La pandemia è un’immensa
sciagura, per tutti i popoli. Ma c’è stato (e c’è) un uso politico della paura da
parte di certe élite di governo? E con quali scopi? Ha ragione chi ritiene che
sia in corso un gigantesco e inquietante esperimento politico?
A parlarne sono alcuni
pensatori “non allineati” che subito il sistema mediatico delegittima
bollandoli come “complottisti”. Ma a notare che qualcosa di strano sta
accadendo è anche – per esempio – il pensatore simbolo dell’europeismo mainstream, Bernard Henri Lévy, che ha appena pubblicato un libro: “Il virus che rende folli”.
Lévy nota, giustamente,
che l’epidemia di Covid non è stata affatto una novità apocalittica nei nostri anni. Rammenta l’influenza di Hong
Kong, “dopo il maggio ‘68”, che fece un milione di morti “per emorragia polmonare o soffocamento” o,
dieci anni prima, l’influenza asiatica, arrivata sempre dalla Cina, che
fece due milioni di morti.
Ma allora non si verificò il panico planetario di
oggi. Lévy si dice “raggelato”, ma non dalla
pandemia: dal “modo molto strano in cui abbiamo reagito questa volta”, dall’“epidemia di paura che ha attanagliato il mondo”.
Infatti “abbiamo visto
le città di tutto il mondo diventare città fantasma. Abbiamo visto tutti, da un capo all’altro del
pianeta… popoli interi tremare e farsi trascinare nelle proprie abitazioni, a volte
a colpi di manganello, come animali selvatici
nelle loro tane”.
Lévy si chiede se è la
“vittoria dei saggi del mondo che vedono in questo grande confinement – (…) il ‘grande internamento’ teorizzato da Michel Foucault
nei testi in cui descriveva i sistemi di potere del futuro – la prova generale di un nuovo tipo di fermo e di arresto domiciliare dei
corpi”. Oppure se è “il contrario” ovvero “il segno, rassicurante, che il mondo è cambiato, che finalmente sacralizza la vita e che tra questa e l’economia, sceglie la vita”.
La seconda ipotesi mi sembra radicalmente confutata da molti fatti e dati
che mostrano come la vita umana nel mondo abbia totalmente perso la sua
sacralità.
Resterebbe la prima, ma
purtroppo Lévy non la analizza. Certo, nota che “è stata la prima volta che abbiamo visto
tutte le menti critiche della galassia di ultrasinistra applaudire a uno stato
di emergenza”. Ma si ferma alla
protesta contro la paura.
Cita però di sfuggita il
filosofo italiano Giorgio Agamben che – essendo di
sinistra – ha scatenato malumori e polemiche proprio a sinistra perché,
riflettendo sulle “conseguenze etiche e politiche” della tempesta Covid ha
colto “la trasformazione dei paradigmi politici che i provvedimenti di eccezione andavano disegnando”.
Nel suo libro “A che punto siamo?” valuta la vicenda Covid “in una prospettiva
storica più ampia” e conclude che qualcosa di importante si stava (e si sta)
sperimentando.
Scrive: “Se i poteri che governano il mondo hanno
deciso di cogliere il pretesto di una pandemia per trasformare da cima a fondo
i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose, ciò significa che quei
modelli erano ai loro occhi in progressivo, inesorabile declino e non erano
ormai più adeguati alle nuove esigenze (…) i poteri dominanti hanno deciso di
abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro
diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi
dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non
ancora del tutto chiaro”.
Davvero si può usare
politicamente “il pretesto di una pandemia” o Agamben esagera? In effetti c’è chi,
già qualche anno fa, ha invitato a “usare”proprio una eventuale pandemia per scopi politici (ovviamente, a suo avviso) lodevoli.
Nel 2009 – quando si paventava la diffusione dell’influenza suina – il famoso
economista e tecnocrate francese Jacques Attali, da acuto analista, in un articolo su “L’Express”, scrisse: “La Storia ci insegna che l’umanità non si evolve in
modo significativo se non quando ha davvero paura: essa allora mette in campo anzitutto dei meccanismi
di difesa; a volte intollerabili (i capri espiatori e i totalitarismi); a volte
inutili (la distrazione); a volte efficaci (strategie terapeutiche, respingendo
se necessario tutti i precedenti principi morali). Poi, una volta terminata la
crisi, trasforma questi meccanismi per renderli compatibili con la libertà
individuale e includerli in una politica sanitaria democratica. Questa iniziale
pandemia” scriveva Attali “potrebbe innescare una di queste paure strutturali”.
In particolare Attali,
prevedendo la necessità di governare “meccanismi di prevenzione e controllo”
per “un’equa distribuzione di farmaci e vaccini”, scriveva: “Verremo quindi, molto più velocemente di
quanto avrebbe prodotto la sola ragione economica, a gettare le basi di un vero
governo mondiale” e “nel frattempo potremmo almeno sperare nella messa in opera
di una vera politica europea in materia”.
Attali nel 2006 aveva
pubblicato “Breve storia del futuro” e già lì vagheggiava un “governo mondiale” che segnava la fine
dell’egemonia americana e vedeva “l’Unione europea avanguardia
dell’iperdemocrazia”. Ma quella sua utopia aveva i tratti di una cupa distopia.
Antonio Socci
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