Angelo Panebianco, Il Corriere della sera Lunedì 20 Luglio, 2015
l'abbaglio comunista su Stato e mercato: un esiziale errore antropologico , una concezione sbagliata, semplicistica, della natura degli esseri umani, unito all’illusione prometeica , alla presunzione di poter forgiare, attraverso lo Stato, l’uomo nuovo.
C he rapporto c’è fra il
marxismo esibito da certi ministri ed ex ministri del governo Tsipras e il
Crocifisso con falce e martello regalato dal presidente
boliviano Morales a papa
Bergoglio? Sono entrambi figli di una grande
rimozione, sono la
testimonianza del fatto che tante
persone, forse i più,
preferiscono non ascoltare le lezioni della storia se ciò può mettere
a rischio le loro più radicate convinzioni.
È la ragione per cui,
secondo un detto attribuito ad Albert Einstein, è più facile disintegrare un
atomo che un pregiudizio.
Quando nel novembre del
1989 crollò il Muro di Berlino e, due anni dopo, nel
1991, con l’implosione
dell’Unione Sovietica, si chiuse l’era iniziata con la
Rivoluzione del 1917,
moltissimi in giro per il mondo si scrollarono di dosso i
calcinacci di quel muro,
fecero buon viso a cattivo gioco ma evitarono anche di scavare alla ricerca
delle ragioni di un così grandioso fallimento. Quasi
nessuno (tranne
pochissimi, e cioè i migliori) scelse di riflettere seriamente sul passato,
pochi fra coloro che da quella utopia erano stati ammaliati si posero pubblicamente
il problema del come e del perché, pochi decisero di fare i conti con i propri
trascorsi errori di giudizio.
I più evitarono così di assimilare la principale lezione: si era
dimostrata falsa, falsissima, l’idea che, sempre e comunque, il mercato sia il
problema e lo Stato la soluzione. La falsità di quella tesi è all’origine del
fallimento del comunismo.
Non volendo prenderne
atto, molti si raccontarono fole: anziché al nucleo duro della dottrina
attribuirono il fallimento a fatti contingenti, come la presa del potere da
parte di criminali quali Stalin, Pol Pot, eccetera.
Ma l’errore, invece, stava proprio nella dottrina.
I liberali non ebbero bisogno
di aspettare il crollo del comunismo sovietico per saperlo: grazie a tanti importanti
lavori che si erano accumulati nel tempo, ad esempio gli scritti dell’italiano
Luigi Einaudi sul mercato e sull’economia collettivista o il grande dibattito
degli anni Venti Trenta,
animato dagli economisti
austriaci, sulla impossibilità della pianificazione socialista, i liberali
sapevano benissimo perché le ricette statal-collettiviste
fossero economicamente
disastrose.
E sapevano anche perché
fossero nemiche delle libertà civili e politiche. Era, in età pretelevisiva e
preInternet, la domanda retorica nota a tutti i liberali: se le cartiere
appartengono allo Stato come è possibile la libertà di stampa?
Era inoltre già allora
chiaro (a chi avesse il desiderio di capire) quali fossero le
cause ultime dell’abbaglio
comunista su Stato e mercato: un
esiziale errore
antropologico , una concezione sbagliata, semplicistica, della natura
degli esseri umani, unito all’illusione prometeica , alla presunzione di poter
forgiare, attraverso lo Stato, l’uomo nuovo.
Erano insomma a
disposizione di chiunque volesse usufruirne le
argomentazioni in grado
di spiegare perché l’applicazione di quella dottrina
dovesse necessariamente
sfociare nel totalitarismo politico e nel disastro
economico.
Ma neppure dopo la fine
della Guerra fredda molti di coloro che in precedenza avevano rifiutato con
sdegno quelle argomentazioni in quanto «reazionarie e di destra» si fermarono a
rifare i conti, a prendere atto dei propri errori.
Ecco perché, come se niente fosse, gli stessi o i loro discendenti
ripropongono oggi ricette fallimentari: quando si dice che l’economia capitalista
danneggia i poveri e va quindi corretta con dosi massicce di collettivismo, non
solo si parte da una falsa premessa (è dimostrato che l’economia di mercato
migliora la condizione dei poveri assai più di quanto non sia in grado di fare
il
collettivismo) ma si
invocano anche pessimi rimedi: le stesse
stolte politiche, grosso modo, per mesi e mesi accarezzate da quei
sessantottini in ritardo che componevano il governo Tsipras, quelli che, sulla
pelle dei loro concittadini, giocavano alla Rivoluzione con i soldi degli
altri.
Contrariamente a quanto
sostenuto da alcuni, la falce e il
martello del
Crocifisso regalato a Bergoglio non è simbolo di giustizia ma di
oppressione,
il segno distintivo di una utopia che ha generato mostri. Per inciso, il gesto
del presidente Morales potrebbe anche essere interpretato come un inconsapevole
insulto alla memoria di Giovanni Paolo II che quel simbolo combatté per tutta la
vita, nonché ai milioni di uomini che sotto bandiere con falce e martello sono
vissuti in schiavitù per decenni (e una parte ci vive ancora).
In uno dei momenti
convulsi che precedettero la fine dell’Urss un grande
corteo si snodò per le
strade di Mosca. Innalzava striscioni che, citando una
vecchia barzelletta
sovietica, portavano la scritta «Proletari
di tutto il mondo scusateci».
Coloro che sostenevano
quegli striscioni non potevano immaginare che, fuori dalla Russia, migliaia e forse
milioni di persone avrebbero fatto finta che non ci fosse nulla di cui
scusarsi.
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