domenica 5 dicembre 2021

LA CRISI DELLE NASCITE E' UNA CRISI DI SPERANZA

 

Omelia pronunciata da Mons. Massimo Camisasca

Il testo prende spunto dal “Discorso alla Città” sul tema “La crisi demografica e la speranza” nella solennità Del Santo Patrono di Reggio Emilia, San Prospero.

 

Cari fratelli e sorelle,

la riflessione a cui quest’anno ho voluto dedicare il mio Discorso alla Città e alla Diocesi in occasione della solennità del nostro Santo Patrono tratta un argomento che ritengo decisivo per il nostro Paese e per la nostra stessa civiltà: la crisi demografica e la speranza

Mi riferisco all’inverno demografico che caratterizza ormai stabilmente l’Italia e l’intero mondo occidentale. Ho scritto un testo, che vi sarà distribuito al termine della celebrazione, dal quale traggo ora alcuni spunti di riflessione.


La questione della denatalità non riguarda semplicemente la necessità di “far quadrare i numeri”. Essa ha piuttosto a che fare con la possibilità di un Paese, di una cultura, di un popolo, di rigenerarsi, di sfuggire alle sabbie mobili della propria storia. È il parametro su cui si misura la nostra positiva capacità di protenderci al domani con fiduciosa apertura, e dunque di creare e costruire.

La crisi demografica attuale ha numerose cause. L’ambito politico-economico ne costituisce certamente un capitolo significativo, ma non la esaurisce.

C’è una questione fondamentale per la quale tutto sta o cade: la crisi delle nascite è, al fondo, una crisi di speranza. Crisi, cioè, della nostra capacità di andare lietamente incontro al futuro a partire dal riconoscimento di un bene già presente ora, pur tra le fatiche e le difficoltà.

L’affievolirsi della nostra capacità di sperare è la conseguenza del venir meno del nostro rapporto con Dio. Come è stato detto, «il problema dell’uomo è direttamente intrecciato con il problema di Dio. La “crisi di Dio”, infatti, ha condotto lentamente alla crisi dell’uomo»[1].

Le variabili demografiche non si evolvono in modo automatico: le previsioni più accurate possono rivelarsi fallaci, come spesso è accaduto nel corso della storia umana. È comunque certo che lo sviluppo economico e i modelli di società civile si intrecciano alle scelte personali, e questo insieme di fattori influisce sulla crescita della popolazione. L’attuale declino demografico è frutto della reciproca influenza di determinanti economiche e socio-culturali. Questo spiega perché la diminuzione del tasso di crescita della popolazione e il suo invecchiamento inizino ormai ad accomunare i Paesi “sviluppati” a quelli in via di sviluppo[2].

Nel mio discorso prendo in esame molti dati statistici relativi alla natalità e – basandomi anche sugli studi di esperti del settore – cerco di leggerli e comprenderli. Il quadro che ne emerge è sconfortante, anche guardando al respiro corto di tante politiche famigliari che pur si tenta di porre in essere. Lascio a voi la lettura di queste analisi. Ora desidero invece comunicarvi il cuore della mia riflessione, condividendo con voi le conclusioni a cui sono giunto.

Se non si fanno i conti con la radice profonda del malessere culturale, sociale e antropologico, di cui la crisi demografica è solo una conseguenza, non ci potrà essere un’inversione di tendenza. Sono convinto che il fondamento dell’attuale crisi della natalità abbia a che fare con l’avanzare di una sorta di immanentismo e di neopositivismo che hanno ridotto l’orizzonte dell’autocoscienza dell’uomo.

La perdita del senso della trascendenza non è una questione che riguarda innanzitutto la fede. Riguarda l’uomo tout-court, riguarda la possibilità di una progettualità politica, sociale ed economica che non si esaurisca in obiettivi troppo corti e in considerazioni miopi.

Riguarda l’uomo in quanto laico, parte di un popolo e di una storia che lo precede e lo supera. Per queste ragioni in questi anni ho spesso parlato di Dio come della presenza più laica che esista. Egli, prima ancora che oggetto di fede, è il baluardo della possibilità dell’uomo di essere se stesso e di alzare lo sguardo oltre i limiti angusti delle sue paure e della sua individualità. Spero quindi che tutti vedano come la crisi demografica sia profondamente connessa con il modo in cui concepiamo la nostra condizione di creature e il nostro rapporto con ogni cosa. La nostra epoca ha escluso consapevolmente Dio e con lui ogni senso di verticalità dalla scena del mondo e dalle vite degli uomini. Proprio per questo, prima e più profondamente di ogni pur necessaria ristrutturazione economica e politica a sostegno delle nascite è necessario restituire alle donne e agli uomini del nostro tempo il senso della trascendenza.

CONGDON, EUCARESTIA

 

Soltanto nella luce di Dio possiamo capire chi siamo: riguadagnare la fiducia in un disegno buono di cui la nostra vita è parte, al quale nulla sfugge, e che custodisce in un mistero di amore e unità ogni generazione umana. Senza questo respiro ci auto-imprigioniamo nella nostra finitezza: la brevità e le fatiche della vita diventano un peso intollerabile, la scelta di mettere al mondo altri esseri umani un azzardo.

La trascendenza si lascia intravedere in ogni esperienza decisiva: nel morire, nel soffrire e nel gioire, nell’amare, e anche nel modo in cui veniamo al mondo. La trascendenza orizzontale – il vivere oltre se stessi grazie al succedersi delle generazioni – si compie proiettandosi in un dinamismo verticale, che rimanda alle origini stesse del mistero della vita.

Questa percezione si affaccia nella nostra esperienza quando ci collochiamo di fronte alla nostra nascita, della quale non abbiamo potuto decidere circostanze, caratteri, esiti: «la nostra nascita – scrive Fabrice Hadjadj – ci sfugge. […] La nascita è il fatto che viene prima dei miei fatti e dei miei gesti, il fatto iniziale e non assumibile, la trascendenza radicale e concreta in seno alla mia immanenza, il punto cieco e tuttavia focale, insopportabile per chi vuole avere il controllo totale. E tuttavia essa non si è imposta a me. […] Se la mia nascita è un destino, essa è come una vocazione e non un esproprio, come un inizio e non come peso. Mi è accaduta, prima che io potessi assumerne il carico in prima persona»[3]. Veniamo all’esistenza come creature dipendenti: dall’intreccio misterioso di circostanze, incontri e patrimoni genetici che hanno condotto fino a noi; da chi ci ha generati e ha custodito la nostra vita quando non potevamo farlo da soli. E dipendiamo sempre, fino all’ultimo giorno, poiché non è in nostro potere mantenerci nell’essere nemmeno per un momento.

Il luogo in cui sperimentiamo fin dall’inizio, prima ancora di poterla pensare, la trascendenza nella finitezza è la realtà della famiglia, in cui il mistero della nascita è custodito. Nella famiglia ogni nuovo essere umano è accolto in una trama di rapporti che legano tra loro i sessi e le generazioni. La sua forza fa tutt’uno con le relazioni che la costituiscono, nelle quali i genitori e gli adulti significativi svelano il senso delle cose, accolgono il figlio nella sua irripetibilità, lo innestano in una storia che lo precede e che, con il suo apporto concreto, potrà proseguire oltre lui. Per questo essa è generativa per definizione: capace di pro-creare, e cioè di ospitare un nuovo essere, offrendogli la vita dal punto di vista biologico e simbolico, culturale, spirituale[4].

Nel gesto di accogliere una nuova vita si esprime la gratuità per eccellenza. Il fatto stesso di generare una famiglia si regge su una dinamica di reciproco dono e accoglienza tra gli sposi. Questo ci rivela lo scopo per cui siamo al mondo: amare ed essere amati. È il significato ultimo dell’esistenza, nostra e degli altri. È il cuore segreto di ogni cosa.

 

Permettetemi, in conclusione di sottolineare come questa esperienza di gratuità, che ci costituisce, ci precede e ci accompagna indipendentemente dalla nostra coscienza di essa, è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna, in ogni tempo e a qualunque latitudine, ma è illuminata e compiutamente spiegata dall’avvenimento cristiano. «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4, 19). Questo riconoscimento stupefatto di san Giovanni, la sorpresa di essere sempre, in certo modo, preceduti, ci porta al cuore della nostra esistenza, della sua origine e dunque del suo scopo.

Non è il senso della trascendenza in astratto che ci salva da noi stessi, anche se esso può aiutare il nostro sguardo, le nostre scelte, i nostri progetti politici, economici e culturali ad essere più umani e costruttivi.

Non la certezza di un dio in astratto, ma solo quella di un Padre buono, che ci ha creati e amati e che è presente in mezzo a noi può generare una speranza vera e duratura. La nostra vita proviene da un atto di amore eterno: esso ci ha posti nell’essere, continuamente ci fa e ci offre a noi stessi, ci salva dal peccato e dalla morte attraverso il sacrificio che Gesù vive sulla croce per ognuno di noi.

Alla logica prometeica del controllo e della pianificazione si contrappone così lo stupore riconoscente della nostra vocazione: fin dal concepimento siamo introdotti in un orizzonte che trapassa il finito. Il nostro cammino su questa terra non è una peregrinazione solitaria che ci conduce verso una fine ineluttabile, ma la risposta all’iniziativa di un Altro, che ci chiama a Sé.

 

Leggere la vita nella prospettiva della vocazione ci spalanca alla speranza, la «virtù bambina che trascina tutto» narrata da Peguy[5]. In questa direzione nulla sfugge a uno sguardo di amore, alla parola di bene che dall’eternità ha suggellato la nostra vita e che attende, suscita, indirizza, attira, pungola la nostra libertà. Non ci vengono risparmiati la fatica e il peso delle circostanze, ma possiamo poggiare su un punto di unità capace di unificare la nostra esistenza.

Benedetto XVI ci ha spesso ricordato che le nostre piccole speranze hanno bisogno di radicarsi nella «grande speranza» che è Dio solo[6].

L’annuncio cristiano ci offre la luce necessaria per poter guardare al mistero della nascita e alla questione della natalità con speranza, con fiducia. Siamo «passatori»[7] – non padroni – di una vita che riceviamo per libera ed amorosa elargizione; e che l’Infinito di Dio ha voluto toccare e redimere assumendo la condizione umana, nascendo come Bambinello accolto da una famiglia.

Non soltanto né in primo luogo i sostegni e le politiche famigliari, non gli studi economici e sociologici, non l’opportunità politica, ma solo questa speranza, così fondata e accolta, apre alla fiducia nel futuro.

Leopardi si chiedeva: Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga?[8] La certezza della positività della vita, fondata sulla vittoria definitiva di Cristo sul male e sulla morte, è l’unica risposta a questa domanda. La gioia che nasce da essa, testimoniata da tante famiglie delle nostre comunità, è in fondo la sola e più convincente ragione che rende desiderabile e perfino necessario mettere al mondo dei figli”.

 

+ Massimo Camisasca

24 novembre 2021

 

[1] I. Sanna, La questione antropologica: aspetti della riflessione contemporanea, Relazione Corso IRC Arcidiocesi di Cagliari, 7 aprile 2010.

[2] ONU – Department of Economic and Social Affairs, Population Division, World Population Prospects 2019: Highlights, 2019, ST/ESA/SER.A/423.

[3] F. Hadjadj, Ma che cos’è una famiglia? (2014), tr. it. Ares, Milano 2015, pp. 149-151.

[4] Cfr. E. Scabini, Promuovere famiglia nella comunità. Relazione per il Convegno internazionale “Essere generativi nella famiglia e nella comunità”, Università Cattolica, Milano, 16 novembre 2007.

[5] C. Peguy, Portico del mistero della seconda virtù (1911), ebook, trad. it. Parole D’Argento Edizioni, 2017, p. 11.

[6] Cfr. Benedetto XVI, Spe salvi (2007), 31.

[7] L’espressione è di X. Lacroix, Passatori di vita. Saggio sulla paternità (2004), trad. it. EDB, Bologna 2005.

[8] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 52-54.

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