è un saggio del 1968 di AUGUSTO DEL NOCE (1910 - 1989).
In quel 1968 l’incontro con Don GIUSSANI e con DEL NOCE fu per me l’inizio di un viaggio felice che mi affascina tutt’ora.
Un viaggiosimile a quello descritto da T. S. ELIOT nei Cori da “La
Rocca”: “spesso sostando, perdendo tempo,
sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un'altra via.”
La vocazione
di San Matteo
Caravaggio, Roma, San Luigi dei Francesi (1599)
Appunti per una filosofia dei giovani
Augusto del Noce
(Vita e Pensiero, 1968, V,pp. 399-413)
La "rivoluzione studentesca" ha colto di sorpresa così
gli intellettuali come i politici. È stata l'improvvisa e imprevista
"rivelazione" dello stato d'animo dei giovani; dobbiamo avere il
coraggio di dichiararlo, ci siamo trovati davanti al frutto morale dell'ultimo
ventennio e non prevedevamo che fosse tale, né in bene né in male. Sulle
valutazioni, positive o negative, ha prevalso lo stupore.
Non si può quindi isolare, ne' gli
"studenti" l'hanno isolato, il problema delle rivendicazioni
universitarie da una questione assai più ampia. La gioventù contesta i
risultati morali degli ultimi vent'anni e disprezza gli intellettuali della
generazione ormai matura, quanto più si sforzano di apparire giovani e di
essere adeguati al progresso dei tempi. Il che significa: quel che noi giovani
sentiamo, il disagio che vogliamo superare, non trova corrispondenza nei
modelli anche più avanzati che la generazione degli intellettuali che si è
formata intorno al '40 vorrebbe proporci; e ciò perché ci troviamo ad affrontare
una situazione morale nuova, che essi non prevedevano, ne sanno ora
comprendere. Anche i più estremisti tra loro appartengono al sistema che
contestiamo.
Parlo di un contrasto di
generazioni: mi si obietterà che il concetto di generazione è equivoco e ambiguo.
Certamente lo so, ma penso che qui sia necessario usarlo, come il più
approssimato, anche se non lo si è fatto oggetto di un'analisi esaustiva.
Consideriamo infatti la recente storia d'Italia: la generazione dei giovani tra
il '43 e il '45 ha "contestato" quanto avevano fatto coloro che erano
stati giovani tra il '19 e il '22; oggi la loro opera si trova a sua volta
contestata dai giovani del '67-'68. La corrispondenza temporale non potrebbe
essere più precisa, 24 anni: dal 1919, in Italia ogni generazione
"contesta il sistema"; la regolarità matematica avrebbe fatto la
gioia di Giuseppe Ferrari. Sono, certamente, lontanissimo dall'approvare il
giovanilismo, e lo si vedrà. Tuttavia, resta che l'insoddisfazione del giovane
rispetto all'anziano è un fatto che deve venire spiegato; e per aspetti
negativi che possa contenere, per manifestazioni deteriori a cui possa aver
dato origine, può anche contenerne dei buoni.
Quest'analisi che è, insieme,
rinuncia alla condanna massiccia, come ai tentativi di giustificazione
indiscriminata, è resa necessaria da una situazione che si è manifestata più
densa di pericoli di quanto le persone rese accorte dall'"esperienza"
non riuscissero a immaginare (perché, per mature e riflessive che siano
diventate, continuano a immaginare il ribellismo giovanile nella forma che
assumeva al tempo della loro gioventù); ma che pure può dar luogo a un certo
filo di speranza.
1. La contestazione
È rivolta
contro la società del benessere o tecnologica o tecnocratica o opulenta, come
che la si voglia definire. Ma è da capire che per società del benessere si vuol
significare quella che pone il benessere come fine; la precisazione è
necessaria perché assai spesso la si ritiene quella che, mossa dalla
consapevolezza morale e religiosa dell'unità del genere umano, o anche
semplicemente dallo scopo di eliminare le tensioni rivoluzionarie (le due
finalità possono ben accordarsi), vuole la maggiore diffusione del benessere
tra i meno abbienti e i sotto sviluppati. Se così la si intende, si potrebbe
forse non approvarla? La società del benessere non avrebbe altro fine se non
quello di realizzare l'eliminazione definitiva della schiavitù; sarebbe quindi
richiesta dai valori morali tradizionali, anche se essi, nella loro nuova
attuazione, debbano incontrare ostacoli diversi da quelli del passato.
Vero è che bisogna ben distinguere
tra questi due significati, giacché la società attuale, anche se lontana
dall'avere completamente vinto, è la società del benessere nel primo senso.
L'avvertenza non è affatto superflua, perché la mancata distinzione ha fatto sì
che la maggior parte degli intellettuali cattolici siano stati scarsamente
sensibili alla novità della situazione, e non si siano resi adeguata ragione di
quel continuo scadimento dei valori religiosi e morali consacrati dalla
tradizione, che pure la più elementare esperienza pone sotto i loro occhi.
Oggetto della contestazione è il
sistema "occidentale" del dopoguerra nella sua "globalità",
quale si è costituito come alternativa al comunismo; ma l'alternativa è tale
che lo stesso revisionismo russo tende a inserirvisi come uno dei poli
egemonici. Insomma: gli intellettuali di sinistra avevano, in genere, salutato
il nuovo corso russo, come processo di democratizzazione; continuando con ciò
il giudizio di coloro (tra noi, in primo luogo Salvemini) che nel 1917 avevano
salutato l'opera di Kerenski, come di chi intendeva far entrare la Russia
nell'orbita delle potenze democratiche, autorizzando con ciò l'impostazione
ideologica della prima guerra mondiale come lotta delle democrazie contro le
potenze autoritarie. Allora fu la storia a prendersi beffe di questo giudizio;
oggi, il giudizio esattamente simmetrico è beffato dai giovani.
Ma passiamo ai caratteri morali
della società del benessere, intesa nel primo senso. Per semplificare
l'argomento, partirò da alcune perfette osservazioni di Felice Balbo: "...
quando lo scopo della società non è più quello della 'vita buona', ma quello
del 'benessere' ossia del massimo possibile soddisfacimento dei gusti e degli appetiti
— più elementari e necessari, o più raffinati e alternativi non importa —, la
filosofia diviene effettivamente superflua... Da quando i termini usuali con
cui i filosofi parlano del loro lavoro o giudicano le filosofie non sono più,
in primo luogo, 'vero' e 'falso' ma 'importante' e 'insignificante', originale
e banale, eretico e dogmatico, sincero e retorico, progressivo e reazionario,
ecc., si può dire che la fiducia nel filosofare come tale, e non solo in questa
o quella filosofia, è scossa alle radici" (Balbo, Opere, Boringhieri,
Torino, 1963, pp. 366 e 364). Se le leggiamo attentamente, ne ricaviamo tre
verità essenziali:
1) che quando si fa del benessere il
fine della società, la filosofia come tale dev'essere abolita. Quel che resta è
la scienza di cui la filosofia, al più, studierà la metodologia.
A partire da ciò riprendono nuova vita tutti i peggiori fondi del tardo
ottocento, il mito della Scienza e quello dell'Evoluzione. Infatti la Scienza
o, per meglio dire, la scienza moderna, può studiare l'uomo soltanto come
animale, di specie e di grado superiore. Questo è il suo limite, non la sua
colpa, ma quando la filosofia abdica in favore della scienza e se ne fa
l'ancella, la differenza qualitativa fra l'uomo e l'animale va perduta.
Per l'elevazione della scienza a tipo assoluto di conoscenza, viene meno
l'interiorità (la presente perdita del pudore non ne è che l'aspetto sensibile;
che posto può esserci ancora per il pudore se la scienza aggettiva tutto?) e
l'assolutizzazione dello scientismo deve anche significare la fine assoluta
delle religioni (teologia della "morte di Dio", ecc.). È per questa
riduzione dell'uomo ad animale (1) che si pensa, una volta soddisfatti nella
misura più larga i bisogni sensibili dell'uomo, tutti gli istinti aggressivi
verranno a cessare: l'utopia tipica della società del benessere.
2) Quanto sia oggi diffusa,
soprattutto presso gli intellettuali, la malafede, si è spesso osservato. Ma
non si è segnalata abbastanza la connessione di ciò con lo sviluppo della
società del benessere. Di fatto: una società che abolisca i giudizi in termini
di vero e di falso, non può non autorizzare il diritto alla menzogna, alla
malafede; che saranno riconosciute come lecite quando porteranno chi le
professa a un risultato positivo. Giudizio che è poi una variante della celebre
frase di Nietzsche sulla storia della morale, come storia della giustificazione
dei delitti che hanno avuto un esito felice.
3) L'opposizione alla società del
benessere non può essere condotta da un punto di vista reazionario, e ciò
semplicemente perché l'opposizione di progressivo e di reazionario è interna al
suo linguaggio. Reazionario è chi si oppone al progressivo, nella convinzione,
in fondo, di aver già perduto. Criticare realmente la società del benessere, è
andar oltre l'opposizione del progressivo e del reazionario.
Due altre osservazioni sono da
aggiungere, a riguardo del rapporto tra marxismo e società del benessere e del
carattere di novità e di antitradizione di questa.
La filosofia implicita nella società
del benessere, è lo sviluppo radicale di un momento del marxismo, quello per
cui si presenta come "relativismo assoluto" (conseguente al
materialismo storico); sviluppo così rigoroso da giungere a eliminare l'altro,
quello per cui si presenta come pensiero dialettico e dottrina della
rivoluzione. In breve segna la vittoria del positivismo e sociologismo sul
marxismo; di un positivismo che ha deposto gli aspetti romantici che erano
propri delle sue forme ottocentesche.
Ma con ciò ha raggiunto una forma di
empietà maggiore del marxismo.
Perché, pur essendo rigorosamente ateo, pur negando ogni rivelazione e ogni
soprannaturale, il marxismo, nella sua versione comunista è infatti una
religione, l'Avvenire sostituendo l'Eterno e la Totalità l'Assoluto e la Città
di Dio. Invece, la società del benessere è l'unica nella storia del mondo che
non abbia origine da una religione, ma sorga essenzialmente contro una
religione, anche se, per paradosso, questa religione è la marxista (ma
successivamente, la critica si estende a ogni altra forma di religione). Non a
caso il punto di vista del suo intellettuale si riassume nelle due seguenti
affermazioni: accettazione della morte di Dio, e posizione critica rispetto al
marxismo in quanto ancora, a suo modo, è religioso. Da questa novità deriva il
suo antitradizionalismo; la sua prospettiva storica, è, in sostanza, la
seguente: nella storia c'è stata una cesura definitiva rappresentata dalla
seconda guerra mondiale; non sono stati vinti soltanto fascismo e nazismo, ma l'intera
vecchia tradizione europea; e fascismo e nazismo devono essere interpretati
come fenomeni conseguenti alla paura del progresso storico, o come si suoi dire
oggi, della trascendenza, usando questo termine in un significato intramondano.
In conseguenza di tale giudizio, chi si richiama alla tradizione è sempre,
quale che sia la sua consapevolezza, un "reazionario" o un
"fascista" (termini che vengono stoltamente identificati).
Di più, la società del benessere è
intrinsecamente totalitaria nel senso che la cultura vi è completamente
subordinata alla politica. Ricavo da un recente notevolissimo scritto di
Umberto Segre: "a queste condizioni però, il patto Stato-grandi imprese,
assume come unica regola l'efficienza e la crescente produttività. Tutto dovrà
essergli sacrificato. Gaibraith ha l'onestà di dichiararlo: 'la tecnologia è
sempre bene; l'incremento economico è sempre bene; le grandi aziende hanno come
norma interna un incremento indeterminato; il consumo dei beni che esse
producono, costituisce l'optimum della felicità: e nulla deve interferire nei
confronti che accordiamo alla tecnologia e all'incremento economico, e
all'aumento dei consumi'. Una società così configurata non ammette più
autonomie di sovrastrutture culturali, religiose e politiche... La cultura è
per definizione merce di consumo, o, quando è scientificamente ricercata e
apprezzata, è a sua volta strumento per l'ulteriore incremento di efficienza e
di produzione" (nella rivista Ideologie, 1968, p. 29).
Qualcuno osserverà che tale società
rispetta le forme democratiche; ma è ben debole argomento, perché non c'è
potere che non le rispetti, quando dispone di strumenti di controllo e di
oppressione reale che abbiano una particolare efficacia.
Può sembrare che con ciò mi sia
allontanato dal tema delle agitazioni studentesche". Mi sembra invece di
esser risalito sino alle condizioni minime per intenderle.
Già da quel che ho detto risultano
chiare due conseguenze:
1) che l'inquietudine e
l'insofferenza "studentesca", e la loro diffidenza per gli anziani
sarebbero per sé dei fenomeni positivi; esprimono infatti la ribellione della
natura umana al processo, insieme di dissacrazione e di disumanizzazione,
caratteristico delle due società atee, la marxistica e l'opulenta, la prima
delle quali ha il destino, correlativo allo sviluppo economico, di rifluire
nella seconda; non vogliono appartenere a questo sistema in qualità di
strumenti, il che per altro dovrebbe necessariamente avvenire, perché la
società del benessere non conosce che strumenti; e nel voler riaffermare la
loro umanità, fanno benissimo. Il guaio è che interviene a deviarli
l'estremismo, come si vedrà.
2) Che gli "studenti"
hanno almeno intravisto, e lo hanno fatto per lavoro proprio, il nesso tra le
condizioni della scuola e il sistema sociale che si sta affermando. Leggo, ad
esempio, in un loro opuscolo che le ricerche delle facoltà umanistiche non servono
"se non ad aumentare il prestigio di chi le svolge e gli istituti di
ricerca delle facoltà scientifiche si sono praticamente trasformati in un
reparto dell'ufficio di presentazione dell'industria che finanzia e controlla
la ricerca"; e che l'università è una struttura feudale di cui "la
ricerca" è il blasone.
Lasciamo da parte l'evidente
esagerazione giovanile; dobbiamo però riconoscere che una linea di tendenza è
stata individuata. Perché una volta che il criterio del vero, come criterio
vissuto, sia messo da parte, e sia stato sostituito con quelli dell'originale,
dell'importante, del nuovo, del sincero, dell'autentico, dell'eretico, del
progressivo, ecc., è inevitabile che quel che conti sia soltanto l'affermazione
di se'. Dunque, nel caso della scuola — in cui non può non riflettersi il clima
morale della società, pur incontrando resistenze che però alla lunga saranno
vinte — il prestigio del docente; e una ricerca condotta con la sola finalità
del suo aumento non potrà risultare, per accurata che si presenti, che come
preziosa e accademica. Tale da non servire a nulla, dice lo stesso opuscolo:
col che "i giovani" hanno ragione se vogliono intendere che non
illumina per nulla sulle scelte che essi dovranno operare nella realtà
effettuale. È troppo facile derivare da questo primo carattere tutti i difetti
che saranno essenziali alla scuola universitaria della società del benessere;
nelle scuole umanistiche domineranno un estrinseco filologismo o un ermetismo;
nelle scientifiche un tecnicismo al servizio dei grandi feudi industriali;
intorno al professore il piccolo gruppo dei futuri vassalli; gli altri, gli
esclusi. Ho letto, anche se stento a crederlo, che in una facoltà si sarebbero
fatti per una disciplina, seicento esami in due giorni: dunque, l'incontro tra
il professore e la massima parte degli allievi è durato esattamente cinque
minuti, nei quali il professore faceva la parte di giudice e lo studente, più
che di esaminando, di accusato!
Non insisto oltre su aspetti di una
situazione che è ormai nota a tutti. Quel che mi importava era di ricondurre i
difetti alla natura di un sistema, che non si è ancora certo perfettamente
attuato, a cui ancora è possibile resistere, ma che è tuttavia in processo di
realizzazione. Alla fine della guerra, e davanti alla minaccia comunista, due
vie si presentavano possibili: un risveglio religioso, o la società del
benessere.
Non è questa l'occasione di spiegare
perché la scelta si sia operata per la seconda. Sotto un certo rapporto, era
difficile che ciò potesse non avvenire, senza la comparsa di grandissime
personalità religiose (2); ma il movimento avrebbe potuto almeno essere
contrastato ed arginato, se gli intellettuali avessero avuto coscienza di quel
che la sostituzione dell'ideale del "benessere" a quello della vita
buona importa; e se non avessero, per una gran parte, tradito il loro compito,
attraverso la ricerca di una generale "demitizzazione" intesa in
realtà come critica di ogni "autorità" dei valori, che accompagna
come giustificazione culturale, quel processo di abolizione del sacro che è
essenziale alla società opulenta.
Onde il diffondersi nelle menti,
senza incontrare che scarsa resistenza, di quel rinnovato sansimonismo in cui
si deve ravvisare l'ideologia che unifica cattolici e laici nella società del
benessere (Saint-Simon è il vero inventore della mentalità tecnocratica) con le
immense devastazioni che vi ha prodotto; anche nei cattolici perché, a mio modo
di vedere, il nuovo modernismo cattolico deve necessariamente incontrare nel
suo processo il "nuovo cristianesimo" sansimoniano ed esserne
assorbito, sino a ripetere il processo da Saint-Simon a Comte, dissolvendo il
cristianesimo in una vaga religione dell'umanità; quel "nuovo
cristianesimo", nei cui riguardi si dovrebbe oggi riprendere la critica
decisiva che gli fu mossa da Rosmini, in un saggio che è pressoché sconosciuto
(3).
2. L'estremismo
Alla considerazione di tale
devastazione dobbiamo ricorrere se vogliamo spiegare il modo in cui il pure
realissimo e in sé positivo disagio della gioventù ha preso forma; e che è tale
da far cangiare nel pessimismo più amaro l'ottimismo iniziale.
Infatti è comparso, sotto forma in
apparenza di intransigenza e di consequenzialità, in realtà in precisa
funzione, anche se inconsapevole, di estrema radicalizzazione dei mali
dell'ordine esistente, un estremismo che della società del benessere è il puro
passivo (idealmente) prodotto. Ne' vale rispondere che è un estremismo
condiviso da pochissimi; perché la minoranza che esso ha informato è riuscita a
imporsi in parecchie delle università maggiori.
Perché puro prodotto? Perché accetta
supinamente allo stato di poltiglia frammentaria quei principi ideali che sono
all'inizio del processo che ha portato al sistema attuale; quel sistema che
vorrebbe contestare.
Consideriamo infatti la sua
premessa, il mito giovanilistico. I giovani hanno sempre ragione perché
esprimono il senso della storia in movimento, e il compito degli intellettuali
è quello di interpretarli; esso nasce nella sinistra hegeliana ed è connesso
con tutti i suoi temi filosofici. Non so se l'autorità di san Tommaso goda
ancora credito presso i cattolici giovani. Posto che conti ancora qualcosa, è
da osservare come egli pensasse altrimenti: per lui l'età della saggezza
metafisica era normalmente la senectus tra i cinquanta e i settantenni (cfr.
Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo; IV Sent., dist. 40). È sconcertante
osservare come il tema "dei giovani", inizialmente filosofico,
accompagni il processo che porterà appunto alla negazione della metafisica e
della teologia. Quel curioso passo di san Tommaso non è dunque davvero scritto
a caso!
È vero che si appellano a due
maestri, a Mao e a Marcuse. Ma, vediamo.
Del maoismo, poco si sa con
certezza; un dato solo è sicurissimo, che il marxismo è vitalizzato in Cina da
un fortissimo spirito nazionalistico. Nel pensiero e nella prassi della
rivoluzione marxista, i cinesi hanno cercato lo strumento di liberazione da
umiliazioni senza nome, che duravano da quando il grande piano del padre Matteo
Ricci era stato interrotto. Il loro marxismo è del resto elastico e del tutto
subordinato alla liberazione nazionale. Si tratta di liberarsi della soggezione
anche rispetto alla Russia; quando in Russia vigeva ancora l'ortodossismo fu
elaborata l'ideologia dei "cento fiori"; quando la Russia si
incamminò per la via cosiddetta del revisionismo, allora fu proclamato
quell'intransigentismo dottrinale che domina oggi. Le formule maoiste possono
essere anche conformi al marxismo autentico: ma sta il fatto che sono state
paradossalmente ritrovate non già per la via classista, ma per quella
nazionale. Non si può, insomma, essere maoisti senza essere, per nazione,
cinesi.
Si può pensare che i giovani
rimpiangano lo spirito, a suo modo religioso, che informava il marxleninismo
originario. Oggi però il marxismo può conservare quest'aspetto soltanto nei
paesi sottosviluppati; e ricercare le condizioni di sottosviluppo non è
possibile; è qualcosa di altrettanto assurdo della ricerca di imporre
l'ignoranza. Forse che si può pensare a un accordo tra "studenti" e
operai per ristabilirle?
Passiamo all'altro maestro, Marcuse.
Al riguardo del cui pensiero è da osservare: ha inteso assai bene, in anni
lontani (Cfr. Marcuse, Ragione e rivoluzione, 1941) il rapporto tra filosofia e
rivoluzione in Marx. Più di recente ha messo in luce la necessità per cui il
marxismo deve cedere rispetto alla società tecnologica (Cfr. Marcuse, Il
marxismo sovietico, 1963):
— ha condotto nell'Uomo a una
dimensione una critica rigorosa della società tecnologica, che però è la
semplice verifica delle previsioni degli scrittori tradizionalisti e
reazionari, di un Guénon, per esempio;
— ma d'altra parte è per lui un
assioma che le negazioni metafisiche e teologiche pronunciate da Feuerbach e da
Marx non possano più essere messe in discussione. Perciò la via d'uscita a cui
si trova costretto è una vaga utopia sulla riabilitazione degli istinti e sulla
conciliazione tra la ragione e il senso. Anche se detta molto più
elegantemente, è destinata a non differire gran che, quando venga
popolarizzata, dalle teorie del Reich sulla rivoluzione sessuale. Dunque, una
rivoluzione antipuritana è quel che egli sa proporre: un vero ferro di legno,
per una ragione storica intrinseca, che la politica dei puritani fu il primo
modello dell'azione rivoluzionaria, e che il motivo puritano è essenziale a
ogni posizione rivoluzionaria seria: gli esempi della storia non sono certo
difficili a trovare. Marcuse può perciò essere definito come il filosofo della
decomposizione della rivoluzione.
Passando dal maestro Mao al maestro
Marcuse (autori che, del resto, non si possono conciliare) i rivoluzionari del
movimento "studentesco" arrivano alla contraddizione pura.
Non si può negare che il pensiero di
Marcuse abbia un reale interesse, ma esattamente per i motivi inversi a quelli
per cui oggi è invocato:
— serve a mostrare il nullismo, appena letterariamente mascherato dalla ripresa
dei motivi schilleriani sulla libertà e sul gioco, a cui deve arrivare un
pensiero che, per un verso, accetti le negazioni di Feuerbach e di Marx, e, per
l'altro, coinvolga rigorosamente nella critica le affermazioni del marxismo e
quelle del pensiero che sottende la società tecnologica;
— serve pure a mettere in luce come il pensiero rivoluzionario derivi la sua
forza, sempre, dall'appropriazione dei temi della critica controrivoluzionaria;
già Saint-Simon e Marx lo avevano fatto; Marcuse lo rifà a distanza di un
secolo, e a variate condizioni sociali. Ma questo serve pure a mostrare come la
critica del pensiero rivoluzionario non possa esser mossa a partire da un punto
di vista reazionario (di ritorno al passato); quando si presenta come solidale
a tale posizione, il suo riassorbimento da parte del pensiero rivoluzionario è
inevitabile;
— inoltre, è pur vero che se si vogliono unificare Marx, Freud e Heidegger — i
tre idoli della generazione degli anziani — non sembra che vi sia altra forma
all'infuori di quella che Marcuse ha proposto. Anche in ciò si manifesta quanto
sia stretta la dipendenza dei nuovi ribelli dai loro padri.
Si è detto che gli estremisti
riscoprono inconsapevolmente il fascismo delle origini, nel suo iniziale
momento negativistico e anarchico. Ed è osservazione che merita di venire
approfondita.
Di fatto, non c'è un solo tema
dell'estremismo "studentesco" che non sia ritrovamento di motivi del
primo fascismo. L'"io voglio" indeterminato; il diritto di potere che
ha la giovinezza in quanto rappresenta la vita; il momento dialettico cercato
nella giovinezza e nella generazione anziché nella classe; la pretesa di andare
oltre, in posizione rivoluzionaria, alla borghesia e al comunismo; l'idea di
una rivoluzione che parta dagli studenti; il negativismo e l'attivismo
(ricordiamoci che il fascismo si presentò inizialmente come antipartito);
l'antintellettualismo come avversione alla cultura libresca; il mito del nuovo
a ogni costo.
Tuttavia, non bisogna andar troppo
oltre nelle analogie; il fascismo originario si dava pur un contenuto,
nell'idea di nazione: dopo la negazione di ogni autorità dei valori non resta
che il puro totale negativismo, la volontà di un indeterminato prossimo al
"nulla". Il recente "movimento studentesco" ha dissociato i
due momenti del fascismo originario, l'anarchico e il nazionalistico. È rimasto
l'anarchismo di tipo fascista, diverso dall'anarchismo puro, perché questo, è
caratterizzato da un amore e da una volontà dell'impossibile, che gli
conferisce, anche agli occhi di chi l'avversa, un certo fascino morale. Mentre
l'anarchismo fascista è volontà di potere, e in quanto tale, assume un indirizzo
totalitario. Le tracce della mentalità totalitaria — e sia pure nel senso di un
totalitarismo della distruzione — sono ben chiare nel nuovo estremismo.
Consideriamo infatti alcuni dei temi su cui più ha insistito.
L'esempio delle scuole di Mao opposto
a quello delle scuole sovietiche? Cioè l'educazione deve venire dal basso in
quanto gli studenti comunicano direttamente con la volontà del nuovo stato
incorporato in una persona. Insomma, il culto della personalità. Almeno la
Russia, abolendo il culto della personalità, intendeva liberarsi dagli aspetti
che accomunavano comunismo staliniano e nazismo.
L'appartenenza della sovranità
all'assemblea degli "studenti" per cui ogni professore dovrà essere
sottoposto periodicamente all'esame da parte di comitati di
"studenti", per controllarne il grado di adeguamento ideologico e
culturale? Lasciamo da parte l'esame culturale: evidentemente gli
"studenti" non potranno condurlo che a partire da giudizi di qualche
altro più gradito professore. Più importa quello ideologico. In che forma si
svolgerà? Forse un test può essere rappresentato da un articolo, che mi è
accaduto di leggere su una rivistina della "nuova sinistra", in cui
l'illustrazione della figura di don Milani era occasione per rivolgere le più
volgari offese e ingiurie alla memoria di Pio XII. Un esempio, dunque, potrà
essere questo. Il professore dovrà svolgere il tema: dimostrare come Pio XII
sia stato per il vecchio cattolicesimo quel che Giuliano l'Apostata fu per il
paganesimo; o come sia stato un pontefice nazista; il risultato della ricerca
sarà cioè prefissato; e il professore dovrà applicarsi a documentare le tesi
prestabilite per ragioni politiche. A parlar chiaro, questa si dovrebbe
chiamare scuola della falsificazione della cultura.
Si dirà che a tali eccessi non
pervengono che pochissimi tra i pochissimi; pure è l'esito conseguente del
presente negativismo assoluto che ha il destino prefissato di giungere alla
negazione della cultura.
L'estremismo non rappresenta affatto
l'intransigenza e la consequenzialità nella reazione contro la trasformazione
feudale dell'università. Al contrario è la posizione di coloro che non riescono
a concepire l'università che come feudo; e che al blasone "ricerca"
vogliono sostituirne un altro, quello della subordinazione della cultura alla
politica.
Ripropongono il vecchio tema, che i
comunisti non osano più sostenere, della partitarietà della filosofia e della
cultura in genere. All'interno di una società che speriamo conservi la sua
funzione di garantire la libertà, vogliamo impiantare un modello di "stato
totalitario dell'università". Le dichiarazioni ultrademocratiche contano
poco; c'è bisogno di ricordare che ogni totalitarismo incipiente parla sempre
di assolute rivendicazioni democratiche?
Che gli estremisti sentano se stessi
come i più radicali e integrali antifascisti, è certo. Ma c'è antifascismo e
antifascismo; e il loro è quello che risulta dalla negazione del momento
nazionalista e tradizionalista del fascismo; hanno operato, questa è la loro
originalità, una dissociazione per cui del fascismo viene mantenuto il puro
momento anarchico.
D'altra parte non si deve essere
neppure troppo severi con gli estremisti, perché ciò porterebbe a ignorare i
torti degli anziani. Sono essi che non hanno saputo dare alla nuova generazione
un sereno giudizio storico sul fascismo. Ed è in conseguenza di ciò che i
giovani, che non l'hanno vissuto e che ne hanno sentito parlare come di un
fenomeno delinquenziale o poco meno, ne hanno riscoperto il peggiore degli
aspetti, credendo di portare l'antifascismo sino al grado estremo.
Solo la storiografia, l'autentica e
non la partitaria, può immunizzare da certi mali; più a fondo del contrasto
delle generazioni c'è una carenza storiografica. Come spiegarla? Per complesse
che siano le ragioni, già se ne è indicata l'essenziale; è interesse della
società del benessere mantenere l'interpretazione apocalittico-demonologica del
fascismo, ed è da osservare come sia a partire da essa che trova spiegazione la
forma della rivolta "studentesca". In quale altro modo tale
interpretazione può infatti ripercuotersi nei "giovani" se non nello
stato d'animo di un'attesa millenaristica (il progresso scientifico non
distrugge affatto l'archetipo millenarista) dell'assolutamente nuovo, e nel
conseguente atteggiamento distruttivo rispetto a ogni tradizione? La società
del benessere sconfigge così la rivoluzione costringendola alla forma del
negativismo puro.
Si imporrebbe qui una riflessione, a
mio giudizio, di estrema importanza.
Dato che il fenomeno della
rivoluzione "studentesca" è mondiale (anche se, naturalmente,
occorrerebbe distinguere accuratamente tra i moti che avvengono nella società
cosiddetta occidentale e quelli dei paesi comunisti; rispetto ai quali dovrebbe
evidentemente venir condotto un discorso assai differente), e dato quel
carattere filosofico, su cui ho assai spesso insistito, della storia
contemporanea, sarebbe possibile la domanda se la forma che ha assunto non
riveli la fine di un'essenza, quella della rivoluzione come sostituzione della
politica alla religione nella liberazione dell'uomo.
Quest'essenza ha avuto il suo ultimo
atto nel marxismo, che realizzandosi storicamente ha dato luogo al suo opposto,
la società del benessere: che non è possibile oltrepassare per la via della
rivoluzione, ma soltanto per quella della restaurazione della dimensione
religiosa e dell'autorità morale dei valori.
D'altra parte, anche un'altra
essenza è ormai giunta a una crisi definitiva, l'idea di Utopia. Utopia e
rivoluzione si distinguono infatti in modo radicale. La prima è il sogno di un
mondo da cui i conflitti siano eliminati; la seconda, invece, ha un carattere
realistico, e vuol giungere alla società dei liberi e degli eguali attraverso
l'esasperazione massima dei conflitti.
Il mondo occidentale ha inteso
dimostrare che il contenuto dell'utopia, che in fondo non è altro che la
garanzia del benessere per tutti, è realizzabile (e in parte è già realizzato;
i paesi scandinavi come "modelli").
Ma, con ciò, ha tolto all'utopia il
contenuto senza però soddisfare al bisogno profondo che la genera: "il
sentimento profondo dell'essere umano di trovarsi gettato nell'esistenza senza
necessità vera" (J. Servier). Privata del suo contenuto, l'utopia si è
congiunta con una rivoluzione puramente eversiva e distruttiva. Da ciò
l'estrema importanza ideale della presente agitazione
"universitaria"; come lampo che ha rischiarato per un attimo, perché
presto è rientrata nelle categorie consuete (4), l'effettiva situazione morale,
e ha mostrato l'inadeguatezza alla realtà della cultura oggi prevalente.
Idealmente ha confermato le tesi
sostenute dalla grande tradizione del pensiero cattolico (mettiamoci tra i
contemporanei, ad esempio, Gilson e Maritain, Journet e Urs v. Balthasar) sul
pensiero utopistico e sul rivoluzionario, della cui dissoluzione è
testimonianza; al tempo stesso che ha dimostrato la inadeguatezza della critica
tradizionalista e reazionaria al presente, perché essa ha il destino di essere
captata dal pensiero rivoluzionario, o di rovesciarsi nel modernismo.
Praticamente, però, per la sua
assenza di contenuto si presta a essere strumentalizzata. Da chi?
3. La strumentalizzazione politica
Gli estremisti vogliono andar oltre
l'imborghesito partito comunista e rifiutano di essere strumentalizzati. Il
loro slogan è: "contro tutti i partiti, perché contro il sistema".
Come dunque è avvenuto che
l'atteggiamento dei comunisti, a cui mantenere il monopolio della causa
rivoluzionaria è essenziale, e che non possono certamente essere accusati di
tenerezza verso gli eretici, è stato sostanzialmente benevolo?
Evidentemente, perché li hanno visti
come ricuperabili (5). Ciò conferma la diagnosi che si è fatta prima. Per il
comunismo, infatti, gli assolutamente irrecuperabili sono gli anarchici puri; i
fascisti sono ricuperabili dopo un viaggio che può essere lungo o brevissimo.
Se il movimento fosse stato soltanto
di natura maoista, non c'è dubbio che sarebbe avvenuta la condanna. Se ciò non
è avvenuto, è stato per la partecipazione dei cattolici di sinistra. Il termine
è certamente vago: ma qui intendo quei cattolici che uniscono il dissenso dalla
residuale componente cattolica nella D.C. con le posizioni ideali
neomodernistiche. Da quel che si è detto è già risultato abbastanza come la
contraddizione non sia soltanto accettata dagli estremisti, ma addirittura
eretta a principio: chi più si contraddice, più ha ragione. Ora, su questo
terreno della contraddizione non c'è alcun dubbio che i cattolici di sinistra
meritino il gran premio. Perché per un verso vorrebbero dare un carattere
religioso alla rivoluzione, ma tale carattere religioso è nel comunismo legato
all'integrale ateismo; per l'altro, vogliono separare il comunismo
dall'ateismo: ma come possono farlo se non attraverso la separazione tra
materialismo storico e materialismo dialettico, cioè attraverso quella che è la
premessa teorica del revisionismo comunista e del suo inserimento nella società
del benessere? Da più di vent'anni sono in questa contraddizione, che in realtà
è insuperabile; sicché hanno finito col dimenticarla non rinunciando però a
"testimoniarla". Quindi, stanno con un piede nella rivoluzione più
accesa, e con l'altro nel comunismo di rito sovietico ammorbidito. Ottima
situazione per servire da mediatori per il recupero.
Non c'è quindi bisogno di insistere
gran che sulla necessità di cui il movimento è prigioniero; come già per i
primi fascisti, non c'è altra possibilità politica per i ribelli, oltre a
quella di congiungersi con una delle forze del sistema, non già in qualità di
guide, ma di strumenti. Nell'unità delle sinistre avranno la funzione di avanguardia
d'assalto e di guastatori. Lasciare ad altri il compito eversivo, concedere
l'appoggio, presentarsi successivamente come principio di ordine, raggiungere
il controllo; non c'è davvero occasione migliore per il partito comunista.
4. Conclusione
Nel riguardo del rapporto delle
generazioni, la situazione si presenta, dunque, incerta; non devono venir
sottovalutati i pericoli, che sono assai gravi, ma neppure trascurate le
possibilità positive. La differenza che separa la minoranza estremista dal resto
degli studenti, non è nella necessità, in fondo universalmente ammessa, della
contestazione. Ma nel fatto che se per gli studenti più seri la contestazione è
un problema, per gli estremisti è invece una soluzione: di qual natura si è
visto.
Perché la maggioranza ha così spesso
(anche se non dappertutto) accettato o subito le posizioni dei pochi attivisti?
La ragione è semplice, non aveva soluzioni di ricambio; perciò non si è, in
pratica, fatta molto sentire. Ciò è dipeso da un fatto che bisogna scrivere a
tutte lettere: la cultura eversiva rispetto alla tradizione, ha, negli ultimi
vent'anni, occupato il campo del presente, senza trovare un'opposizione
fortemente impegnata; quella che invece avrebbe dovuto mediare tra la novità e
la tradizione, si è troppo spesso rifugiata nello studio del passato e nella
specializzazione; come se quel che avveniva nel mondo della politica e della
società, e delle stesse valutazioni morali, non la riguardasse.
Da un esame spassionato della
situazione deriva dunque questo insegnamento: se la nuova generazione è stata
sensibile ad argomenti, in sostanza, infantili, ciò è avvenuto perché è mancata
una cultura veramente seria, atta a guidarli nelle loro scelte.
Certamente si deve ammettere che il
produrla non è cosa facile, data l'enorme complessità del mondo contemporaneo;
e che non si tratta di ordinario lavoro, e neppure di volontà impegnata. Tutto
il lavoro possibile, e il massimo impegno di volontà, non bastano per trovare
idee risolutive; è però vero anche l'inverso, che senza quest'impegno e questa
attenzione, tali idee non possono mai farsi presenti; gli intellettuali devono
dunque prendere consapevolezza che la rivoluzione "studentesca" non è
stato un episodio da carnevale, ma un segno provvidenziale per richiamarli alla
coscienza delle loro responsabilità; e se l'opposizione deve essere ferrea
rispetto alle imposizioni e alle proposte che da altro non dipendono che dalla
tentazione totalitaria, diverso deve essere l'atteggiamento rispetto al
genuino, anche se confuso, disagio morale.
_____
NOTE
(1) Questa asserzione deve essere
intesa alla lettera. In pagine decisive Max Scheler ha illustrato la tesi
tradizionale della distinzione qualitativa tra l'uomo e l'animale, dimostrando
che essa non è affatto il risultato dell'osservazione empirica, ma una
conseguenza dell'idea di Dio e della dottrina che mostra nell'uomo la Sua
immagine. Perciò tesi prima, o presupposto iniziale del pensiero evoluzionista,
positivista, pragmatista ecc. è la distruzione del carattere qualitativo di
questa differenza, per sostituirvi una semplice differenza di grado: l'uomo è
un animale che si serve di segni (il linguaggio) ecc. (cfr. L'homme et
l'histoire, pp. 29 ss.). Questo punto è di estrema importanza per intendere il
mondo contemporaneo. Poiché la società del benessere è caratterizzata dalla
finalità della conservazione e dell'incremento dell'animalità dell'uomo, ha un
nesso sostanziale con la cultura positivista ed evoluzionista; irreligiosa per
essenza, può tollerare la religione solo nei limiti in cui tenta di conformarsi
attraverso compromessi a tali concezioni; altrimenti l'avversa e lentamente la
spegne, anche senza aver bisogno di ricorrere a persecuzioni dirette.
(2) Nel recente splendido suo libro Cordula, Urs von
Balthasar ha scritto che per sopportare lo sforzo sovrumano che la situazione
di oggi le impone, la Chiesa avrebbe bisogno non solo di teologi, ma di santi
"come di figure che dovrebbero svolgere la funzione di fari".
Ed è curioso osservare come io stesso pensiero fosse già stato formulato, poco
dopo la fine della seconda guerra, da Benedetto Croce, che, per laico che
fosse, aveva però profondamente sentito il carattere religioso di una crisi che
è andata sempre più accentuandosi: "Ma eccomi ritornato a uno dei miei
pensieri che, per essere stato più volte ripetuto, rischia di prender l'aria di
una fissazione. Al pensiero che la crisi presente nel mondo sia la crisi di una
religione da restaurare o da ravvivare o da riformare, e che a soccorrere ad
essa non bastino i soli politici e guerrieri, ma ci vogliono i geni religiosi e
apostolici, dei quali noi, non vedendo la presenza, non perciò non sentiamo più
o meno oscuramente, il bisogno, e come una tarda invocazione, nei nostri
cuori".
(3) I Sansimoniani, scritto intorno
al 1830, pubblicato nel 1840, e ora ristampato, insieme ad altri saggi
fondamentali per farci intendere la formazione del pensiero del Rosmini, nel
volumetto Storia dell'empietà, Sodalitas, Domodossola 1957.
(4) Inizialmente, infatti,
fuoriusciva dalle contrapposizioni consuete di fascismo e di antifascismo; per
ciò che oggetto della contestazione era la società che si è formata dopo la
fine della guerra, a cui nessuno potrà dare l'appellativo di
"fascista". Ma l'estremismo, proprio per il suo carattere di fascismo
rovesciato, e il conseguente scambio di questo rovesciamento con l'antifascismo
più radicale, ve l'ha fatta rientrare.
(5) Questo scritto era già composto,
quando è uscita, a sua conferma, la risoluzione del Comitato Centrale del
P.C.I.
Nessun commento:
Posta un commento