Accogliere e integrare può essere l’obiettivo della politica, ma la Chiesa ha un obiettivo che va oltre: annunciare Cristo
Si moltiplicano gli appelli all’accoglienza, spesso anche da
parte di uomini di Chiesa. Quali sono i criteri che la Dottrina sociale della
Chiesa offre per affrontare il problema delle immigrazioni senza cadere nel
vuoto buonismo?
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Mons. G. CREPALDI, Arcivescovo di Trieste |
Una delle vie privilegiate di esercizio della carità è la
politica, la quale richiede anche l’uso della ragione perché non si limita ad
azioni personali di solidarietà ma vuole costruire una società solidale, che
funzioni in tale modo. Non potendo andare tutti a Lampedusa ad accogliere
immigrati bisogna impegnarsi con una buona politica la quale deve sempre
perseguire il bene comune, che non è solo quello degli immigrati, ma anche
quello della nazione accogliente e quello del bene della comunità universale. Quindi le politiche dell’immigrazione
devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza e nello stesso tempo
interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione oltre l’assistenza
immediata e di altri problemi, come per esempio combattere la criminalità
organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune
ONG, non scaricare tutta la responsabilità sull’Italia ma favorire la
collaborazione europea e mediterranea e così via. La carità personale getta
spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in
modo strutturale nella tutela del bene di tutti.
Secondo il recente Decimo Rapporto del vostro Osservatorio, la
questione del rapporto con l’islam assume chiaramente una rilevanza politica e
deve perciò essere giudicata anche con i principi della Dottrina sociale. Cosa
significa per l’integrazione dei migranti di fede islamica?
La politica che si occupa di religioni deve prima di tutto
conoscere le religioni di cui si occupa, evitando di considerarle tutte uguali
o tutte diverse. In altre parole, deve misurarsi con la verità delle religioni,
altrimenti non esercita la propria razionalità politica. Questo è un dovere
della politica che va attuato anche nei confronti dell’islam. È un compito, in
un certo senso, anche della Chiesa, che non dovrebbe limitarsi al solo dialogo
interreligioso o predicare una accoglienza generica e indifferentista. Anche la
Chiesa dovrebbe valutare l’islam – come del resto le altre religioni – alla
luce dei principi della sua Dottrina sociale.
L’integrazione autentica richiede questa valutazione, nel
rispetto di tutti, compreso l’islam che certamente non ha interesse ad essere
considerato diversamente da quello che è. Per conoscere una religione però,
bisogno rifarsi alla sua teologia, alla sua visione di Dio, la quale richiede
sempre al fedele una coerenza rispetto ai suoi principi. Questa coerenza
teologica si impone sempre, prima o dopo. Le discussioni sull’islam “moderato”
o “europeo” qui cadono.
Ecco perché non bisogna far finta che nella teologia islamica
non ci siano elementi che rendono difficile l’integrazione. Ne elenco alcuni:
l’idea di Dio come Volontà, le sue leggi come decreti a cui obbedire alla
lettera, l’impossibilità di un diritto naturale, la coincidenza tra legge
islamica e legge civile, la distinzione antropologica tra categorie di persone,
la priorità della Umma sull’umanità
allargata, l’espansione come conquista… Illudersi che queste ed altre
caratteristiche possano mutare è ingenuo, come pensare che un cattolico possa
rinunciare alla Trinità di Dio e alla incarnazione di Gesù.
Per qualcuno sembra che il fenomeno dell’immigrazione sia
ineluttabile e l’unica soluzione sia la società multietnica fatta di diverse
culture e religioni. Lei che ne pensa?
Bisogna distinguere tra le situazione di fatto e quelle di
diritto. Può darsi che il fenomeno delle migrazioni e delle immigrazioni di
fatto continui, ma nessuno può dire che sia in sé un bene. I vescovi
dell’Africa invitano i loro giovani a non emigrare e la Dottrina sociale della
Chiesa dice che esiste prima di tutto un diritto a “non emigrare” e a rimanere
nella propria nazione e presso il proprio popolo. Del resto, si sa che dietro
la marea migratoria ci celano molti interessi anche geopolitici. Le migrazioni
non sono quindi un bene in sé, la cosa dipende se servono il bene dell’uomo o
no, e se non sono un bene in sé non sono nemmeno ineluttabili, anche se il
giudizio di fatto oggi sembra dirci così.
Lo stesso dicasi per la società multireligiosa: non è un bene in
sé, essa è a servizio del bene comune, che rimane il fine ultimo della comunità
politica. Ci sono religioni che propongono e impongono prassi contrarie al bene
dell’uomo, come la superiorità del maschio sulla femmina o le mutilazioni
genitali. Dire che è un bene in sé significa rinunciare a valutare le religioni
con un criterio di verità.
In un celebre discorso pronunciato 9 giorni dopo l’attacco alle
torri gemelle di New York, il cardinale Giacomo Biffi disse che a proposito
dell’immigrazione «dovere statutario del popolo di Dio e compito di ogni
battezzato è di far conoscere Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e
risorto, e il suo necessario messaggio di salvezza». Questo compito della
comunità cristiana non viene messo un po’ in secondo piano oggi?
L’evangelizzazione e la promozione umana vanno insieme. Questo
vuol dire anche che la promozione umana non può sostituire l’evangelizzazione. Accogliere e integrare può essere
l’obiettivo della politica, ma la Chiesa ha un obiettivo che va oltre:
annunciare Cristo. Ritengo che oggi ci sia la tentazione di fermarsi prima
dell’annuncio.
Sempre secondo Biffi «poiché non è pensabile che si possano
accogliere tutti, è ovvio che si imponga una selezione» e indicava chiaramente
che «la responsabilità di scegliere non può essere che dello Stato italiano,
non di altri». Sembra buon senso, eppure oggi sembra sostituito da un
“ecumenismo” dal sapore “politico”. Sbagliava forse il cardinale Biffi?
Come dicevo sopra, l’ecumenismo politico che accoglie tutte le
religioni indiscriminatamente, significa l’abdicazione della politica al
proprio dovere di perseguire il bene comune, che non è una semplice convivenza
ma una convivenza ordinata. Ci sono aspetti delle religioni che mettono in
pericolo questa convivenza ordinata. Bisogna però anche rovesciare il
ragionamento: la ragione politica occidentale si è indebolita e tollera ormai
tutto. Essa nasconde questa sua debolezza trasformando in valore la sua
indifferenza religiosa. Il debole, come diceva Nietzsche, si difende
trasformando in virtù la propria miseria. Così fa anche l’Europa che chiama
tolleranza religiosa l’indifferentismo religioso. La politica deve essere tollerante ma non può tollerare il male da
qualsiasi parte esso venga, comprese le religioni. Le politiche religiose,
fatta salva la dignità delle persone, devono tenere conto di queste differenze
sia nell’accogliere che nell’integrare e non può mai fare di ogni erba un
fascio.
Lorenzo Bertocchi
La Verità 14 gennaio