di
Costanza Miriano
Il problema della pagina che
l’Avvenire ha dedicato domenica al caso degli scout omosessuali è
principalmente la collocazione all’interno del giornale: la pagina denominata
catholica. Sarebbe stato più appropriato la pagina varie, o altro, o liquida,
se si preferisce il latino. Perché nel modo di affrontare la questione non c’è
assolutamente niente di cattolico. Se si fosse affrontata la conversazione in
un qualsiasi salotto di gente non credente, ovviamente aperta, multiculturale,
di larghe vedute, refrattaria ai dogmi come impone il pensiero medio, non
retriva come noi cattolici che pensiamo che la Verità sia una sola possibile,
gente che beve uno spritz la sera in riva al mare, sarebbero venute fuori più o
meno le stesse conclusioni. Conclusioni di buon senso, forse, ma incuranti
delle posizioni del magistero della Chiesa, e persino del Papa a cui forse
credono di conformarsi: il caso è sempre da affrontare, bisogna discernere,
includere eccetera eccetera.
Ma entriamo nel merito, con
un’ultima nota preliminare. Accettare la parola gay senza neanche un cosiddetto
davanti significa inchinarsi alla mentalità omosessualista di cui quella parola
è figlia. La parola gay non è mai usata nei documenti della Chiesa, e si sa che
la lingua è la prima scelta culturale che possiamo fare.
Il caso, noto, è quello del capo
scout di Staranzano, vicino Gorizia, che ha deciso di celebrare un’unione
civile con il compagno in comune, festeggiando e dando il rilievo pubblico che
una scelta definitiva e importante come questa merita. La reazione del parroco,
don Francesco Maria Fragiacomo è da cattolico e da sacerdote (si vede che non
era a bere lo spritz con quegli altri che hanno ispirato la pagina di Luciano
Moia), perfetta: “Come cittadino ognuno può fare quello che gli consente la
legge dello Stato. Come cristiano, però, devo tener conto di quale sia la
volontà di Dio sulle scelte della mia vita. Come educatore cristiano, in più,
devo tener conto della missione e delle linee educative della Chiesa e della
mia associazione cattolica”. Perfetto, da manuale. Normale, ovvio, oserei dire,
per un sacerdote. Se vuoi insegnare a un bambino la matematica la devi
conoscere, se gli vuoi insegnare il russo lo devi saper parlare, se vuoi
educare in modo cattolico devi sapere cosa dice la Chiesa, e non puoi
fregartene della tradizione, il magistero, gli insegnamenti della Chiesa
costati il sangue a Cristo e a duemila anni di testimoni. Se invece vuoi
insegnare ai bambini che è bello aiutare i vecchietti ad attraversare la
strada, e saper costruire tende nel bosco, be’, non c’era bisogno del sangue di
Cristo. Quella è una bella sfida educativa, e lo dico davvero, senza ironia: si
può insegnare l’educazione ai bambini, a cavarsela nella natura e ad aspettare
gli altri. Belle cose. Ma siamo su un piano umano. Un educatore cattolico è
un’altra cosa. La fede in Cristo è una novità, una rottura, è una notizia. Non
c’entra niente coi buoni sentimenti, l’afflato fraterno, la gentilezza,
l’inclusività, che sono solo conseguenze secondarie di un cuore posseduto da
Cristo. Il cristiano non è uno buono, è uno cattivo come tutti che mendica da
Cristo un cuore nuovo. La fede, soprattutto, non è nostra proprietà: ci è
consegnata da duemila anni di storia, e noi a nostra volta la consegneremo.
Cosa
scrive invece l’Avvenire, nel pezzo del collega, nel quale peraltro Dio non è
nominato manco di striscio?
“Non si tratta solo di stabilire se il capo
scout abbia offerto una testimonianza di vita coerente con la proposta
cristiana sul matrimonio e la famiglia”! incredibile. Parole che gridano
vendetta. Certo che non si tratta di stabilire questo! Un’unione tra due
persone dello stesso sesso NON è coerente con la proposta cristiana sul
matrimonio, tanto meno sulla famiglia (perché a due maschi i figli non possono
nascere, a meno che il collega non voglia ammettere che li possano comprare o
adottare, cosa su cui almeno Avvenire ha le idee chiare, è stato il primo
giornale a combattere l’utero in affitto, mentre sulle adozioni non saprei, ho
sentito cose che mi fanno pensare a una posizione più morbida, temo).
La proposta educativa su affettività e
sessualità, continua Moia, “va riformulata e riattualizzata”. Peccato che da
nessuna parte nel magistero della Chiesa esiste questa proposizione di intenti.
È davvero
gravissima la confusione che ingenera l’articolo.
Il giornale della Cei dovrebbe avere stampato in fronte il
magistero, non è Repubblica! Gli appelli del magistero a cui fa riferimento il
collega sono sempre affinché si trovi un modo per la cura pastorale delle
persone omosessuali: perché, come ha detto il Papa, nessuno giudica un
omosessuale che cerca Dio. Ma gli omosessuali sono chiamati alla castità (e la
scelta dello scout di civilunirsi pubblicamente immagino non vada in questo
senso). Gli atti omosessuali continuano a essere giudicati dalla Chiesa
oggettivamente disordinati, anche se Moia si affretta a sottolineare che in
Amoris laetitia questo giudizio non è ripetuto. Sottolineatura in mala fede
perché il Papa ha sempre detto che sull’omosessualità lui la pensa come il
catechismo, e il catechismo non è cambiato. Il Papa ha detto che il gender è
uno sbaglio della mente umana, e che insegnarlo nelle scuole è come mettere i
bambini in campi di rieducazione nazista o comunista. Parole sinceramente di
una durezza inequivocabile. Ma è così difficile capire che la condanna della
propaganda omosessualista e il giudizio sugli atti omosessuali NON è in
contrasto con l’accoglienza delle persone, ma anzi, significa volere il vero
Bene delle persone? Richiamare qualcuno alla castità significa dirgli “tu sei chiamato
a un amore più grande”, e io, Chiesa, ti accompagno nel tuo cammino per
arrivarci. La tua verità non è nella tua tendenza sessuale, sia che sia etero
sia che sia omo, cioè che qualcosa nella tua storia abbia incrinato il disegno
di Dio su di te. Inoltre il Papa in AL quando parla delle famiglie delle
persone omosessuali parla delle famiglie di origine, mai e poi mai si è sognato
di definire famiglia un’unione civile. E scrive che coloro che manifestano la
tendenza omosessuale devono avere gli “aiuti necessari per comprendere e
realizzare pienamente la volontà di Dio sulla loro vita”. Non scrive
benediciamo le unioni civili, ma accompagniamo le persone che vivono questa
tendenza alla ricerca di Dio. Parla di ricerca, di un cammino da fare, della
ricerca di un percorso per chi cerca Dio pur dovendo fare i conti con una
condizione, che, l’esperienza lo dice, può anche essere temporanea, perché
ancora nessuno ha dimostrato l’esistenza di una omosessualità innata.
Fermiamoci dunque davanti al
mistero che è ogni persona. Sono d’accordo. Non giudichiamo le persone, come
non siamo in grado di fare neppure con noi stessi. Non condanniamo, come Gesù
non ha condannato. Ma ricordiamo che il giudizio che Gesù ha dato sulla realtà,
al quale cerca da due millenni di conformarsi la Chiesa, è invece un giudizio
chiarissimo sulle cose, un giudizio che è un aiuto alla nostra fragilità, alla
fatica che il cammino per conformarci a quel giudizio ci chiede. Giudicare non
è una brutta parola, anzi, da quando Cristo è venuto a dircelo morendo per
amore nostro, il giudizio, la Verità, ci rende liberi. Dal nostro peccato,
dalle nostre schiavitù. Flessibilità e inclusività e accoglienza sono per gli
uomini, non per le loro bugie che li condannano alla sofferenza. Ci sono tante
piccole realtà cattoliche che da anni, nel silenzio, cercano di accompagnare le
persone omosessuali, come Courage, Luca Di Tolve, Chiara Atzori, e psichiatri
come Tonino Cantelmi che cercano di affrontare la cosa nella libertà dal
pensiero unico.
La pagina di domenica scorsa mi
sembra aderente alla linea molto morbida adottata da Avvenire sul tema delle
unioni civili: sabato abbiamo avuto un incontro sulla famiglia col direttore
Tarquinio sul tema famiglia, a Sanremo, e la percezione mia e di molti presenti
(avvalorata dalla pagina sugli scout), quando si è affrontato il tema, è che il
direttore non fosse contrario al riconoscimento di “alcuni diritti” (in realtà
come ho cercato di dire i diritti già c’erano prima della legge Cirinnà, il cui
vero obiettivo è culturale) alle persone dello stesso sesso che decidano di
unirsi, purché si preservi la differenza rispetto alle unioni tra uomo e donna.
Sarei molto contenta di essermi sbagliata e di scusarmi per quanto ho scritto,
se venissi smentita chiaramente. Ma mi pare che le conclusioni implicite del
discorso ampio e articolato del direttore su natura e cultura, sulla necessità
di non giudicare i sentimenti di nessuno, e sui diritti dei “figli” di coppie
dello stesso sesso fosse questa. Ripeto, aspetto smentita, anzi la anelo,
perché è rimasta solo la Chiesa a dire la Verità alle persone omosessuali, a
prospettare loro un altro modo di guardare alla loro storia, e sarebbe per me
una grande gioia vedere una Chiesa coraggiosa e unita, senza paura di sembrare
fuori moda, orgogliosa di essere erede di Cristo e della Verità, con la
certezza che tutti, anche i più insospettabili di noi, dentro siamo incoerenti
bugiardi gretti e incapaci di qualsiasi bene, qualunque sia la tendenza
sessuale, e che solo Cristo viene a dirci le parole che ci liberano e ci
rendono felici.
Pubblicato su La Verità del 22 agosto 2017
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