martedì 15 dicembre 2015

L’ANTIPOLITICA CATTOLICA


Quei cristiani “più buoni di Gesù” che lo ostacolano
DI ANDREAS HOFER DAL BLOG DI COSTANZA MIRIANO

C’era da aspettarselo. In tempi come i nostri, carichi di strisciante antipolitica, sono tornati di moda facili slogan tesi a contrapporre l’impegno politico – o prepolitico – alla testimonianza personale.
Opporsi alle leggi ingiuste non soltanto è inutile, si dice: è anche antievangelico. Bisogna prima curarsi della salute dell’anima. Solo così, testimoniando la bellezza della fede, potremo persuadere gli increduli. La battaglia culturale, quando non è dannosa, è inutile. Anzi, l’idea stessa che si debba battagliare è una contraffazione del genuino spirito cristiano.
Peccato solo che così facendo si cada direttamente nella negazione di una qualsiasi presenza politica, o anche solo genericamente civile o culturale. Questo almeno in democrazia, dove una certa dose di conflitto è inevitabile. Solo negli stati totalitari la discordia delle volontà – e di conseguenza il disordine – deve essere repressa. Anzi, più che repressa. Deve assolutamente scomparire.
Pensare che un cristiano in politica non possa né debba entrare in conflitto con qualcuno equivale ad escludere dalla democrazia la possibilità di una presenza politica di e da cristiani. Stralciare anche la sola eventualità di una polemica vuol dire abbracciare una posizione tipicamente antipolitica.
Chagall, Io e il mio paese, 1912
Da dove viene dunque questa ondata di antipolitica cattolica?

Nell’ormai lontano 1978 Alain Besançon ha descritto, nel suo libro La confusione delle lingue, la progressiva diffusione nella cattolicità di uno stato d’animo romantico, con i suoi inevitabili corollari: la preminenza del sentimentalismo, il disprezzo per la ragione analitica, una spiritualità evanescente che si compiace di stati d’animo. Come si vede, non siamo poi distanti da una mentalità venata di quietismo, la dottrina spirituale che voleva privilegiare la vita interiore a scapito di qualsiasi altra attività umana. La sua origine viene ordinariamente fatta risalire alle opere di Miguel de Molinos (1628-1696), sacerdote spagnolo severamente condannato nel 1687 da Innocenzo XI.
Sono le linee essenziali della posizione antipolitica per eccellenza. Non a caso è anche quanto caratterizza quello che il giurista Carl Schmitt definiva «romanticismo politico». Il politico romantico è essenzialmente sprovvisto della più elementare virtù politica: la prudenza, quella virtù che rappresenta il punto d’incontro tra la vita morale e la vita reale. La politica romantica spicca per l’incapacità di stabilire un contatto efficace tra la propria razionalità sentimentale e la realtà obiettiva.
Finisce così per coltivare una sterile oratoria, scadendo nel sentimentalismo più umorale e in un miscuglio di ingenuità e ignoranza. Il politico sedotto dal romanticismo non fa più politica. Fa molto peggio: fa della retorica romanzata sulla politica. Ovvero la peggiore forma di impoliticità o, come diremmo oggi, di antipolitica.
Alla linea romantica Besançon vedeva connaturati alcuni elementi ormai divenuti caratteristici di un certo milieu cattolico.
Il primo tra questi è il rifiuto d’avere nemici. Secondo questa prospettiva è atteggiamento più evangelico negare che la Chiesa ne abbia, come se il precetto dell’amore per il nemico non presupponesse quantomeno l’esistenza di un nemico (come si può amare ciò che nemmeno esiste?).
Da qui discende quell’atteggiamento per il quale, anche istintivamente, senza piena consapevolezza, è imperativo accantonare ogni idea di lotta, a cominciare dal bonum certamen paolino. Causa principale della surreale rimozione della categoria del nemico, sostiene Besançon, è una sorta di “supercristianesimo” al quale sta stretta la classica distinzione tra peccato, da combattere, e peccatore, da amare. A un cristianesimo tanto “puro”, che si presume “più buono” perfino di Gesù stesso, non basta più amare il peccatore. È troppo poco. Occorre amare anche il peccato.

A dire il vero, non è che un simile “supercristianesimo” cancelli davvero la categoria del nemico: piuttosto la trasferisce ad intra. Il ragionamento è questo: non esistendo alcun nemico reale – dato che non può esistere – ne consegue che la categoria del nemico non può che essere puramente immaginaria. Il “nemico” è una creazione ad arte, è un fantoccio suscitato dalla cospirazione di alcuni cinici politicanti, che se ne servono allo scopo di catalizzare un consenso elettorale. Unificare una massa sconnessa è possibile solo a condizione di usare l’odio come fattore di coagulo. Occorre perciò additare alle masse un “nemico immaginario”, innalzare un feticcio contro il quale indirizzare l’aggressività della folla e poter così guadagnare potere su di essa.

Nella nuova tavola dei valori del supercristianesimo il vero avversario, come confesserà Augusto Del Noce a Vittorio Messori, rischia di diventare perciò “l’integralista”, cioè colui che è solito intendere e vivere la fede non come un vaporoso sentimento, ma come guida e prospettiva per la sua concreta attività.
Ma agire e muoversi nella polis, come abbiamo visto, non può non portare a scontrarsi prima o poi con qualche forma di inimicizia. E un politico senza avversari politici non esiste, ancora una volta, se non nei regimi più oppressivi e soffocanti.
L’integralista – o meglio il soggetto identificato come tale – diventa un capro espiatorio che è lecito accusare di ogni genere di nefandezza: di essere al soldo dei poteri mondani come di essere un allucinato Don Chisciotte ossessionato da mulini a vento fittizi. È logico: chi corre dietro a un “nemico immaginario” non può ch’esser pazzo o in malafede.
È come se avessero preso forma visibile le parole pronunciate da Joseph Ratzinger in una storica omelia del 2005: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo». Può testimoniarlo chiunque abbia sperimentato – sui social network, ad esempio – il vero e proprio odium theologicum sprizzato dai commenti velenosi di cristiani che pure amano presentarsi come uomini e donne del “sì” e del “dialogo”. Un risentimento quasi inestinguibile, perché ammantato di “profezia” e di sacro furore. A sentire certi “dialoganti” questo livido “holy bombing” si giustifica per essere stato fatto, per dirla con le autorevoli parole di Elio e le Storie Tese, nel segno dell’amore. Del resto è impossibile convincere del contrario chi sembra identificarsi con le ragioni stesse del bene.


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