Omelia pronunciata da Mons. Massimo Camisasca.
Il testo prende spunto dal “Discorso alla Città” sul tema “La
crisi demografica e la speranza” nella solennità Del Santo Patrono
di Reggio Emilia, San Prospero.
Cari
fratelli e sorelle,
la
riflessione a cui quest’anno ho voluto dedicare il mio Discorso alla Città e
alla Diocesi in occasione della solennità del nostro Santo Patrono tratta un
argomento che ritengo decisivo per il nostro Paese e per la nostra stessa
civiltà: la
crisi demografica e la speranza.
Mi riferisco all’inverno demografico che caratterizza ormai stabilmente l’Italia e l’intero mondo occidentale. Ho scritto un testo, che vi sarà distribuito al termine della celebrazione, dal quale traggo ora alcuni spunti di riflessione.
La
questione della denatalità non riguarda semplicemente la necessità di “far
quadrare i numeri”. Essa ha piuttosto a
che fare con la possibilità di un Paese, di una cultura, di un popolo, di
rigenerarsi, di sfuggire alle sabbie mobili della propria storia. È il
parametro su cui si misura la nostra positiva capacità di protenderci al domani
con fiduciosa apertura, e dunque di creare e costruire.
La
crisi demografica attuale ha numerose cause. L’ambito politico-economico ne
costituisce certamente un capitolo significativo, ma non la esaurisce.
C’è una questione fondamentale per la
quale tutto sta o cade: la crisi delle nascite è, al fondo, una
crisi di speranza. Crisi, cioè, della nostra capacità di andare lietamente
incontro al futuro a partire dal riconoscimento di un bene già presente ora,
pur tra le fatiche e le difficoltà.
L’affievolirsi della nostra capacità di
sperare è la conseguenza del venir meno del nostro rapporto con Dio. Come è stato detto, «il
problema dell’uomo è direttamente intrecciato con il problema di Dio. La “crisi
di Dio”, infatti, ha condotto lentamente alla crisi dell’uomo»[1].
Le
variabili demografiche non si evolvono in modo automatico: le previsioni più
accurate possono rivelarsi fallaci, come spesso è accaduto nel corso della
storia umana. È comunque certo che lo sviluppo economico e i modelli di società
civile si intrecciano alle scelte personali, e questo insieme di fattori
influisce sulla crescita della popolazione. L’attuale declino demografico è
frutto della reciproca influenza di determinanti economiche e socio-culturali.
Questo spiega perché la diminuzione del tasso di crescita della popolazione e
il suo invecchiamento inizino ormai ad accomunare i Paesi “sviluppati” a quelli
in via di sviluppo[2].
Nel
mio discorso prendo in esame molti dati statistici relativi alla natalità e –
basandomi anche sugli studi di esperti del settore – cerco di leggerli e
comprenderli. Il quadro che ne emerge è sconfortante, anche guardando al
respiro corto di tante politiche famigliari che pur si tenta di porre in
essere. Lascio a voi la lettura di queste analisi. Ora desidero invece
comunicarvi il cuore della mia
riflessione, condividendo con voi le conclusioni a cui sono giunto.
Se non si fanno i conti con la radice profonda del malessere culturale,
sociale e antropologico, di cui la crisi demografica è solo una
conseguenza, non ci potrà essere un’inversione di tendenza. Sono convinto che il
fondamento dell’attuale crisi della natalità abbia a che fare con l’avanzare di
una sorta di immanentismo e di neopositivismo che hanno ridotto l’orizzonte
dell’autocoscienza dell’uomo.
La perdita del senso della trascendenza non è una questione che
riguarda innanzitutto la fede. Riguarda l’uomo tout-court, riguarda la possibilità di una progettualità politica, sociale
ed economica che non si esaurisca in obiettivi troppo corti e in considerazioni
miopi.
Riguarda l’uomo in quanto
laico, parte di un popolo e di una storia che lo precede e lo supera. Per
queste ragioni in questi anni ho spesso parlato di Dio come della presenza più laica che esista. Egli, prima ancora
che oggetto di fede, è il baluardo della possibilità dell’uomo di essere se
stesso e di alzare lo sguardo oltre i limiti angusti delle sue paure e della
sua individualità. Spero quindi che tutti vedano come la crisi demografica sia
profondamente connessa con il modo in cui concepiamo la nostra condizione di
creature e il nostro rapporto con ogni cosa. La nostra epoca ha escluso consapevolmente Dio e con lui ogni senso di
verticalità dalla scena del mondo e dalle vite degli uomini. Proprio per
questo, prima e più profondamente di ogni pur necessaria ristrutturazione
economica e politica a sostegno delle nascite è necessario restituire alle donne e agli
uomini del nostro tempo il senso della trascendenza.CONGDON, EUCARESTIA
Soltanto nella luce di Dio possiamo capire chi siamo: riguadagnare la fiducia
in un disegno buono di cui la nostra vita è parte, al quale nulla sfugge, e che
custodisce in un mistero di amore e unità ogni generazione umana. Senza questo
respiro ci auto-imprigioniamo nella nostra finitezza: la brevità e le fatiche
della vita diventano un peso intollerabile, la scelta di mettere al mondo altri
esseri umani un azzardo.
La
trascendenza si lascia intravedere in ogni esperienza decisiva: nel morire, nel
soffrire e nel gioire, nell’amare, e anche nel modo in cui veniamo al mondo. La
trascendenza orizzontale – il vivere oltre se stessi grazie al succedersi delle
generazioni – si compie proiettandosi in un dinamismo verticale, che rimanda alle
origini stesse del mistero della vita.
Questa
percezione si affaccia nella nostra esperienza quando ci collochiamo di fronte
alla nostra nascita, della quale non
abbiamo potuto decidere circostanze, caratteri, esiti: «la nostra nascita –
scrive Fabrice Hadjadj – ci sfugge. […] La nascita è il fatto che
viene prima dei miei fatti e dei miei gesti, il fatto iniziale e non
assumibile, la trascendenza radicale e concreta in seno alla mia immanenza, il
punto cieco e tuttavia focale, insopportabile per chi vuole avere il controllo
totale. E tuttavia essa non si è imposta a me. […] Se la mia nascita è un
destino, essa è come una vocazione e non un esproprio, come un inizio e non
come peso. Mi è accaduta, prima che io potessi assumerne il carico in prima
persona»[3]. Veniamo all’esistenza come creature
dipendenti: dall’intreccio misterioso di circostanze, incontri e patrimoni
genetici che hanno condotto fino a noi; da chi ci ha generati e ha custodito la
nostra vita quando non potevamo farlo da soli. E dipendiamo sempre, fino
all’ultimo giorno, poiché non è in nostro potere mantenerci nell’essere nemmeno
per un momento.
Il
luogo in cui sperimentiamo fin dall’inizio, prima ancora di poterla pensare, la
trascendenza nella finitezza è la realtà
della famiglia, in cui il mistero della nascita è custodito. Nella famiglia
ogni nuovo essere umano è accolto in una trama di rapporti che legano tra loro
i sessi e le generazioni. La sua forza fa tutt’uno con le relazioni che la
costituiscono, nelle quali i genitori e gli adulti significativi svelano il
senso delle cose, accolgono il figlio nella sua irripetibilità, lo innestano in
una storia che lo precede e che, con il suo apporto concreto, potrà proseguire
oltre lui. Per questo essa è generativa per definizione: capace di
pro-creare, e cioè di ospitare un nuovo essere, offrendogli la vita dal punto
di vista biologico e simbolico, culturale, spirituale[4].
Nel gesto di accogliere una nuova vita si
esprime la gratuità per eccellenza. Il fatto stesso di generare una famiglia si regge su una
dinamica di reciproco dono e accoglienza tra gli sposi. Questo ci rivela lo
scopo per cui siamo al mondo: amare ed essere amati. È il significato ultimo
dell’esistenza, nostra e degli altri. È il cuore segreto di ogni cosa.
Permettetemi, in
conclusione di sottolineare come questa esperienza di gratuità, che ci
costituisce, ci precede e ci accompagna indipendentemente dalla nostra
coscienza di essa, è parte del patrimonio di ogni uomo e di ogni donna, in ogni
tempo e a qualunque latitudine, ma è illuminata e compiutamente
spiegata dall’avvenimento cristiano. «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per
primo» (1Gv 4, 19). Questo riconoscimento stupefatto di san
Giovanni, la sorpresa di essere sempre, in certo modo, preceduti, ci porta al
cuore della nostra esistenza, della sua origine e dunque del suo scopo.
Non è il senso della
trascendenza in astratto che ci salva da noi stessi, anche se esso può aiutare
il nostro sguardo, le nostre scelte, i nostri progetti politici, economici e
culturali ad essere più umani e costruttivi.
Non la certezza di un dio
in astratto, ma solo quella di un Padre buono, che ci ha creati e amati e che è
presente in mezzo a noi può generare una speranza vera e duratura. La nostra
vita proviene da un atto di amore eterno: esso ci ha posti nell’essere,
continuamente ci fa e ci offre a noi stessi, ci salva dal peccato e dalla morte
attraverso il sacrificio che Gesù vive sulla croce per ognuno di noi.
Alla
logica prometeica del controllo e della pianificazione si contrappone così lo
stupore riconoscente della nostra vocazione: fin dal concepimento siamo
introdotti in un orizzonte che trapassa il finito. Il nostro cammino su questa terra non è una peregrinazione solitaria
che ci conduce verso una fine ineluttabile, ma la risposta all’iniziativa di un
Altro, che ci chiama a Sé.
Leggere
la vita nella prospettiva della vocazione
ci spalanca alla speranza, la «virtù bambina che trascina tutto» narrata da
Peguy[5]. In questa direzione nulla sfugge a
uno sguardo di amore, alla parola di bene che dall’eternità ha suggellato la
nostra vita e che attende, suscita, indirizza, attira, pungola la nostra
libertà. Non ci vengono risparmiati la fatica e il peso delle circostanze, ma
possiamo poggiare su un punto di unità capace di unificare la nostra esistenza.
Benedetto
XVI ci ha spesso ricordato che le nostre piccole speranze hanno bisogno di
radicarsi nella «grande speranza» che è Dio solo[6].
L’annuncio
cristiano ci offre la luce necessaria per poter guardare al mistero della
nascita e alla questione della natalità con speranza, con fiducia. Siamo
«passatori»[7] – non padroni – di una vita che
riceviamo per libera ed amorosa elargizione; e che l’Infinito di Dio ha voluto
toccare e redimere assumendo la condizione umana, nascendo come Bambinello
accolto da una famiglia.
Non
soltanto né in primo luogo i sostegni e le politiche famigliari, non gli studi
economici e sociologici, non l’opportunità politica, ma solo questa
speranza, così fondata e accolta, apre alla fiducia nel futuro.
Leopardi
si chiedeva: Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi
di quella consolar convenga?[8] La
certezza della positività della vita, fondata sulla vittoria definitiva di
Cristo sul male e sulla morte, è l’unica risposta a questa domanda. La gioia
che nasce da essa, testimoniata da tante famiglie delle nostre comunità, è in
fondo la sola e più convincente ragione che rende desiderabile e perfino
necessario mettere al mondo dei figli”.
+
Massimo Camisasca
24 novembre 2021
[1] I. Sanna, La questione
antropologica: aspetti della riflessione contemporanea, Relazione Corso IRC
Arcidiocesi di Cagliari, 7 aprile 2010.
[2] ONU – Department of Economic and Social Affairs, Population
Division, World Population Prospects 2019: Highlights, 2019,
ST/ESA/SER.A/423.
[3] F. Hadjadj, Ma che cos’è
una famiglia? (2014), tr. it. Ares, Milano 2015, pp. 149-151.
[4] Cfr. E. Scabini, Promuovere
famiglia nella comunità. Relazione per il Convegno internazionale “Essere
generativi nella famiglia e nella comunità”, Università Cattolica, Milano, 16
novembre 2007.
[5] C. Peguy, Portico del
mistero della seconda virtù (1911), ebook, trad. it. Parole D’Argento
Edizioni, 2017, p. 11.
[6] Cfr. Benedetto XVI, Spe
salvi (2007), 31.
[7] L’espressione è di X.
Lacroix, Passatori di vita. Saggio sulla paternità (2004), trad. it.
EDB, Bologna 2005.
[8] G. Leopardi, Canto notturno di un pastore
errante dell’Asia, vv. 52-54.
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