgente stessa della vita, alla Vita eterna. 

Sant’Agostino, a chi gli chiedeva perché Gesù risorto non si era manifestato anche ai nemici, in modo da cancellare ogni dubbio sulla realtà della Sua resurrezione, rispondeva che per Gesù «era più importante insegnare l’umiltà ai suoi amici che sfidare con la verità i suoi nemici». Cosa suggerirebbe oggi Agostino a chi parla della testimonianza cristiana in termini di sfide?

BRAGUE: Non inganniamoci su quello che vuole il Dio di Gesù Cristo. Non è quello che noi, noi vogliamo. Ciò che vuole non è schiacciare i suoi nemici. Ma liberarli da ciò che li rende suoi nemici, cioè una falsa immagine di Lui, quella di un tiranno al quale bisogna sottomettersi. Lui, essendo libero, non si interessa che alla nostra libertà. Cerca di guarirla. Il suo problema è di montare un dispositivo che permetta di veder risanata la libertà ferita degli uomini, così da poter scegliere liberamente la vita, contro tutte le tentazioni di morte che si portano dentro. Questo dispositivo i teologi lo chiamano “economia della salvezza”. Ne fanno parte le Alleanze, la Chiesa, i sacramenti, e via dicendo. Il ruolo delle civilizzazioni è indispensabile, ma non è lo stesso. E anche i loro mezzi sono differenti. Esse devono esercitare una certa costrizione, fisica o sociale. La fede invece può solo esercitare un’attrattiva sulla libertà, per la maestà del suo oggetto.
 Forse si potrebbe tornare a ciò che i papi dicevano agli imperatori d’Occidente, intorno alla riforma gregoriana, nell’XI secolo: non compete a voi la salvezza delle anime, contentatevi di fare il meglio possibile il vostro mestiere. Fate regnare la pace.

http://www.30giorni.it/articoli_id_4666_l1.htm

lunedì 21 dicembre 2015

AVERE UN FIGLIO CON UNA MADRE SURROGATA E’ FACILE; OCCORRONO ALMENO 135 MILA EURO


«La mamma sei tu lei è la portatrice. E sei tu che decidi tutto, anche se farla abortire. La legge ha più volte stabilito che lei non ha alcun diritto». Qui un figlio costa 135 mila euro

 Monica Ricci Sargentini DA ILCORRIEREDELLA SERA

Prendere un appuntamento per avere un figlio con una madre surrogata è facile. Sul sito California Premium Surrogacy si clicca su «genitori intenzionali» e si compila un modulo in cui si forniscono nome, cognome, email, accompagnati da un breve messaggio. La risposta arriva entro poche ore. La mattina dopo ci presentiamo alla Santa Monica Fertility Clinic nell’omonimo boulevard di questa cittadina baciata dal sole dove ogni desiderio sembra a portata di mano.
«Buongiorno Monica sono Julie Webb, la coordinatrice dei pazienti, sono contenta che tu sia venuta a trovarci dall’Italia». Capello corto, viso acqua e sapone, abbigliamento casual, ci fa fare il giro della clinica, un appartamento a pian terreno dall’aspetto modesto ma confortevole: «La comodità — dice — è che facciamo tutto qui, dal pick up degli ovuli della donatrice al transfer dell’embrione nell’utero della portatrice. Voi non dovete preoccuparvi di nulla, pensa a tutto il dottor Jain. Se non potete venire dall’Italia possiamo sentirci su Skype. Se al momento del parto avete un impedimento andiamo in clinica io e l’avvocato per prenderci cura del neonato».
Ma la mamma surrogata potrebbe cambiare idea e tenersi il bambino? «La mamma sei tu — precisa Julie — lei è la portatrice. E sei tu che decidi tutto, anche se farla abortire. La legge ha più volte stabilito che lei non ha alcun diritto. Sarà scritto tutto nel contratto che firmerete con l’avvocato. Una volta fatto l’accordo si va dal giudice e si fa un atto di prenascita così è già chiaro che siete voi i genitori. Il bimbo, se volete, avrà la cittadinanza americana». A 51 anni è impossibile pensare di usare i propri ovuli, e così scorriamo insieme i profili delle donatrici di ovuli.
Ce ne sono di tutti i tipi: bionde, brune, ricce, lisce, nere, asiatiche, bianche. Nella scheda sono segnate età, altezza, peso, colore degli occhi, scuole frequentate, voti ottenuti, passioni e hobby. C’è persino la storia clinica della famiglia. «Le nostre ragazze hanno fatto tutti i controlli medici possibili. Potete stare tranquilli» dice la coordinatrice. Chiediamo consiglio sul profilo da scegliere dal catalogo: «Dovrebbe essere una donna il più possibile vicina ai miei tratti somatici, giusto?». Scuote la testa: «Dipende dai gusti. Ognuno fa come vuole. Mi ricordo una paziente cinese che ha scelto ovuli di una donna bianca».
E quando nasce il bimbo cosa succede? Potremo portarlo subito via? Dovrà stare con la surrogata qualche giorno? «Decidi tu — spiega Julie — puoi stare nella stanza accanto e ti portano il bambino. Se vuoi la surrogata si tira il latte e tu glielo dai col biberon, i primi giorni fa bene al piccolo perché c’è il colostro e anche a lei perché tirandosi il latte aiuta l’utero a tornare a dimensioni normali».
Quanto ci vuole per trovare la surrogata giusta? «Dipende! Le nostre sono tutte della zona, facciamo uno screening accuratissimo, andiamo a vedere dove vivono, come mangiano, controlliamo la fedina penale e poi le sottoponiamo a screening psicologi. Siamo molto, molto severi per evitare sorprese dopo. Solo il 10% delle domande viene accettata». Ma perché lo fanno? «Beh è un gesto ben visto dalla società perché è altruistico, per aiutare una coppia in difficoltà e poi chiaramente per i soldi che per legge non devono servire a sopravvivere ma a stare meglio. Una surrogata non può essere senza casa o dipendente dai sussidi dello Stato».
I tempi per la procedura non sono biblici. Se accettiamo, a febbraio potremo fare il primo transfer e il bambino potrebbe arrivare entro la fine del prossimo anno. «Io ho già una portatrice ready to go — spiega Julie con un mezzo sorriso — che se dovessi fare io questo percorso prenderei subito. È lesbica, molto coscienziosa ma non ansiosa. Perfetta secondo me. È alla prima gravidanza surrogata ma ha già due figli suoi. Tieni conto che le surrogate che l’hanno già fatto costano di più, vedi qui sul catalogo c’è scritto premium vuol dire che sono le più gettonate. Molti preferiscono una portatrice lesbica perché non ha rapporti sessuali con penetrazione e in gravidanza è sempre meglio evitare».
Parliamo di soldi che sono in tre tranche. Per la donazione di ovuli ci vogliono quasi 40mila dollari. Per la madre surrogata si parte con 58mila cui si devono poi aggiungere altri 77mila per un totale di 135mila dollari. La portatrice prende un compenso a ogni passo: alla prima iniezione, al transfer, alla conferma del battito, per i viaggi, per i vestiti e una paghetta mensile. In tutto nelle tasche della donna entrano 40mila dollari. Il colloquio dura un’ora, non ci viene chiesto perché facciamo questa scelta, né se abbiamo figli. Mentre ci accompagna alla porta Julie sembra soddisfatta «Sono molto eccitata per voi che state iniziando questo percorso».
Due minuti dopo arriva l’email con la password per scegliere la donatrice di ovuli.
 -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Dispiace, ma davvero dispiace, che commentando questa foto non uno (e dico non uno) abbia avuto una parola per lo sguardo perso della madre e per il dolore del bimbo che, appena venuto al mondo (come sa chiunque abbia avuto figli) cerca solo il contatto con la madre e il suo seno.
 La violenza a suon di denari commessa contro quella donna e quel bimbo è priva di alcun senso. Si mercifica la maternità, si umilia la donna, si rende un bimbo oggetto di compravendita. Mi batterò tutta la vita per il diritto dei più deboli: qui, la donna e il neonato. (Mario Adinolfi)
Bj Barone e Franckie Nelson con Milo, nato da utero in affitto, fotografati da Lindsay Foster (DA Ilfatto quotidiano, 5 luglio 2014)


domenica 20 dicembre 2015

LA NON NOTIZIA IN QUESTI TEMPI

L'inizio dell'anno della Misericordia indetto dal Papa sembra una non notizia in mezzo alle notizie roboanti di guerre, attentati etc.

Il Giubileo, anzi, sembra solo far notizia - sui nostri media malati- in quanto possibile teatro di attentati.

Piero della Francesca
Madonna della Misericordia
Ma questa "notizia non notizia" questa parola che è divenuta un brusio, un canto, una parola rilanciata da mille sentinelle, un suggerimento che arriva nei luoghi più disparati. Una parola altra da potere, da guerra, da strategia. Una parola diversa da tutte le parole. Che hanno mostrato la corda, che hanno mostrato in questi anni di cadere, di valere poco, di provocare effetti contrari a quel che indicavano.

Una parola diversa da integrazione, diversa da missione militare di pace, diversa da ONU, diversa da tutte quelle che pensiamo possano mettere a posto il mondo.

La parola misericordia, "cuore rivolto ai miseri", indica il mistero di Dio. Buono come e quanto gli pare con i suoi figli, i miseri, noi.

La misericordia ci parifica in fratelli veramente, in miseri, bisognosi di un cuore vicino. Indica l'altra unica ipotesi possibile. O le strategie dell'homo homini lupus, o la pazienza e la meraviglia d'essere fratelli.

Ci sono molti segni di misericordia in giro. Sono quelli i nostri baluardi contro la guerra. Quella di ogni tipo.
Davide Rondoni
da ClanDestino Zoom


sabato 19 dicembre 2015

"CHI SONO IO PER GIUDICARE UN GAY?" .....UN GIORNALISTA DELL'ESPRESSO

 | 16 Dicembre 2015

Alla celeberrima domanda di Papa Francesco stanno rispondendo in tanti, in questi giorni: tutti pronti a giudicare malissimo, e senza appello, i gay. Però stavolta contro questi giudizi malevoli e sprezzanti non si alza nessuna voce, nessuno Scalfarotto che protesti, nessun Vecchioni che si schieri. Il punto è che, nel caso di cui parliamo, si tratta di omosessuali che non appartengono alle lobby che si sono autoproclamate rappresentanti di tutte le persone omosessuali,  che cercano, con arroganza, di intimidire, in nome della propria diversità, chiunque sia diverso da loro.

Accade semplicemente che non tutte le persone omosessuali siano entusiaste dei vari Arcigay e Casseri e circoli Mieli che proliferano nel paese: c’è chi addirittura vorrebbe, come omosessuale, vivere da cristiano, proprio come dice Papa Francesco, che nella sua frase – riportata per intero – affermava: “Ma si deve distinguere il fatto che una persona è gay dal fatto di fare una lobby. Se è lobby, non tutte sono buone. Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Il catechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte”. Ecco, è successo che – udite udite – alcuni preti, e addirittura qualche vescovo, abbiano fatto propria l’indicazione di Papa Francesco, ed abbiano accolto persone omosessuali che si sono rivolte a loro, perché vogliono vivere da cristiani.

Una decisione personale e privata, di singoli cittadini che valutano e scelgono liberamente; spieghiamo, per essere sicuri di essere compresi da tutti, che si tratta di persone omosessuali che vogliono esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione, e che, invece di sfilare in piazza con piume e paillettes, far celebrare il proprio matrimonio dal sindaco Marino, o andare in Ucraina per diventare padri ricorrendo all’utero in affitto, preferiscono ritrovarsi insieme per parlare e pregare, e per fare questo preferiscono addirittura rivolgersi a un prete cattolico piuttosto che ai dirigenti di Arcigay.

BOSCH, le delizie dell'inferno
Questa faccenda risulta intollerabile ai sedicenti paladini dei diritti civili e ai democratici sostenitori delle libertà di alcuni (ma non di tutti). Un giornalista dell’Espresso si è quindi intrufolato sotto falsa identità in uno di questi gruppi (gemmati dall’associazione americana “Courage”), e ha pubblicato un articolo sullo svolgimento degli incontri, dimostrando per l’ennesima volta – se ancora ce ne fosse bisogno – la palese inutilità dell’esistenza di quella istituzione chiamata Garante della privacy.

Il giornalista-infiltrato usa toni sprezzanti e offensivi, che descrivono il gruppo come “un mix di fanatismo, auto-punizione e tecniche mutuate dai gruppi di alcolisti”, e che  vanno inevitabilmente a colpire le persone omosessuali che a questi incontri partecipano per decisione libera e volontaria: sono descritti come persone plagiate, confuse, sostanzialmente inconsapevoli di quel che sta loro succedendo, persone la cui libera scelta non vale quanto la libera scelta altrui, perchè “sfidando il buonsenso e facendo leva sul proprio credo, i partecipanti si sottomettono con pignoleria alle indicazioni della congregazione per la dottrina della fede”.

Un manipolo di sprovveduti, insomma, questi omosessuali cristiani, pronti a farsi turlupinare da preti retrogradi e ovviamente sessuofobici. Vuoi mettere il coming out del fighissimo ex Mons. Charamsa, che chiaramente il giornalista propone come contraltare – nel senso letterale del termine. Ad andarci di mezzo è stato anche il vescovo di Reggio Emilia, Mons. Camisasca, chiamato in causa perché uno dei gruppi dell’associazione incriminata si trova nella sua città.

“Il vescovo - si legge in una nota della diocesi - conosce la realtà di Courage da un anno perchè alcuni uomini con orientamento verso persone dello stesso sesso, si sono a lui rivolti per essere aiutati a vivere nella preghiera, nella meditazione della sacra scrittura e nella castità. ". Courage, aggiunge Camisasca, "non intende essere una terapia riparativa e non chiede a nessuno di aderire a tali terapie. È un aiuto a vivere secondo quanto espresso dal catechismo della chiesa cattolica e dalla tradizione della chiesa". Le reazioni di alcune associazioni gay locali, come “La Gioconda” di Reggio, sono quelle che ci si aspetta, con l’accusa al vescovo di “trascinare la nostra città in pensieri cupi e malati”.

Per le persone omosessuali così violentemente intimidite, per la loro sensibilità, non c’è un pensiero, come non c’è una parola di dubbio sul trattamento che è stato loro riservato. E’ solo il vescovo che se ne preoccupa, sottolineando che "addolora che libere persone che si trovano a pregare siano violate così pesantemente nella loro privacy di cittadini italiani". Suona sempre più forte l’allarme per la libertà di parola, di pensiero e di associazione nel nostro paese, con un’ultima domanda: con la legge Scalfarotto (approvata alla Camera ma per ora incagliata al Senato), gli omosessuali che si ritrovano in queste associazioni, sarebbero puniti come omofobi?


martedì 15 dicembre 2015

L’ANTIPOLITICA CATTOLICA


Quei cristiani “più buoni di Gesù” che lo ostacolano
DI ANDREAS HOFER DAL BLOG DI COSTANZA MIRIANO

C’era da aspettarselo. In tempi come i nostri, carichi di strisciante antipolitica, sono tornati di moda facili slogan tesi a contrapporre l’impegno politico – o prepolitico – alla testimonianza personale.
Opporsi alle leggi ingiuste non soltanto è inutile, si dice: è anche antievangelico. Bisogna prima curarsi della salute dell’anima. Solo così, testimoniando la bellezza della fede, potremo persuadere gli increduli. La battaglia culturale, quando non è dannosa, è inutile. Anzi, l’idea stessa che si debba battagliare è una contraffazione del genuino spirito cristiano.
Peccato solo che così facendo si cada direttamente nella negazione di una qualsiasi presenza politica, o anche solo genericamente civile o culturale. Questo almeno in democrazia, dove una certa dose di conflitto è inevitabile. Solo negli stati totalitari la discordia delle volontà – e di conseguenza il disordine – deve essere repressa. Anzi, più che repressa. Deve assolutamente scomparire.
Pensare che un cristiano in politica non possa né debba entrare in conflitto con qualcuno equivale ad escludere dalla democrazia la possibilità di una presenza politica di e da cristiani. Stralciare anche la sola eventualità di una polemica vuol dire abbracciare una posizione tipicamente antipolitica.
Chagall, Io e il mio paese, 1912
Da dove viene dunque questa ondata di antipolitica cattolica?

Nell’ormai lontano 1978 Alain Besançon ha descritto, nel suo libro La confusione delle lingue, la progressiva diffusione nella cattolicità di uno stato d’animo romantico, con i suoi inevitabili corollari: la preminenza del sentimentalismo, il disprezzo per la ragione analitica, una spiritualità evanescente che si compiace di stati d’animo. Come si vede, non siamo poi distanti da una mentalità venata di quietismo, la dottrina spirituale che voleva privilegiare la vita interiore a scapito di qualsiasi altra attività umana. La sua origine viene ordinariamente fatta risalire alle opere di Miguel de Molinos (1628-1696), sacerdote spagnolo severamente condannato nel 1687 da Innocenzo XI.
Sono le linee essenziali della posizione antipolitica per eccellenza. Non a caso è anche quanto caratterizza quello che il giurista Carl Schmitt definiva «romanticismo politico». Il politico romantico è essenzialmente sprovvisto della più elementare virtù politica: la prudenza, quella virtù che rappresenta il punto d’incontro tra la vita morale e la vita reale. La politica romantica spicca per l’incapacità di stabilire un contatto efficace tra la propria razionalità sentimentale e la realtà obiettiva.
Finisce così per coltivare una sterile oratoria, scadendo nel sentimentalismo più umorale e in un miscuglio di ingenuità e ignoranza. Il politico sedotto dal romanticismo non fa più politica. Fa molto peggio: fa della retorica romanzata sulla politica. Ovvero la peggiore forma di impoliticità o, come diremmo oggi, di antipolitica.
Alla linea romantica Besançon vedeva connaturati alcuni elementi ormai divenuti caratteristici di un certo milieu cattolico.
Il primo tra questi è il rifiuto d’avere nemici. Secondo questa prospettiva è atteggiamento più evangelico negare che la Chiesa ne abbia, come se il precetto dell’amore per il nemico non presupponesse quantomeno l’esistenza di un nemico (come si può amare ciò che nemmeno esiste?).
Da qui discende quell’atteggiamento per il quale, anche istintivamente, senza piena consapevolezza, è imperativo accantonare ogni idea di lotta, a cominciare dal bonum certamen paolino. Causa principale della surreale rimozione della categoria del nemico, sostiene Besançon, è una sorta di “supercristianesimo” al quale sta stretta la classica distinzione tra peccato, da combattere, e peccatore, da amare. A un cristianesimo tanto “puro”, che si presume “più buono” perfino di Gesù stesso, non basta più amare il peccatore. È troppo poco. Occorre amare anche il peccato.

A dire il vero, non è che un simile “supercristianesimo” cancelli davvero la categoria del nemico: piuttosto la trasferisce ad intra. Il ragionamento è questo: non esistendo alcun nemico reale – dato che non può esistere – ne consegue che la categoria del nemico non può che essere puramente immaginaria. Il “nemico” è una creazione ad arte, è un fantoccio suscitato dalla cospirazione di alcuni cinici politicanti, che se ne servono allo scopo di catalizzare un consenso elettorale. Unificare una massa sconnessa è possibile solo a condizione di usare l’odio come fattore di coagulo. Occorre perciò additare alle masse un “nemico immaginario”, innalzare un feticcio contro il quale indirizzare l’aggressività della folla e poter così guadagnare potere su di essa.

Nella nuova tavola dei valori del supercristianesimo il vero avversario, come confesserà Augusto Del Noce a Vittorio Messori, rischia di diventare perciò “l’integralista”, cioè colui che è solito intendere e vivere la fede non come un vaporoso sentimento, ma come guida e prospettiva per la sua concreta attività.
Ma agire e muoversi nella polis, come abbiamo visto, non può non portare a scontrarsi prima o poi con qualche forma di inimicizia. E un politico senza avversari politici non esiste, ancora una volta, se non nei regimi più oppressivi e soffocanti.
L’integralista – o meglio il soggetto identificato come tale – diventa un capro espiatorio che è lecito accusare di ogni genere di nefandezza: di essere al soldo dei poteri mondani come di essere un allucinato Don Chisciotte ossessionato da mulini a vento fittizi. È logico: chi corre dietro a un “nemico immaginario” non può ch’esser pazzo o in malafede.
È come se avessero preso forma visibile le parole pronunciate da Joseph Ratzinger in una storica omelia del 2005: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo». Può testimoniarlo chiunque abbia sperimentato – sui social network, ad esempio – il vero e proprio odium theologicum sprizzato dai commenti velenosi di cristiani che pure amano presentarsi come uomini e donne del “sì” e del “dialogo”. Un risentimento quasi inestinguibile, perché ammantato di “profezia” e di sacro furore. A sentire certi “dialoganti” questo livido “holy bombing” si giustifica per essere stato fatto, per dirla con le autorevoli parole di Elio e le Storie Tese, nel segno dell’amore. Del resto è impossibile convincere del contrario chi sembra identificarsi con le ragioni stesse del bene.


CONTINUA LA LETTURA

sabato 12 dicembre 2015

PERFIDE E CODARDE


Quelle femministe che boicottano Israele ma sono silenti sui crimini sessuali dell’Isis

La National Women’s Studies Association vota per il boicottaggio delle colleghe israeliane e delle istituzioni dello stato ebraico. Ma si guarda bene dal condannare le atrocità perpetrate sulle donne musulmane da Hamas, Isis, Boko Haram, talebani

di Giulio Meotti | 11 Dicembre 2015 ILFOGLIO

Se non ora quando, verrebbe da chiedersi.
Quale nemico migliore dello Stato islamico da condannare nella più grande assise di femministe del nord America, quell’Isis che rapisce, vende e stupra le donne sotto il suo controllo, che le ingabbia sotto il burqa e le usa come carne da cannone nelle operazioni suicide?

E se il califfo al Baghdadi non scalda abbastanza la platea militante delle femministe, perché non denunciare i crimini contro le donne nella teocrazia iraniana, dove sono proibite le unghie lunghe, le gemme nei denti, i cappottini stretti, i foulard che lasciano uscire lunghi ciuffi di capelli e gli stivali con i tacchi sopra ai pantaloni?

Ovviamente no.
La National Women’s Studies Association ha scelto un nemico ben più appagante e meno pericoloso: lo stato di Israele.
L’unico paese del medio oriente dove le donne occupano una posizione di prestigio in politica, nella cultura, nelle attività sociali, da Golda Meir a diversi premi Nobel fino a Tzipi Livni, leader dell’opposizione.
E se si dovesse varcare la linea del 1967 basta chiedere alle donne palestinesi se stiano meglio a Ramallah o a Riad.
Eppure, le femministe della National Women’s Studies Association hanno votato il boicottaggio delle colleghe israeliane e delle istituzioni dello stato ebraico. Come ha detto la professoressa Simona Sharoni a Inside Higher Ed, “il 90 per cento dei membri della National Women’s Studies Association ha votato la risoluzione”.

“Il voto è un tradimento della realtà e delle donne, specialmente delle donne che vivono sotto la sharia”, dice al Foglio Phyllis Chesler, settantenne madrina del femminismo americano dall’alto delle milioni di copie vendute di “Le donne e la pazzia”, caposaldo della letteratura femminista degli anni Settanta.
“L’associazione non condanna le atrocità perpetrate sulle donne musulmane da Hamas, Isis, Boko Haram, talebani. Nulla sulla natura pervasiva della mutilazione genitale femminile o il matrimonio infantile nel mondo arabo-islamico. Nulla sul terribile destino delle donne che osano scegliersi i mariti. Israele non è un paradiso femminista, ma le donne si battono per i loro diritti e se le nostre controparti femministe facessero lo stesso alla Mecca, Mogadiscio, Teheran, Islamabad e Kabul, sarebbero incarcerate, stuprate, torturate, decapitate o lapidate.
Le femministe hanno scelto thanatos su eros, timorose delle accuse di ‘razzismo’ e ‘islamofobia’. Sono codarde e conformiste nella loro perfidia.

Ci sono femministe che trovano allucinante l’apartheid di genere dell’islam ma hanno paura di dirlo e di perdere la reputazione, gli amici, il lavoro”. E’ stato un imprenditore ebreo canadese, Steve Maman, a salvare centinaia di ragazze yazide dalla schiavitù sessuale dello Stato islamico. E’ il paradosso indicato da Phyllis Chesler: “Sono stati i cristiani, non le femministe, a salvare queste ragazze dall’Isis”.

E’ il paradosso di femministe scatenate contro l’oscurantismo cattolico sulla donna ma supine sulla soumission della donna musulmana, teoriche dell’unisex ma anche del velo islamico come “emancipazione”, boicottatrici dell’“occupazione” di Israele che si inginocchiano, silenti, di fronte all’occupazione dei corpi delle donne nel mondo arabo-islamico. Sono le migliaia di yazide bionde segregate legate al letto del califfo a chiederlo alla National Women’s Studies Association che boicotta Israele e non i crimini islamisti: se non ora quando?
Non hanno scelto di dare in affitto il loro utero.


giovedì 10 dicembre 2015

UNA “BELLEZZA DISARMATA” A SFIDARE L’UOMO E IL MONDO


IL RIANNUNCIO DEL CRISTIANESIMO:ROBI RONZA LEGGE IL LIBRO DI CARRON


Nell’ambito del processo di riannuncio del cristianesimo al tramonto dell’età moderna, che iniziò con John Henry Newman alla fine del secolo XIX,  l’importanza di Luigi Giussani (clicca qui) e della sua opera sono un fatto obiettivamente indiscutibile. Nella lettera che nel 2002 gli inviò in occasione del 20° anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione, Giovanni Paolo II aveva scritto a Luigi Giussani che il movimento da lui fondato sa indicare «non una strada, ma la strada» all’incontro con Cristo: ha insomma  una specifica capacità di riannuncio del fatto cristiano tout court nell’arduo contesto dell’epoca post-moderna in cui viviamo.

Già nel 1977, nel presentare la traduzione tedesca della prima edizione del libro-intervista di Luigi Giussani (attualmente edito da Rizzoli, nella successiva edizione accresciuta, col titolo Il Movimento di Comunione e Liberazione, 1954-1986), Hans Urs von Balthasar, figura di primo piano nella storia della teologia e della filosofia del secolo XX, aveva scritto che  «fra i movimenti ecclesiali dell’Europa di oggi», Cl è «senza alcun dubbio quello che possiede die stärkeste spirituelle Stosskraft, la più potente forza d’urto spirituale». Alla luce di questi straordinari riconoscimenti diventa perciò quanto mai importante che Cl non si perda per strada, e c’è sempre molto da fare per questo. 

La campagna di disinformazione e di discredito di cui il movimento è così spesso oggetto appare tuttavia così sproporzionata rispetto alle sue colpe da indurre a qualche sospetto. Non lo si discute, come sarebbe legittimo e anche positivo; lo si discredita e basta. Al discredito è stato senza dubbio dato qualche pretesto, come venne a suo tempo anche autorevolmente riconosciuto. Troppo spesso sembra però che si voglia cogliere al volo l’occasione per mettersi alle spalle un annuncio cristiano testimoniato in forme che non consentono di liberarsene semplicemente bollandolo come astratto o arcaico. La disinformazione invece è senza scuse, anche se di certo non soltanto Luigi Giussani e Cl ne fanno le spese. Essendo, infatti, il sistema massmediatico non solo italiano, ma internazionale complessivamente orientato contro l’esperienza religiosa in genere, e contro quella cristiana in particolare, dell’intera Chiesa in ogni sua espressione esso dà di regola un’immagine distorta. 

Spaccia il fatto cristiano come un indifendibile retaggio oscuro del passato che però può salvarsi se si trasforma in un sostegno docile e bonaccione del lato “benevolo” della modernità. Il primo e maggiore esempio di tale distorsione è l’eco mediatica sempre filtrata e distorta del magistero di papa Francesco.

In questo quadro, a che cosa mira La bellezza disarmata, il saggio che Julián Carrón, successore di Luigi Giussani alla guida di Cl, ha recentemente pubblicato? Se abbiamo capito bene mira da un lato, scavalcando la nube dei pregiudizi e dei fraintendimenti che l’avvolgono, a riproporre all’opinione pubblica il movimento di Cl per quello che è, ossia un luogo di riannuncio e di educazione alla fede, e nient’affatto una semplice forza sociale né tanto meno una forza politica. Dall’altro a sollecitare i “ciellini” a riscoprire il proprium della visione e del metodo che  caratterizzano il movimento.  

Sacerdote e teologo, Julián Carrón è, per indicazione dello stesso Luigi Giussani, il suo primo successore alla guida di Comunione e Liberazione. Ipso facto chi succede a un fondatore non è fondatore egli stesso. Pur se condivide con tutto il cuore l’opera che è chiamato a continuare, per definizione non può ereditare quella che si potrebbe definire l’autorevolezza specifica del fondatore. A lui è tuttavia più vicino di chiunque altro: perciò può accadere che ci si aspetti dal primo successore quanto poi non ci si attenderà da quelli che lo seguiranno. Il suo è perciò inevitabilmente un compito tanto impegnativo quanto per certi versi drammatico. Studioso e autore, Carrón, succeduto a Luigi Giussani alla sua morte nel 2005, in questi dieci anni ha predicato, ha preso la parola in convegni e congressi, ha scritto articoli, ha rilasciato interviste, ma non ha pubblicato libri. 

La bellezza disarmata, su cui ci soffermiamo qui dopo esserci presi il tempo che ci è stato necessario per leggerlo e studiarlo attentamente, è dunque la prima eco sistematica di questi suoi dieci anni alla guida di Comunione e Liberazione. Pubblicato da Rizzoli nello scorso settembre, il libro, quasi 340 pagine di testo, prende le mosse da un certo numero di lezioni e di altri interventi indicati in calce come fonti, ma non è una semplice raccolta di scritti d’occasione. In particolare per ciò che concerne le prime due delle quattro parti in cui si articola, lo si può ben considerare un testo ex novo. Beninteso, La bellezza disarmata non è di certo una… comunicazione interna. Come nella prefazione scrive Javier Prades, rettore dell’Università San Damaso di Madrid, con questa sua opera Carrón mira a dare il contributo di una sua risposta alla domanda: «che cosa sta accadendo agli europei? E, in particolare, che cosa sta accadendo ai cristiani europei?»; una risposta insomma alla crisi dell’Europa che, per il ruolo culturale centrale che il nostro continente conserva anche nel mondo globalizzato di oggi, si riflette poi ovunque.  

Sulla base degli scritti e della sua personale memoria di Luigi Giussani, che egli cita largamente, e anche sulla scorta di interventi di altri tra cui in primo luogo l’allora cardinale Joseph Ratzinger, Julián Carrón inizia osservando che nel nostro tempo è giunta al diapason la crisi che Giussani aveva così acutamente preconizzato. Di qui il crollo di quei valori che l’Illuminismo aveva creduto di poter far vivere anche staccandoli dalla loro radice cristiana e quindi la perdita di fondamenti che è ora urgente ricuperare. 

Da dove allora ripartire per «riguadagnare i fondamenti» che, osserva Carrón «è l’urgenza più grande che abbiamo»? Dal cuore, nel senso biblico della parola, camminando nella libertà e fidando nella ragione aperta al mistero, lungo una via che conduce alla «bellezza disarmata» che dà titolo al libro. In tale prospettiva il capitolo 2 della prima parte consiste in un interessante excursus sul rapporto tra verità e libertà. Un rapporto che nella Chiesa si è infine chiarito con il Concilio Vaticano II a conclusione di un lungo cammino. 

Al cuore dell’uomo i cristiani devono innanzitutto e tipicamente offrire quanto hanno di meglio,ossia la novità di Cristo: tra i punti-chiave del libro questo ha suscitato particolare attenzione e merita qualche chiarimento. É stato detto che in tale prospettiva Cl, già nota per la sua forte presenza nella vita pubblica del nostro Paese, imbocca la strada di quella “scelta religiosa” che a suo tempo aveva così criticato. Se da qualche parte ciò accade è per un fraintendimento. Non è, infatti, ciò che risulta dalla lettura del libro dove (cfr. pag. 19-29) si critica una «battaglia per la difesa dei valori divenuta nel tempo così prioritaria da risultare più importante rispetto alla comunicazione della novità di Cristo», ma nello stesso tempo si afferma che l’alternativa non risiede «in una fuga spiritualistica dal mondo. La vera alternativa è piuttosto la comunità cristiana non svuotata del suo spessore storico (…)».

Non vi si ritrova nemmeno la presunta “scomunica” dell’impegno politico di cui spesso si sente parlare. Infatti, «Chi è impegnato sulla scena pubblica, in campo culturale o politico, ha il dovere, da cristiano, di opporsi alla deriva antropologica odierna». Viene però ribadito un criterio da sempre affermato, ma non sempre applicato con il dovuto rigore: quello secondo cui chi è impegnato sulla scena pubblica «non può coinvolgere tutta la Chiesa in quanto tale». E ciò in primo luogo per un motivo sostanziale: perché «la Chiesa ha l’obbligo, oggi, di incontrare tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro ideologia o appartenenza politica». «L’impegno dei cristiani in politica dove si decide del bene comune degli uomini rimane necessario (…) Oggi più che mai è importante. Senza mai dimenticare che nelle circostanze attuali tale impegno assume (…) prevalentemente un valore critico e di contenimento, entro i limiti del possibile, degli effetti negativi delle pure procedure e della mentalità che ne è causa». 

Non si può però presumere che dall’impegno pubblico «possa meccanicamente sorgere il rinnovamento ideale e spirituale della città degli uomini. Questo nasce da “ciò che viene prima”, che primerea, da un’umanità nuova generata dall’amore a Cristo, dall’amore di Cristo». Da tale richiamo – su cui peraltro nessun cristiano consapevole non può che essere d’accordo -- non deriva affatto un invito alla gente di Cl a ritirarsi dalla vita pubblica,  ponendo termine a un’attenzione che già Giovanni Paolo II aveva apprezzato nella lettera citata più sopra, quanto piuttosto un suo ripensamento comunque indispensabile oggi, in un contesto storico così diverso da quello in cui aveva avuto inizio, ossia all’epoca della Guerra fredda.

Il cuore del problema messo a tema nel libro non è ad ogni modo quello, pur cruciale, cui abbiamo accennato più sopra.
Si tratta piuttosto della crisi antropologica che travaglia il tempo in cui viviamo. Un elemento caratterizzante di tale crisi è il «crollo delle evidenze» che Luigi Giussani già denunciava negli anni ’80 del secolo scorso e che, come scriveva il cardinale Ratzinger nel 1998, «nel frattempo è diventato un fatto compiuto». Ciò cui siamo di fronte non è insomma solo un problema di fede e nemmeno solo un problema etico. Siamo appunto di fronte a una crisi dell’umano in quanto tale. Oggi occorre perciò innanzitutto, come Benedetto XVI ebbe a dire nel 2009 rispondendo a domande dei parroci romani,«suscitare il senso della realtà di cui si vuole parlare». Questa, osserva Carrón, «è la grande sfida davanti alla quale si trova l’Europa (…) la riduzione dell’uomo, il suo accantonamento, la mancanza di coscienza di che cosa egli sia, di quale sia la natura del suo desiderio»
Di fronte a tale stato di cose è possibile risvegliare il soggetto perché possa essere veramente se stesso liberandosi così «dalla dittatura dei propri piccoli desideri e da tutte le false risposte?». «Per far fronte alle sfide attuali», dice Carrón riandando a Giussani, «deve accadere qualcosa che ridesti tutto l’io, così che esso possa ricominciare a guardare le cose con sufficiente chiarezza e aderire a ciò che di nuovo riconosce come evidente». Se non comunicheremo, vivendolo, quell’essenziale che solo è capace di attrarre e promuovere l’io non potremo rispondere, né dare un contributo reale al superamento della «situazione di debolezza e di vuoto in cui si trova gettato l’uomo di oggi». 

Come il cristianesimo può continuare a venire riproposto in una tale situazione è tema della seconda parte del libro, intitolata “Un avvenimento per rinascere”.  Il cristianesimo è un fatto, un avvenimento, non una dottrina. Quindi lo si comunica vivendolo, e non presentandolo e difendendolo come se fosse sostanzialmente un codice etico, una piattaforma di valori. Come lo stesso Benedetto XVI scrive nella sua enciclica Deus Caritas est, «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva». L’accento sull’incontro ricorre un po’ in tutto il volume. Lo ritrova ad esempio alle pagine 23,27,67,207,252. È uno dei suoi leit motiv.

Ciò chiarito, osserviamo noi, resta da fare i conti con gli irrigidimenti, gli schematismi, le incomprensioni che nel concreto della  condizione umana inevitabilmente caratterizzano un esodo così complesso dalla mentalità dominante con la sua tipica, radicata separazione tra le idee e la realtà delle cose. Una mentalità dominante che, proprio perché tale, non si ferma di certo alle porte di un’esperienza di Chiesa, ma vi serpeggia in ogni direzione. Per liberarsene, insomma, accorre perciò una bella carica di umiltà e di fraternità reciproca accompagnata dall’invocazione di un aiuto che non può venire da noi. Nella logica dell’incontro come modo primario di comunicazione dell’annuncio cristiano nonché della testimonianza come compito fondamentale dei cristiani in una società plurale c’è poi da mettersi in cammino stando bene attenti a non diventare gnostici per difendersi dal rischio di diventare pelagiani, e a non diventare catari per difendersi dal rischio di diventare gnostici. 

Si tratta di ripartire dalla propria esperienza, da se stessi in azione per domandarsi non tanto «Che cosa devo fare?», ma da «Io chi sono? Che cosa sono?». Sulla base di un’esperienza e di una riflessione tipicamente ispirate a Giussani, a Benedetto XVI e ad altri maestri, nella seconda parte del libro l’autore delinea l’itinerario che ne consegue e che «un allargamento del nostro concetto di ragione» rende possibile. Un allargamento che implica appunto il non facile venir meno di quella separazione tra la ragione e la realtà dei fatti su cui il pensiero moderno si fonda; e che l’ordine costituito del potere, culturale prima che politico, impone con forza. «Il reale continua inesorabilmente a venirci incontro destando in noi stupore, cioè curiosità e desiderio»: occorre quindi non cessare di lasciarsi interrogare dalla realtà. É per questa via che si può andare oltre la debolezza della coscienza indotta dalla crisi dell’umano di cui si diceva.

La bellezza disarmata continua poi con una terza e quarta parte rispettivamente dedicate l’una, dal titolo “Emergenza educativa”, al problema dell’educazione e della scuola e l’altra, dal titolo “Un protagonista nuovo sulla scena del mondo”, a specifici temi (la famiglia, l’impresa, il ruolo della Compagnia delle Opere e altro) lo sviluppo dei quali è tra l’altro spunto per ritornare sulle questioni fondamentali che sono a tema delle prime due parti.