venerdì 25 agosto 2017

PIZZABALLA: RIAPPROPRIARSI DELLA TRADIZIONE


"Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo".

Il testo dell'intervento dedicato al tema del Meeting di S. Ecc. Mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme


Introduzione

Ringrazio ancora una volta gli organizzatori del Meeting, di questo grande e importante momento per la vita della Chiesa in Italia, per avermi invitato e per avermi così ancora una volta costretto a fissare per iscritto alcune considerazioni riguardo al nostro tempo che tra amici si andava facendo, lasciando però tali considerazioni sempre un po’ sospese e/o rimandate ad ulteriori approfondimenti.

Ribadisco a voi quello che ho già detto a suo tempo a chi mi ha invitato. Non sono un esperto di questioni sociali, ecclesiali, teologiche per non parlare di quelle politiche e di altro genere. Sono solo un credente, ora con la responsabilità di una Chiesa, che con serenità si interroga e cerca di capire, di cogliere e dare un senso a quanto accade attorno a lui. Mi sento un po’ a disagio, perciò, in un contesto così prestigioso, per parlare di argomenti così grandi. Vi prego dunque di accogliere con la stessa libertà e serenità ciò che cercherò di esprimere in questo incontro.

Premetto subito che anche io, come molti, ho più domande che risposte. Ci sono domande che non riesco a sciogliere completamente, a decifrare e analizzare, definire. Non so dare forma precisa alle tante intuizioni e sollecitazioni che questo tempo sta presentando. Per spiegare cosa intendo, mi rifaccio alla scheda di presentazione del titolo del Meeting, che solleva alcune di tali domande del nostro tempo e che interrogano la mia coscienza di credente cristiano e anche la mia Chiesa: siamo nel tempo della post-verità, del pensiero liquido, del tutto-e-subito; il tempo nel quale si deve vivere il presente e basta, dove i progetti sono sempre a breve termine, dove il "per sempre" non si concepisce, dove bisogna essere una sorta di genitori di se stessi. È un tempo, insomma, in cui siamo persi nel frammento, in tutti i contesti di vita. Non c’è posto per Dio e sappiamo che, dove Dio è assente, anche l’idea di uomo e del mondo cambia radicalmente.

Ma anche nella nostra realtà di Chiesa penso vi siano fenomeni simili e su questo mi sento particolarmente interpellato, soprattutto ora che di una Chiesa sono pastore: siamo nel periodo (almeno per quanto riguarda il mondo occidentale) chiamato post-cristiano. Nemmeno anticristiano, ma post. Il pensiero cristiano che per secoli e generazioni ci ha accompagnato in un modo o nell’altro non è più all’origine del pensiero comune. Non dico nell’ambito scientifico e accademico culturale. In quel contesto il fenomeno era noto. Ce lo ricorda anche Paolo VI nella sua Evangelii nuntiandi: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca» (21). Anche nella vita sociale comune, tuttavia, assistiamo ad un cambiamento radicale. Per essere breve: non vi è più stata la trasmissione della fede nelle famiglie. Il resto è venuto da sé.

Il cristianesimo occidentale, poi, che per secoli è stato al centro della formazione nella Chiesa, almeno di quella cattolica, oggi non sembra più essere così determinante nella vita della Chiesa universale.

Insomma, siamo dentro ad un cambiamento epocale, in forza del quale società, cultura, religione, umanesimo eccetera non sono e non saranno più letti e vissuti secondo i parametri ai quali siamo abituati.

Questo scenario problematico non riguarda solo l’Occidente post-cristiano. Un po’ in tutti i contesti, come dicevo, ci troviamo di fronte a cambiamenti che hanno dinamiche simili. Anche dove vivo, in Medio Oriente, tutto cambia. Lì sono stati soprattutto (ma non solo) i conflitti a distruggere il tessuto sociale, culturale e religioso e a spazzare via quella continuità generazionale nella trasmissione della fede. L’antica coesistenza dei diversi popoli, distinti tra loro dalle diverse appartenenze religiose e identitarie, già indebolita lungo il ‘900 dalle dittature arabe, è saltata definitivamente in questi ultimi anni e tutto ora è da ricostruire, ma non si sa come e con quali criteri. Il senso di appartenenza ad una comunità religiosa e comunitaria, oggi, non basta più a sostenere le comunità cristiane che, per questa ragione, poco alla volta si allontanano.

1. Riappropriarsi della "tradizione"

Insomma, come si può intuire da questi asistematici, superficiali accenni, lo scenario che ci si presenta dinanzi è di una complessità tale, da scoraggiare chiunque voglia fare sintesi. Forse l’errore sarebbe proprio questo: volere a tutti i costi costringere in una definizione unitaria la complessità del nostro tempo, tentare di trovare, per così dire la formula capace di esprimere lo status quo. Alcuni ci hanno provato: pensiero debole (Vattimo), società liquida (Bauman)... Ma tali espressioni, pur molto acute, riescono ad esaurire la complessità, diciamo pure il disordine, di questi anni? Forse è bene accettare, con umiltà, di non avere ancora la chiave per unificare e sistematizzare i vari fenomeni cui si faceva accenno e risolversi ad imparare a vivere dentro questa complessità e le sue domande, con uno stile cristiano. Questa penso sarà la risposta da dare: capire quale sarà lo stile che ci deve caratterizzare. Come stare/abitare in questo nuovo modello sociale, più che chiedersi cosa porre di fronte ad esso, perché il cosa è lo stesso di sempre. È Cristo Via, Verità e Vita, incarnato e testimoniato in secoli e generazioni di credenti e che ancora oggi attende testimoni che, nel linguaggio di oggi, siano capaci di renderlo ancora Via, Verità e Vita.

La domanda allora diventa: in quanto credenti, come dobbiamo pensare il nostro rapporto con quella realtà alla quale diamo il nome di “tradizione”?

giovedì 24 agosto 2017

GAY SCOUT DELL’AVVENIRE


 di Costanza Miriano

Il problema della pagina che l’Avvenire ha dedicato domenica al caso degli scout omosessuali è principalmente la collocazione all’interno del giornale: la pagina denominata catholica. Sarebbe stato più appropriato la pagina varie, o altro, o liquida, se si preferisce il latino. Perché nel modo di affrontare la questione non c’è assolutamente niente di cattolico. Se si fosse affrontata la conversazione in un qualsiasi salotto di gente non credente, ovviamente aperta, multiculturale, di larghe vedute, refrattaria ai dogmi come impone il pensiero medio, non retriva come noi cattolici che pensiamo che la Verità sia una sola possibile, gente che beve uno spritz la sera in riva al mare, sarebbero venute fuori più o meno le stesse conclusioni. Conclusioni di buon senso, forse, ma incuranti delle posizioni del magistero della Chiesa, e persino del Papa a cui forse credono di conformarsi: il caso è sempre da affrontare, bisogna discernere, includere eccetera eccetera.
Ma entriamo nel merito, con un’ultima nota preliminare. Accettare la parola gay senza neanche un cosiddetto davanti significa inchinarsi alla mentalità omosessualista di cui quella parola è figlia. La parola gay non è mai usata nei documenti della Chiesa, e si sa che la lingua è la prima scelta culturale che possiamo fare.
Il caso, noto, è quello del capo scout di Staranzano, vicino Gorizia, che ha deciso di celebrare un’unione civile con il compagno in comune, festeggiando e dando il rilievo pubblico che una scelta definitiva e importante come questa merita. La reazione del parroco, don Francesco Maria Fragiacomo è da cattolico e da sacerdote (si vede che non era a bere lo spritz con quegli altri che hanno ispirato la pagina di Luciano Moia), perfetta: “Come cittadino ognuno può fare quello che gli consente la legge dello Stato. Come cristiano, però, devo tener conto di quale sia la volontà di Dio sulle scelte della mia vita. Come educatore cristiano, in più, devo tener conto della missione e delle linee educative della Chiesa e della mia associazione cattolica”. Perfetto, da manuale. Normale, ovvio, oserei dire, per un sacerdote. Se vuoi insegnare a un bambino la matematica la devi conoscere, se gli vuoi insegnare il russo lo devi saper parlare, se vuoi educare in modo cattolico devi sapere cosa dice la Chiesa, e non puoi fregartene della tradizione, il magistero, gli insegnamenti della Chiesa costati il sangue a Cristo e a duemila anni di testimoni. Se invece vuoi insegnare ai bambini che è bello aiutare i vecchietti ad attraversare la strada, e saper costruire tende nel bosco, be’, non c’era bisogno del sangue di Cristo. Quella è una bella sfida educativa, e lo dico davvero, senza ironia: si può insegnare l’educazione ai bambini, a cavarsela nella natura e ad aspettare gli altri. Belle cose. Ma siamo su un piano umano. Un educatore cattolico è un’altra cosa. La fede in Cristo è una novità, una rottura, è una notizia. Non c’entra niente coi buoni sentimenti, l’afflato fraterno, la gentilezza, l’inclusività, che sono solo conseguenze secondarie di un cuore posseduto da Cristo. Il cristiano non è uno buono, è uno cattivo come tutti che mendica da Cristo un cuore nuovo. La fede, soprattutto, non è nostra proprietà: ci è consegnata da duemila anni di storia, e noi a nostra volta la consegneremo.
Cosa scrive invece l’Avvenire, nel pezzo del collega, nel quale peraltro Dio non è nominato manco di striscio?
“Non si tratta solo di stabilire se il capo scout abbia offerto una testimonianza di vita coerente con la proposta cristiana sul matrimonio e la famiglia”! incredibile. Parole che gridano vendetta. Certo che non si tratta di stabilire questo! Un’unione tra due persone dello stesso sesso NON è coerente con la proposta cristiana sul matrimonio, tanto meno sulla famiglia (perché a due maschi i figli non possono nascere, a meno che il collega non voglia ammettere che li possano comprare o adottare, cosa su cui almeno Avvenire ha le idee chiare, è stato il primo giornale a combattere l’utero in affitto, mentre sulle adozioni non saprei, ho sentito cose che mi fanno pensare a una posizione più morbida, temo).
 La proposta educativa su affettività e sessualità, continua Moia, “va riformulata e riattualizzata”. Peccato che da nessuna parte nel magistero della Chiesa esiste questa proposizione di intenti.
È davvero gravissima la confusione che ingenera l’articolo.

martedì 22 agosto 2017

DAVVERO FRANCESCO “HA APERTO” ALLO IUS SOLI?


La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire

Agosto 22, 2017 Luigi Amicone

Carissimo Santo Padre Francesco, ci sono due aspetti che ci colpiscono come problema del suo “Messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018”. Messaggio che reca la data “14 gennaio 2018”, ma che è stato reso noto, divulgato e ampiamente messo in risalto sulle prime pagine dei giornali online nella giornata del 21 agosto 2017. Il giorno seguente l’intervento di Paolo Gentiloni al Meeting di Rimini. Intervento nel quale il presidente del Consiglio italiano aveva di nuovo auspicato una legge sul cosiddetto “Ius soli”.

Il Santo Padre ci comprenderà, lui stesso dice di detestare gli adulatori e di accettare di buon grado le critiche («è bene essere criticato, a me piace questo, sempre. La vita è fatta anche di incomprensioni e di tensioni»). Dunque diciamo con franchezza le nostre perplessità e diciamo subito che esse riguardano due apparenti aporìe che sembrano presenti nel Suo messaggio.


(salto la prima osservazione perché è la stessa del tema già affrontato nel precedente post))

Seconda osservazione. Il messaggio del Santo Padre, incentrato su quattro categorie (“accogliere”, “proteggere”, “promuovere”, “integrare”) a ben vedere propone interventi pro migranti che sembrano definire una ricca e dettagliata agenda politica. Anche se, stranamente, al contrario di quanto sbandierato sulle prime pagine dei giornali, a noi non sembra così evidente (anche se non risultano smentite dalla Santa Sede, almeno al momento in cui scriviamo) il Suo presunto sostegno a una legge italiana sullo “Ius soli”.

In effetti, nel Suo Messaggio, Sua Santità fa un’affermazione diversa e assolutamente apprezzabile. E cioè dice che «nel rispetto del diritto universale ad una nazionalità, questa va riconosciuta e opportunamente certificata a tutti i bambini e le bambine al momento della nascita. La apolidia in cui talvolta vengono a trovarsi migranti e rifugiati può essere facilmente evitata attraverso una legislazione sulla cittadinanza conforme ai principi fondamentali del diritto internazionale».

Ora, il contrasto all’apolidia e una legislazione sulla cittadinanza “al momento della nascita”, esistono già e sono già garantiti dalle norme italiane in vigore. Ogni legislazione naturalmente si può e, ove necessario, si deve migliorare. È possibile che anche la nostra meriti delle modifiche. 
Però, come ben sappiamo, alla luce dei fatti di cronaca che ogni giorno ce lo ricordano, non si possono negare legittime preoccupazioni delle persone di una comunità nazionale che assistono a una pressione migratoria straordinaria, incontrollata, gestita spesso da trafficanti di esseri umani, droga, armi e infiltrazioni terroristiche. Tutto ciò costituisce un problema che va affrontato non solo con i buoni sentimenti e le belle intenzioni. Ma va affrontato, anzitutto dai responsabili politici di una Nazione, con grande senso di responsabilità e umanità. 

Dove la traduzione fattuale di queste due gradi parole – “responsabilità” e “umanità” – è data dall’agire politico e sociale realistico e competente. Cioè secondo buon senso, razionalità, capacità di contemperare e salvaguardare tutti i fattori in gioco.

In conclusione, pensiamo che sarebbe urgente capire se il Santo Padre in persona sostiene davvero, e in prima persona, la proposta di legge del governo Gentiloni, del Pd e della sinistra in generale, a favore dell’introduzione in Italia dello Ius soli.

Sarebbe certamente una novità assoluta nella storia della Chiesa del secondo millennio.
Ma ne prenderemmo atto tranquillamente anche se ce ne stupiremmo assai. Infatti, carissimo Santo Padre Francesco, alla luce dell’insegnamento della Chiesa e della stessa Enciclica Caritas in Veritate da Lei citata nel Suo messaggio, abbiamo sempre inteso che «la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire [10] e non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati».


BENEDETTO NON L’HA DETTO.

LEONARDO LUGARESI
Ho letto il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018. C’è un passaggio che mi ha profondamente sconcertato, per due ragioni: una di metodo e l’altra di merito. Comincio da quest’ultima.
Il papa scrive: «Il principio della centralità della persona umana, fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI [5] ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale». Mi pare un’affermazione che, presa nel suo significato letterale – e non si vede in quale altro senso la si possa prendere, dato che in questo caso non si tratta di una frase sfuggita durante una conversazione estemporanea coi giornalisti, né di una battuta pronunciata in un colloquio privato, ma di un enunciato scritto in un documento ufficiale – ha una portata enorme, ed abnorme, dato che porta alla pratica negazione della ragion d’essere dello stato!

Analizziamola: il papa dice che «il principio della centralità della persona umana», che non viene meglio definito ma è attribuito a Benedetto XVI (su questo torno dopo, perché qui c’è la questione di metodo a cui accennavo), «ci obbliga» (quindi si tratta di un obbligo morale, vincolante per tutti i cattolici) «ad anteporre» (anteporre vuol dire  “mettere prima” “preferire”, quindi in caso di conflitto indica un preciso e vincolante criterio di scelta) «sempre» (sempre vuol dire sempre, in tutte le lingue del mondo: il papa sta enunciando un precetto di portata generale ed assoluta!) «la sicurezza personale» (non si dice di chi, ma dal contesto si evince che il papa si riferisce ad ogni singolo migrante; però se ad obbligarci è «il principio della centralità della persona umana» ne consegue che l’obbligo vale nei riguardi di qualunque persona umana) «a quella nazionale». Sicurezza nazionale, in italiano, vuol dire semplicemente “sicurezza della nazione”, cioè sicurezza collettiva, sicurezza dell’insieme dei cittadini. Ora, è sempre stato universalmente riconosciuto che la tutela della sicurezza nazionale, così intesa, è il primo compito (e, come ho detto sopra, la prima ragion d’essere) dello stato. Lo stato esiste innanzitutto per garantire la sicurezza dei cittadini. Ed è sempre stata pacificamente condivisa la convinzione che, per adempiere a questo dovere primario, nei casi in cui esso venga purtroppo a confliggere con la sicurezza di uno o più individui, lo stato abbia non il diritto ma il dovere di anteporre la sicurezza collettiva a quella personale. La nazione viene militarmente attaccata da un nemico esterno? Lo stato non può e non deve anteporre la sicurezza personale dei soldati nemici (né dei propri) alla sicurezza nazionale. Dei terroristi stanno eseguendo un attentato? Lo stato non può e non deve anteporre la loro sicurezza personale, né quella dei propri agenti di polizia, alla sicurezza nazionale messa in pericolo. Se si afferma il principio che «il principio della centralità della persona umana ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale», la conseguenza è che gli stati smettono di esistere.
Direte che sono assurdità che ovviamente il papa non pensa. Rispondo che lo spero bene, ma che purtroppo il senso della frase che ha scritto è quello che ho cercato di spiegare. Del resto, un esempio lo fa lui stesso ed è meno estremo dei miei, ma sulla stessa linea. Subito dopo l’affermazione del principio di supremazia assoluta della sicurezza personale scrive infatti: «Di conseguenza, è necessario formare adeguatamente il personale preposto ai controlli di frontiera». Dunque l’uso della forza (che, per definizione, anche quando è proporzionato e prudente può comportare rischi per la sicurezza personale) per impedire l’ingresso illegale nel territorio di uno stato è sempre illegittimo? Dunque le frontiere devono essere aperte, cioè in pratica non devono esistere? Parrebbe di sì.
Per cercare di comprendere quella frase in modo diverso, mi sono anche sforzato di pensare che forse il papa, quando usa l’espressione “sicurezza nazionale” ha in mente la “dottrina della sicurezza nazionale” con cui la dittatura militare argentina degli anni settanta e altri regimi sudamericani di destra giustificavano la repressione degli oppositori politici. Ma gli anni settanta sono passati da mezzo secolo, il mondo non è tutto America latina, e anche lì, del resto, le dittature sono ormai tutte di sinistra! In ogni caso, se pensava a quello, doveva esprimersi in modo diverso.
Vengo alla questione di metodo, che mi pare ancor più incresciosa. Il non meglio definito «principio della centralità della persona umana» viene per così dire “addossato” a Benedetto XVI («fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI»). Già questo è un po’ strano: del valore primario della persona umana e dell’obbligo dello stato di rispettarne i diritti naturali hanno sempre parlato tutti i papi. Ci sono montagne di documenti e di discorsi che si potrebbero citare. Perché chiamare in causa proprio Benedetto? Adesso rileggete l’intera frase: «Il principio della centralità della persona umana, fermamente affermato dal mio amato predecessore Benedetto XVI [5] ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale». Sfido chiunque a sostenere che alla quasi totalità dei lettori non arrivi il messaggio implicito che ciò che “l’amato predecessore” afferma fermamente è precisamente l’obbligo di anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale. È vero che dal punto di vista logico e grammaticale quello che gli viene attribuito è solo il principio della centralità della persona umana, ma proprio perché in sé e per sé tale principio è universalmente condiviso da tutti i cattolici, il lettore è indotto a pensare che sia l’intera affermazione contenuta nella frase ad essere, in qualche modo, farina del sacco di Benedetto.
Allora andiamo a vedere che cosa c’è nel passo citato a sostegno di tale attribuzione a Benedetto: la nota 5 ci rimanda al capitolo 47 dell’enciclica Caritas in veritate, che tratta del modo di intervenire nei paesi poveri per aiutare lo sviluppo della popolazione. Il passo è questo: «Negli interventi per lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L’interesse principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni, devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro attuazione».
Ognuno può giudicare da sé quanto c’entri questo con l’obbligo di “anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale”.


DOPO BARCELLONA RILEGGIAMO RATZINGER


La strage di Barcellona ha scosso la Spagna, dove fino adesso erano stati sventati altri attentati dello Stato islamico, e riportato il Vecchio Continente nella dinamica della guerra interna ad una Europa che non sembra intenzionata ad interrogarsi sull’origine dei mali che la insidiano.
Davanti alla furia di cui è fatta oggetto periodicamente la popolazione degli stati europei, l’establishment politico e mediatico continentale sembra in grado di esprimere soltanto proclami di circostanza e reazioni emotive. Si tratta di esternazioni e manifestazioni che appaiono sempre più una fiera di ipocrisia e una elusione del male che affligge le nostre società, che permane e si diffonde.

Tracce per una riflessione più profonda potrebbero invece ritrovarsi nel simposio tenuto lo scorso 19 aprile a Varsavia per i 90 anni di Benedetto XVI. Promosso dalla Conferenza episcopale e dal Presidente polacco Andrzej Duda, il convegno, intitolato “Il concetto di Stato nella prospettiva dell’insegnamento del cardinal Joseph Ratzinger - Benedetto XVI”, ha visto anche la lettura di un messaggio inviato dal Papa emerito.
"Il confronto fra concezioni radicalmente atee dello Stato e il sorgere di uno Stato radicalmente religioso nei movimenti islamistici – sottolinea nel messaggio Joseph Ratzinger – conduce il nostro tempo in una situazione esplosiva, le cui conseguenze sperimentiamo ogni giorno”. E le conseguenze purtroppo le abbiamo viste ancora ultimamente nei fatti che hanno insanguinato la Spagna.
"Questi radicalismi – continua Benedetto XVI – esigono urgentemente che noi sviluppiamo una concezione convincente dello Stato, che sostenga il confronto con queste sfide e possa superarle”. Una nuova concezione dello Stato che significa anche, in prospettiva più ampia, un ripensamento dello spazio pubblico europeo. Per il pensatore e teologo bavarese, si tratta infatti di “una questione essenziale per il futuro del nostro Continente”.
La miscela esplosiva fra il vuoto valoriale – ben esemplificato dalle note di Imagine suonate dopo le stragi di Parigi – la penetrazione dell’islamismo in società ormai indifferenti al proprio passato e al proprio futuro, pare destinata a generare episodi tragici anziché la decantata integrazione. 
Dinnanzi alla mancanza di una filosofia civile europea capace di rispondere alle nuove emergenze, forse bisogna far parlare meno i sociologi – con le loro spiegazioni politically correct sulle cause socioeconomiche del terrorismo – e più i discorsi di Benedetto XVI a Ratisbona, Parigi, Westminster e al Bundestag tedesco. Un pensiero fecondo anche per la riflessione “secolare”.


sabato 19 agosto 2017

SE LA CHIESA NON SA NIENTE

Leggo su Avvenire queste parole di mons. Galantino, segretario della Conferenza episcopale italiana: «Alla domanda su cosa dire ai genitori delle vittime in questo momento, Galantino ha risposto: “Non mi sento di dire niente, ma di fare sentire loro la vicinanza silenziosa e partecipe a quello che stanno vivendo. Non penso sia questo il momento di dare spiegazioni, perché di fronte a questo tipo di morte, a questa violenza, non ci sono spiegazioni razionali da dare”».
“Di fronte a questo tipo di morte, a questa violenza, non ci sono spiegazioni razionali da dare”? Le vittime dell'attentato di Barcellona non sono morte perché un fulmine le ha colpite o perché un ponte che stava in piedi da secoli è crollato proprio nel momento in cui passavano loro (come nel bel
romanzo di Thornton Wilder), o per un virus (quando succedono queste cose, ormai ci siamo abituati all'afasia degli ecclesiastici): sono morte perché dei criminali li hanno assassinati.
Come fa il vescovo a dire che di fronte “a questa violenza” non ci sono spiegazioni razionali da dare? Ignora forse che la chiesa ha qualcosa (veramente ha molto) da dire sul male presente nel mondo? O si vergogna di quella dottrina e non la ritiene presentabile agli uomini?
Ma di una chiesa che non sa niente, che se ne fanno gli uomini?

DAL BLOG DI LEONARDO LUGARESI

giovedì 17 agosto 2017

ORSI PERICOLOSI. L'ANIMALISMO LO E' ANCORA DI PIU'


di Robi Ronza 
LA NUOVA BUSSOLA 17-08-2017


Il fiasco della prima delle manifestazioni organizzate dagli animalisti per protestare contro il recente abbattimento in Trentino dell’orsa KJ12, che nel luglio scorso aveva aggredito un escursionista, è un buon segnale. I cronisti presenti riferiscono che l’altro ieri l’autocolonna partita da Brescia, che i promotori si aspettavano diventasse un “serpentone” di centinaia di veicoli, a Riva del Garda contava soltanto sei auto. Lungo la strada verso Trento se ne sono aggiunte altre due. A bordo delle otto auto c’erano complessivamente circa venti persone.

E’ forse il segno che il buon senso comincia di nuovo a prevalere sui furori ideologici degli animalisti, devotamente fatti propri e amplificati dall’ordine costituito di quell’intellighenzija metropolitana laica-progressista che è la vera razza padrona del mondo della stampa nel nostro Paese. Ciononostante il cammino sarà di certo ancora lungo. Basti dire ad esempio che il Tg1 delle 13,30 dello scorso 14 agosto, ha usato per due volte la parola “omicidio” per definire tale abbattimento. Tutti i  giornali e i  telegiornali più diffusi stanno sostanzialmente dalla parte degli animalisti, che non esitano a dare dell’assassino al presidente della Provincia Autonoma di Trento reo di aver dato ordine di abbattere l’animale, la cui pericolosità per l’uomo era ormai evidente. 

E’ d’altra parte impressionante quanto il presidente della Provincia di Trento – il quale non ha esitato a dire che le persone  contano più degli animali - sia stato lasciato solo anche dal mondo della politica. Da destra a sinistra i politici sono evidentemente soprattutto preoccupati di piacere a masse urbane che degli orsi (e dei lupi) sanno solo quello  che hanno visto nei cartoni animati. E questo malgrado già da qualche anno a questa parte in Italia le aggressioni e le intrusioni di grandi carnivori si moltiplichino.

Nel Trentino dal 2014 a oggi si sono già registrate quattro aggressioni di orsi a singoli escursionisti o cercatori di funghi. Uno degli aggrediti ha subito ferite invalidanti. Il dilagare facilitato e protetto dei grandi carnivori (e anche di altri grandi animali selvatici) al di fuori dei parchi nazionali e delle riserve naturali, ove in precedenza sussistevano in modo controllato, è ormai un problema di rilevanza nazionale. La loro presenza dilagante è infatti insostenibile in un Paese come il nostro, che ha una densità demografica pari a oltre 231 abitanti per chilometro quadro, e non (tanto per fare un paragone) di soli 34 come gli Stati Uniti.

La questione in effetti è tutt’altro che pittoresca o “di nicchia”. Si tratta di uno dei tanti esiti rilevanti della crisi di civiltà con cui oggi dobbiamo fare i conti. A chi non ne fosse ancora convinto suggeriamo l’attento esame dell’immagine qui sopra, tratta da Il Fatto Quotidiano del 17 maggio scorso. Già è significativo il travestimento di sapore totemico dei manifestanti, mascherati da lupi. Ancor più significativi però sono i testi dei cartelli che i manifestanti espongono. Si vedano in particolare “Non temere il lupo / Temi piuttosto l’uomo” e l’immagine di una testa di lupo di profilo dalla cui bocca escono le parole “Io sono la natura, voi il suo danno”. 

Siamo di fronte a una testimonianza plastica del baratro in cui è precipitata la moderna cultura laica, passata in meno di due secoli dall’esaltazione prometeica dell’uomo al cupio dissolvi. Nell’immediato i primi chiamati a farne le spese sono i pastori, gli allevatori e i contadini di montagna e di collina. Oggi sono loro la vera specie a rischio di estinzione; non i lupi, gli orsi e le linci. A lungo termine siamo però a rischio tutti quanti. E’ a rischio l’uomo in quanto tale che, secondo quel che si legge su uno dei cartelli, è di danno alla natura, mentre invece il lupo ne fa parte a pieno titolo, anzi ne è l’essenza. 


La superstizione totemica dei “verdi” non basterebbe tuttavia da sola a creare questa situazione  se ad essa non si aggiungesse l’ignoranza di massa di popolazioni urbane che  –dicevamo - non hanno più né esperienza né memoria familiare recente della realtà degli spazi aperti; e la cui immagine del lupo e dell’orso deriva tutta quanta dal mondo dei cartoni animati, da Lupo Alberto, dall’Orso Yoghi e dai loro più recenti derivati. E’ un’ignoranza cui è ormai urgente porre rimedio. 

domenica 13 agosto 2017

DIALOGO? NO, GRAZIE. MEGLIO LA DISPUTA


ALDO MARIA VALLI
Oggi «abbiamo a che fare con un’inflazione del dialogo. Si vuole “aprire un dialogo” con ognuno e possibilmente con tutti… Non è tanto importante l’argomento che trattiamo; è più importante la relazione che intessiamo nel dialogo. Il percorso è la meta».
Questa critica del dialogo ecumenico fine a se stesso, coltivato come un bene in sé, al di là della questione su cui si dialoga, non arriva da qualche rappresentante del conservatorismo cattolico. Anzi, l’autore non è nemmeno cattolico. Si tratta infatti di Jürgen Moltmann (Amburgo, 1926), il teologo evangelico già docente a Tubinga e autore del celebre «Theologie der Hoffnung», «Teologia della speranza», del 1964.
La riflessione sul dialogo è contenuta nel suo articolo «La Riforma incompiuta. Problemi irrisolti, risposte ecumeniche», pubblicato in «Concilium» (n. 2, 2017, pag. 142), ed è resa ancora più interessante dal fatto che Moltmann introduce una distinzione tra «dialogo» e «disputa». Scrive infatti: «Il dialogo dei nostri giorni non è funzionale alla verità», bensì alla «comunione», ed è così che subisce una sorta di edulcorazione. Il tentativo di evitare gli spigoli porta all’appiattimento, e la teologia ne risente.
«In passato – scrive il novantunenne Moltmann dall’alto della sua lunga esperienza – la gente si lamentava della voglia di litigare che avevano i teologi (“rabies theologicorum”); oggi la teologia è diventata una faccenda talmente innocua che difficilmente trova ancora pubblica considerazione».
Alla ricerca della comunione, le asperità sono limate fin quasi a scomparire. E ciò che resta è spesso una tolleranza priva di contenuti che sacrifica la passione per la verità.
Moltmann è esplicito nel suo elogio della disputa: «Dobbiamo imparare nuovamente a dire di no. Una controversia può portare alla luce più verità di un dialogo tollerante. Abbiamo bisogno di una cultura teologica della disputa, condotta con risolutezza e rispetto, per amore della verità. Senza professione di fede la teologia è priva di valore e il dialogo teologico degenera in puro scambio di opinioni».
Più chiaro di così l’anziano teologo evangelico non potrebbe essere, ed è significativo che la sua rivalutazione della disputa, contro l’inflazione del dialogo, arrivi proprio nell’anno in cui, tra molteplici inni al dialogo e ben poca attenzione per la questione della verità, si celebra il mezzo millennio dalla Riforma. «Comunione e verità non procedono più di pari passo?», si chiede  Moltmann.
«C’è anche l’evidenza – commenta Silvio Brachetta su «Vita nuova», il settimanale cattolico di Trieste – della scomparsa della via di mezzo: le discussioni odierne possono essere dialoghi o polemiche. Quasi mai c’è un dibattito costruttivo, per la dimostrazione di un qualcosa. Si assiste ad incontri rilassati, a basso contenuto scientifico; e si oscilla tra qualche considerazione in serenità o all’impeto eristico di chi cerca di avere ragione con foga. In genere si preferisce il monologo, perché ha il pregio di non dover essere dimostrato a tutti i costi: l’interlocutore non deve fare la fatica di controbattere, ma oppone semplicemente un altro suo monologo».
Osservazioni condivisibili, alle quali però il professor Stefano Fontana, sempre su «Vita nuova», aggiunge un’ulteriore riflessione: «Silvio Brachetta ha ragione a dire che il dialogo senza verità è morto e a lodare il teologo protestante Jürgen Moltmann per averlo detto. Però non va dimenticato che l’assolutizzazione del dialogo deriva proprio dalla penetrazione nella Chiesa cattolica della mente protestante».
«La questione dell’abuso cattolico del dialogo – scrive Fontana – è antica. Già le opere preconciliari di Karl Rahner ponevano le basi per un dialogo senza contenuti. Il conciliarismo successivo al Vaticano II ha applicato e sviluppato il concetto, utilizzando maldestramente l’enciclica “Ecclesiam Suam” di Paolo VI». È vero: «Oggi si dialoga senza sapere più per quali contenuti dialogare», ma, proprio in omaggio alla verità, non bisognerebbe dimenticare che «questo vizio è dovuto alla penetrazione del protestantesimo nella mente cattolica».
È d’altra parte significativo che il fastidio per il dialogo fine a se stesso sia manifestato da un protestante come Moltmann. «Vuoi vedere – si chiede Fontana  – che i protestanti si ravvedono prima dei cattolici?».
E qui il professore fa un approfondimento necessario: «La teologia cattolica ha sempre insegnato che la fede è composta di due aspetti: la “fides qua”, ossia l’atto personale di fede, e la “fides quae”, ossia i contenuti rivelati che si credono per l’autorità di Dio rivelante. Lutero separa i due aspetti, anzi elimina il secondo, sicché la fede è solo un rapporto soggettivo di coscienza del fedele con Dio. È una fede “fiduciale”, un fidarsi cieco, un mettersi nelle mani di Uno senza motivi di contenuto. La fede protestante è infatti una fede senza dogmi e la Chiesa è solo spirituale, fatta cioè da tutti coloro che si affidano, in questo modo “fiduciale”, a Cristo. Per questo motivo l’unità non è data dalla comune confessione degli stessi contenuti di fede, come la Chiesa cattolica ha sempre insegnato a cominciare, appunto, dai Confessori della Fede, ma è data dal con-venire delle singole soggettività in un unico atto di fiducia. Il con-venire soggettivo sostituisce i motivi rivelati del convenire stesso».
«L’accento si sposta sull’atto e non più sui contenuti dell’atto. Ecco perché oggi, anche nella Chiesa cattolica, la pastorale “come azione ecclesiale” viene prima della dottrina, ne è indipendente e, addirittura, riformula la dottrina. Si tratta di una concezione di origine protestante. Ecco perché ad ogni convegno ecclesiale si insiste sulla bellezza del con-venire, anche se in queste convention poi si sentono mille eresie dal punto di vista dogmatico. Ecco perché si parla di una Chiesa “plurale” o “aperta”, secondo l’indicazione di Karl Rahner –  che era cattolico nella forma ma protestante nei contenuti  –  della quale possono fare parte tutti, compresi eretici ed atei. La “fides quae” viene persa di vista o, comunque, considerata di importanza derivata. L’eresia viene derubricata a diversità di opinione».
L’argomentazione di Fontana è cristallina e non avrebbe bisogno di ulteriori spiegazioni, ma è l’autore stesso ad attualizzare il tutto con un riferimento a una vicenda che ha causato tanto dolore: «Nei giorni scorsi abbiamo assistito alla tragedia del piccolo Charlie Gard. Gli uomini di Chiesa sono arrivati in ritardo, hanno balbettato cose diverse, il quotidiano “Avvenire” ha deviato l’attenzione dai temi veri e ha detto l’opposto di quanto aveva detto nel 2009 per Eluana Englaro. Non siamo più in grado di confessare insieme nemmeno i principi elementari della legge morale naturale e nemmeno i dieci comandamenti. Su molte cose lasciamo che sia la coscienza a discernere. Alla Chiesa del con-venire manca sempre di più su cosa e Chi convenire, se sul Cristo della fede o sul Logos che rivela la verità perché è la Verità».
Stefano Fontana nel suo articolo accenna all’«Ecclesiam Suam» di Paolo VI (1964), che può essere effettivamente considerata l’origine della «svolta dialogica» in teologia. Tuttavia papa Montini nel documento non dice che il dialogo ha valore in sé, ma che occorre dialogare per convertire, e sebbene Romano Amerio, in «Iota Unum», parli di equazione incoerente e impossibile «tra il dovere che incombe alla Chiesa di evangelizzare il mondo e il suo dovere di dialogare col mondo», bisogna ricordare che Paolo VI  esalta il «dialogo della sincerità» e, a proposito di ecumenismo, precisa:  «Noi siamo disposti a studiare come assecondare i legittimi desideri dei Fratelli cristiani, tuttora da noi separati» perché «nulla tanto ci può essere più ambito che di abbracciarli in una perfetta unione di fede e di carità», però «dobbiamo pur dire che non è in nostro potere transigere sull’integrità della fede e sulle esigenze della carità».
Paolo VI non esita nemmeno a mettere in guardia dal relativismo, eppure la sua enciclica è stata abbondantemente utilizzata in senso relativistico.
Eliminati tutti i punti in cui Montini stigmatizza il «compromesso ambiguo» così come l’irenismo e il sincretismo («Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede… Solo chi è pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo»), l’«Ecclesiam Suam» è stata ridotta a manifesto di una superficiale e indistinta amicizia tra la Chiesa e il mondo, e, come giustamente ricorda Brachetta, bisognerà aspettare Joseph Ratzinger, con la «Dominus Iesus» (anno 2000) per una denuncia di quella «ideologia del dialogo»  che, penetrata anche nella Chiesa cattolica, «si sostituisce alla missione e all’urgenza dell’appello alla conversione».
Insomma, a dispetto delle preoccupazioni di Paolo VI, il relativismo è entrato nella Chiesa ed ha usato l’idea di dialogo in modo strumentale. Ecco perché chi ha a cuore la questione della Verità dovrebbe far sua la proposta di Moltmann e rivalutare la disputa, lo scambio vivace di opinioni, la controversia che mette sul tavolo ragioni diverse.

Solo che, per disputare, occorre saper ragionare, e proprio questo, oggi, è il problema. Perché la nostra è sì crisi di fede, ma forse, prima ancora, è crisi della ragione.

mercoledì 2 agosto 2017

IL VIZIETTO DEL TRADIMENTO



Anni di disprezzo per i propri elettori non si recuperano con un’acrobazia

Il controesodo «bello e istruttivo» dei transfughi

ALFREDO MANTOVANO da Tempi

Funziona così? Vieni eletto in un partito e grazie a questo vai al governo.
Resti in carica pur quando quel partito, dopo pochi mesi, esce dalla coalizione e sceglie l’opposizione: un’inezia, all’incirca quattro anni.

Nel frattempo fai di tutto: approvi il divorzio facile e il divorzio breve, la legge sul matrimonio same-sex, la droga “leggera” e accessibile a tutti, la fecondazione eterologa a carico del Servizio sanitario nazionale, tagli le risorse necessarie per la salute, ti disinteressi della persecuzione dei medici obiettori, non alzi un dito di fronte alla diffusione del gender nelle scuole, dai il tuo contributo perché in un ramo del Parlamento passi l’eutanasia, hai qualche ripensamento in prossimità del traguardo dello ius soli dopo averlo votato solo perché hai visto qualche sondaggio, col tuo voto favorisci fiscalmente le multinazionali e deprimi la famiglia, rinunci a governare l’emergenza immigrazione e ignori l’anoressia demografica che interessa la nazione di cui saresti una delle guide.

Senza trascurare il sostegno attivo che hai dato a una riforma costituzionale – per fortuna abortita – che affievoliva la sussidiarietà. 

Di più, hai ignorato gli allarmi e le richieste di dissociarti da questo o da quel provvedimento provenienti da piazze affollate di famiglie non rappresentate da nessuno; anzi, le hai illuse e le hai prese in giro, salvo optare sempre per l’esatto contrario di quel che ti sollecitavano quei luoghi civili e responsabili di esercizio di democrazia.

Il voto è una sentenza definitiva

 Alla fine, come nel gioco dell’oca, torni al punto di partenza e riprendi posizione esattamente nel recinto dal quale hai preso le mosse nella primavera del 2013, come se nulla fosse stato. Come direbbe Guareschi, è «bello e istruttivo» questo tuo disinteressato ri-passaggio a un’area politica che pare avere oggi le maggiori prospettive di vittoria elettorale. Sul piano oggettivo, è l’equivalente di un sondaggio interno al Palazzo: segnala la percezione che dell’esito delle prossime politiche hanno gli inquilini di quel condominio.

Sul piano soggettivo, è difficile da seguire senza ricorrere a generose dosi di antivomito.

Funziona così? Le esperienze elettorali più recenti, dentro e fuori i confini nazionali, suggeriscono di contenere lo sfruculiamento del cittadino che vota. Perché costui deciderà poco di quel che accade nella sua quotidianità, ma quando decide mostra una maturità mediamente superiore a quella che presume chi ne sollecita il consenso. Lo scorso 4 dicembre media e influencer di vario tipo davano per certa la vittoria del “sì” al referendum costituzionale, e sappiamo come è andata; e anche i risultati delle ultime amministrative, che hanno aperto gli occhi e il cuore alla transumanza in corso, sono andati in controtendenza con le previsioni, soprattutto in luoghi simbolici come Genova o in giro fra Toscana, Emilia e Abruzzo.

Dunque, se c’è qualcosa di sicuro, un po’ più sicuro di quella poltrona alla cui riconferma stai puntando con sprezzo del pericolo e spirito di abnegazione, è che l’urna elettorale è l’equivalente di una sentenza definitiva: quando arriva non la puoi modificare. E se nei fatti hai disprezzato per quattro anni fasce importanti del tuo potenziale elettorato, non puoi pensare che ti riscatti con un’acrobazia all’ultimo (o al penultimo) giorno utile.

Il vizietto del tradimento

 Vale per il transfuga. Vale per chi lo accoglie, e anzi organizza i tour del rientro. Chi l’ha detto che l’algebra non si applica pure in politica? I gitanti che tornano a casa non solo non aggiungono nulla, ma vanno in sottrazione: quanti dei partecipanti alle manifestazioni di piazza San Giovanni e del Circo Massimo sono pronti a sostenere un partito che riprenda nelle proprie fila personaggi col curriculum prima riassunto? Per avere la garanzia del rinnovato rinnegamento dei princìpi cari a quel popolo?

Chi ha tradito così tante volte dà la certezza che alla prima utile continuerà a farlo. Idem se il rientro fosse non nel partito originario ma in una formazione messa su ad hoc per questi reduci non combattenti. Quale attrattiva ha una bad company?

Nei pochi mesi di legislatura che restano ci si opponga veramente alle leggi ostili alla vita e alla famiglia (in primis quella sulle dat) ancora pendenti, e si provi a dare voce all’Italia vera, come è stato fatto con successo in più d’una città alle ultime amministrative. Chi cerca, e magari ottiene, il riciclo dopo una parvenza di “differenziata” non per questo cessa di essere un rifiuto.



martedì 1 agosto 2017

CHARLIE GARD E IL RISVEGLIO DELLE COSCIENZE

Nel Consiglio Comunale di Giovedì 27 a Cesena, i rappresentanti della città si sono interrogati su quello che stava accadendo al piccolo Charlie Gard.

Il confronto non era sulle tecniche o sulla genetica, ma sui poteri dello Stato e sulle sue sempre più violente ingerenze sul diritto alla vita, che in questo caso hanno impedito al babbo e alla mamma di Charlie di fare tutto quello che potevano per curare il loro bambino.

La vita di Charlie non è stata dunque inutile, perché ha saputo risvegliare le coscienze anche in una quieta città di provincia, dove ormai si discute, stancamente, solo di tasse comunali, di piazza della Libertà e di un nuovo ospedale proiettato in un futuro lontanissimo.

La mozione ha diviso il Consiglio Comunale esattamente a metà, nove favorevoli e nove contrari. La città ha avuto la possibilità di schierarsi a fianco del piccolo Charlie, per dire che mai più dovrebbero accadere simili situazioni. 

Purtroppo c’è riuscita solo per metà, ma, come ha scritto acutamente Leonardo Lugaresi nel suo blog, quella che doveva essere nelle intenzioni dei potenti di oggi una asettica procedura amministrativa –nel “best interest” di Charlie- e nella quale bastava seguire i “protocolli” (un po’ di carte e un po’ di firme), ha risvegliato anche a Cesena un movimento delle coscienze che ha osato giudicare quello che stava accadendo, e ha fatto in modo che tutto questo non avvenisse nel silenzio.

Rileggendo la mozione di Spinelli mi sono tornate alla mente le profetiche parole che G. K. Chesterton scriveva nel 1904 : “… Fuochi verranno attizzati per testimoniare che 2+2 fa 4. Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi d’estate. (…) S’avvicina il tempo in cui una vita normale richiederà di essere eroi soltanto per esistere, per restare fedeli ad una banale linea di vita, che i nostri antenati seguivano così naturalmente come respiravano.”


Oggi, per molti, questo tempo è già venuto.