L’EUROPA CORRE PERICOLI MOLTO PIÙ GRAVI DELLA
BREXIT
TEMPI Luglio 11, 2016 Elisa Grimi
Lo storico della filosofia della Sorbona
spiega cosa vuol dire quando dice che «dobbiamo tornare al Medio Evo». E augura
sulla sua generazione (quella degli ex sessantottini «privilegiati») di finire
«prima possibile nell’immondezzaio della storia»
«Pensate alla Svizzera, rannicchiata
nel cuore del continente, con le sue tre lingue ufficiali più il romancio, e le
sue due confessioni cristiane: un’Europa in miniatura, che tuttavia non fa
parte dell’Unione. L’Europa è più grande
dell’Unione Europea».
Rémi Brague, saggista e
storico della filosofia, docente alle università di Parigi I Pantheon-Sorbona e
di Monaco Ludwig-Maximilian, ha studiato e scritto molto a riguardo
dell’identità europea. All’indomani del referendum che ha sancito
l’uscita del Regno Unito
dall’Unione Europea, ha risposto ad alcune domanda di
Tempi.
Professore, che
cosa pensa di questa Europa all’indomani della Brexit?
La cultura europea ha le sue ricchezze, e i pericoli che la minacciano si
trovano a un livello diverso da quello politico. In ogni caso immagino che
nessuno desideri rimorchiare la Gran Bretagna per trainarla fino al Pacifico e
ormeggiarla al fianco della Nuova Zelanda. E immagino che gli studenti del
continente continueranno a sognare di formarsi a Oxbridge. Mentre io per parte
mia continuerò a ridere leggendo P. G. Wodehouse, e a riflettere leggendo
Chesterton o C. S. Lewis.
Subito dopo il
referendum la sterlina ha avuto una flessione ma poi ha rimbalzato. C’è chi si
mostra entusiasta del risultato, per molti inglesi sembra trattarsi di una vera
e propria liberazione da un potere impersonale e distante. Gli si deve dare
torto?
Le reazioni
dei britannici mi sembrano più sfumate di così. Non è certo che siano tutti
entusiasti, nemmeno fra quelli che hanno votato per l’uscita dall’Unione
Europea. In ogni caso, occorre vedere quali cambiamenti concreti seguiranno a
questo referendum, perché la decisione non si ferma lì, la parola ora passa al
parlamento.
Il fenomeno
delle migrazioni di massa è sotto gli occhi di tutti. Molti migranti sono
profughi costretti a fuggire dalla propria terra per potere sopravvivere. Hanno
perso tutto e si ritrovano a dovere ricostruire la propria vita in terre che
non conoscono veramente, dove lingua, cultura e tradizione sono diverse dalle
loro. Crede che i problemi per l’accoglienza di questi migranti, insieme a
quelli determinati dalla massiccia immigrazione comunitaria, siano stati determinanti
per la vittoria della Brexit alle urne? Si tratta di una motivazione egoista o
realista?
La presenza
massiccia di immigrati provenienti da regioni del mondo i cui costumi e le cui
religioni sono molto diversi da quelli europei, è un problema reale. Bisogna avere il coraggio di porlo e di
cercare i mezzi per affrontarlo in modo più serio che con discorsi sulla
tolleranza, la diversità, il meticciato e altre ingenuità. Bisogna anche
ricordarsi che l’Occidente è in gran parte responsabile delle guerre che
ispirano il desiderio di queste persone di abbandonare i loro paesi e cercare
in Europa la pace e il benessere.
Donald Tusk,
presidente del Consiglio europeo, alla vigilia del voto aveva detto che una
Brexit sarebbe stata «l’inizio della fine della civiltà occidentale così come
la conosciamo». A risultato conosciuto, non sono mancati commenti da tutto il
mondo. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha affermato che «l’idea dell’unità
europea è una idea di pace, non possiamo mai dimenticarlo», mentre il
presidente francese François Hollande ha detto che farà «di tutto affinché si
adotti un cambiamento profondo piuttosto che un ripiegamento dell’Europa». È
solo un gioco di facciata delle principali potenze europee, preoccupate che il
sistema collassi, e con esso i loro crudi interessi?
Queste affermazioni apocalittiche mi
sembrano un po’ ridicole. La civiltà occidentale mi sembra minacciata da altri
fattori più gravi da ben prima della Brexit. Anzitutto dalla mancanza di
fiducia in se stessa.
La «fine della
civiltà occidentale» è una possibilità reale, ma niente dimostra che debba
consistere in un crollo brusco. Temo
piuttosto un suo esaurimento progressivo, a causa della rinuncia a se stessa,
che sarebbe indolore e passerebbe quasi inavvertito. Le parole di Angela
Merkel mi sembrano invece un richiamo salutare: il motivo iniziale del progetto
dei padri dell’Europa (Adenauer, Schuman, De Gasperi) non era la ricchezza
economica, ma il mantenimento della pace: si trattava anzitutto di rendere
impossibile un nuovo scontro fra la Francia e la Germania.
Il collante di
questa Europa sembra essere unicamente la moneta, collante che si sta rivelando
sempre più fallace. Crede sia possibile ritornare a parlare di identità europea
per ciò che la costituisce nella sua origine, tornare a parlare cioè della
storia dell’Occidente?
Non sono
sicuro che si debba vedere nella moneta unica qualcosa di scarsa importanza.
Ricordo di avere avuto una reazione emotiva molto forte quando ho visto
apparire le prime monete dell’euro, che portano ciascuna, a differenza delle
banconote, il sigillo del paese che le ha emesse. «Gli amici sono anche qui»,
mi è venuto spontaneo pensare. Inoltre, mentre la carta o il pezzetto di
metallo non hanno alcun valore intrinseco, la moneta detta «fiduciaria» esiste
solamente grazie alla fiducia, e dunque la simboleggia. Non si deve opporre
l’economia a un’identità europea che sarebbe solo spirituale.
Papa Francesco
ha recentemente dichiarato che, guardando al tasso altissimo di disoccupazione
in Europa, c’è certamente qualcosa che non va in questa Unione “massiccia”. Ma
ha anche sottolineato che due sono le parole che egli associa a questa Europa: fecondità
e creatività. Lei crede realisticamente che oggi sia realizzabile un
progetto d’integrazione che non sia solo burocratico ed economico-commerciale
ma anche educativo e culturale?
Fecondità? Se si tratta di uno sguardo retrospettivo al passato, la fecondità
effettivamente è stata una delle cause più importanti del successo storico
dell’Europa a partire dall’XI secolo. Se invece si guarda al presente, parlare
di fecondità è uno scherzo di cattivo gusto, dal momento che sappiamo che le
popolazioni europee non rinnovano le loro generazioni e si condannano così
all’estinzione. Creatività? Sì, certamente, a condizione di non pretendere di
«creare» a partire dal nulla. Perché è più facile distruggere che costruire.
Nelle rivoluzioni capita spesso che si distrugga per fare piazza pulita, senza
che poi sorga nulla di durevole. Ho l’impressione che il progetto di integrazione
europea non funzioni meglio in nessun altro ambito che in quello
dell’educazione. Il programma Erasmus funziona piuttosto bene e permette a un
numero sempre maggiore di giovani di scoprire altre lingue e paesi europei
diversi dai loro.
A Parigi si è di
recente concluso il Symposium Thomisticum, un convegno internazionale di
filosofia in collaborazione con studiosi provenienti da tutto il mondo. In tale
occasione lei ha proposto una riflessione in cui si esortava il ritorno al
Medio Evo, quello dei padri della Chiesa (non quindi il periodo buio), in cui
era possibile una visione unitaria della società. Il convegno si è svolto nei
pressi del Pantheon, sul quale è impresso il motto “Liberté, égalité,
fraternité”. Forse che tale finta laicità che questa iscrizione celebra non sia
l’origine della perdizione dell’Europa di oggi?
Il Medio Evo al quale ho detto che dovremmo tornare, con una formula
volontariamente paradossale e provocatoria, non è quello che coincide col sogno
di una società organica che non è mai esistita se non nell’immaginazione. Io pensavo solamente ai concetti
fondamentali del pensiero medievale: la creazione, la provvidenza, la
redenzione, il perdono. È il Medio Evo dei padri della Chiesa, ma anche
quello dei grandi scolastici, e anche quello degli scrittori. È il Medio Evo
che è stato anche, prima del Rinascimento italiano, il teatro di una
successione quasi ininterrotta di microrinascimenti che tentavano di recuperare
quel che poteva essere salvato dell’eredità antica, sia pagana sia cristiana:
Boezio, Cassiodoro, Alcuino, Giovanni Scoto Eriugena, la scuola di Chartres.
Le nuove
generazioni sono in balìa degli alti e bassi dell’economia mondiale. Impostano
la loro vita inseguendo l’altalena di crescita e decrescita del Pil, l’enorme
precarietà impedisce loro di formare una famiglia. Da questo punto di vista,
l’esperimento europeo non è forse fallito? Come possono gli europei ritrovare
se stessi in queste condizioni?
La situazione che lei descrive, e che
costituisce in gran parte la causa del tracollo demografico dell’Europa, è il
risultato di decisioni prese dagli europei della mia generazione, i figli del
baby boom diventati sessantottini. Questi
privilegiati, che grazie all’ombrello nucleare americano non hanno
conosciuto la guerra in Europa e hanno goduto dei «Trenta gloriosi» (gli anni
del miracolo economico europeo fra il 1945 e il 1973, ndr), si sono mostrati di
un egoismo scoraggiante nei confronti della generazione seguente, che hanno
voluto d’altra parte poco numerosa. Le
hanno lasciato un ambiente inquinato, un debito pubblico sempre crescente e,
nell’ambito morale, degli esempi di comportamento devianti e mortiferi. Mi
auguro che la presente generazione ci getti prima possibile nell’immondezzaio
della storia.
Allontanandosi
dallo sguardo ipocrita tipico della realtà del suo tempo, G. K. Chesterton
scriveva quasi un centinaio di anni fa La Nuova Gerusalemme, un racconto in cui il protagonista
partendo da Londra, capitale del più grande impero di allora, si recava nella
Parigi capitale del giacobinismo che aveva coniato il mondo moderno, quindi
scendeva nella Roma papale, imperiale e repubblicana; attraversava poi il mare
per arrivare all’ombra delle piramidi egiziane e da lì giungeva nella Terra
Promessa dei Patriarchi biblici. Vale ancora il suo pensiero per cui «l’uomo
moderno è simile a un viandante che non ricorda più il nome della sua meta e
deve ritornare nel punto da cui proviene per scoprire dove è diretto»? È
possibile questo per un europeo di oggi? Da dove partire?
Devo
confessare che, benché io ami tantissimo l’opera di G. K. Chesterton, il libro La
Nuova Gerusalemme manca alle mie letture. Chinarsi sulle proprie origini e sulla propria storia non è un modo
sbagliato per sapere chi si è. Questo non significa che saremmo obbligati a
continuare nella stessa direzione dei nostri antenati. Spetta solo a noi, che
viviamo nel tempo presente, decidere. Ma è proprio per questo che abbiamo
bisogno di prendere più chiaramente
coscienza di quello che siamo. E noi siamo costituiti da esperienze
accumulate dai nostri antenati. Che non ne siamo coscienti non cambia nulla
alla questione.
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