lunedì 28 febbraio 2022
RUSSIA E UCRAINA: UNA SPERANZA IMPOSSIBILE? MONS. PAOLO PEZZI ARCIVESCOVO DI MOSCA E MARIO MAURO ESPERTO DI POLITICA INTERNAZIONALE
domenica 27 febbraio 2022
IL PARTITO DELLA GUERRA DOMINA A MOSCA E A WASHINGTON. L’UNICA VOCE DELLA RAGIONE E DELL’UMANITA’ E’ QUELLA DEL PAPA: INASCOLTATA COME QUELLA DI BENEDETTO XV (E COSI’ IL MONDO FINI’ NELLA CATASTROFE)
La voce della ragione e dell’umanità c’è:
è quella del Papa. Ma resta inascoltata. Come cento anni fa accadde a Benedetto
XV all’inizio
della Prima guerra mondiale. Anche oggi si sente
solo l’assordante “partito della guerra”.
Anzitutto a causa del leader russo Putin passato in poche
ore dalle truppe al confine e dal riconoscimento delle province russofone, alla
folle e tragica invasione dell’Ucraina, spingendosi
poi addirittura all’apocalittica minaccia nucleare (“Chiunque tenti
di crearci ostacoli o interferire sappia che la Russia risponderà con delle
conseguenze mai viste prima. Siamo preparati a tutto”).
Ma il “partito della guerra” è sempre più
forte anche qua. Le potenze occidentali, che hanno ignorato per otto anni il
conflitto in Donbass – 14 mila morti fino ad oggi – scivolano ogni giorno di
più nel bellicismo (che purtroppo hanno praticano per anni).
Nessuno lavora per il cessate il fuoco e la
trattativa, ma anzi siamo passati velocemente dalle sanzioni alla Russia
agli aiuti militari all’Ucraina, fomentando
Kiev allo scontro (con dichiarazioni incendiarie) e, di fatto, inducendola a
non negoziare. Si arriva fino a ipotizzare il coinvolgimento
occidentale nella guerra che pure l’ex segretario alla Difesa Usa e Capo
della Cia, Leon Panetta, ritiene possibile.
Il nostro generale Marco Bertolini
dice: “I toni di Johnson sono duri, quasi vorrebbe entrare in guerra. Sono gli
stessi toni di Biden. Non lo dicono apertamente, ma fosse per loro una guerra
la affronterebbero volentieri”.
In certe cancellerie occidentali c’è già chi accarezza
l’idea di (addirittura) annientare la Russia. Gli Usa si
sentono padroni del mondo e Biden
dichiara: “non parlo con Putin” (affermazione
anomala per uno statista).
Da Mosca rispondono che “siamo sempre partiti dal
dialogo, ma quando queste opzioni sono state chiuse, arriviamo
al punto di non ritorno” (intanto molti politici
nostrani,
invece di incitare alla pace e far pressioni per un negoziato, mettono
l’elmetto e imitano i toni più bellicisti dei contendenti).
Del resto era stato il presidente Biden, tre settimane fa, a
prospettare, con sorprendente leggerezza, l’inizio di una
terza guerra mondiale. Ebbene, siamo a un passo.
Quando il Papa, in una recente
intervista televisiva, ha esordito con un’angosciata
riflessione sulla voglia di guerra che c’è nel mondo – diciamo la
verità – nessuno ha capito quanto il dramma fosse incombente. Si sono snobbate
le sue parole come fossero un’esortazione buonista da preti.
Non era così. Il “partito della guerra” è fortissimo e
ha voglia di fare il botto.
Anche quando – da nove anni, a più riprese – Francesco
ha denunciato l’inizio di una “guerra mondiale” per
ora combattuta “a capitoli”, è sempre stato snobbato. Infatti
i governi hanno continuato a far guerre.
Sempre più Francesco somiglia a papa
Benedetto XV. Del resto ha vicino (con tutta la Chiesa) la
preghiera e il sostegno del papa emerito che disse di aver preso il nome di
“Benedetto” anche proprio “per riallacciarmi idealmente al venerato
Pontefice Benedetto XV, che ha guidato la Chiesa in un periodo travagliato a
causa del conflitto mondiale” e “fu coraggioso e
autentico profeta di pace”.
La voce di quel papa, cento anni fa, si
levò quasi da sola contro “l’inutile strage” e restò del tutto inascoltata. Fu snobbata come un’irrilevante
predica da
prete fuori dal mondo, incapace di capire gli interessi delle nazioni e le
dinamiche geopolitiche.
Ma la sua voce fu profetica e lui si
rivelò l’unico realista, perché quel conflitto
mondiale fu veramente un’immane carneficina: 17 milioni di
morti, che diventano 65 milioni se si comprende pure l’epidemia di spagnola che
scoppiò e dilagò grazie a quel contesto (più 20 milioni di feriti mutilati).
La guerra non risolse nessun problema, ma li
aggravò,
essendo all’origine degli orrendi totalitarismi
del Novecento (con le loro stragi) e destabilizzando totalmente l’Europa (che corse verso
una Seconda guerra mondiale).
Anche oggi il papa è egualmente snobbato. Si
irride pure la sua giornata di preghiera e digiuno per la pace, il 2 marzo, perché – come dicono
sarcasticamente i sapientoni – il mondo non si governa con i paternoster.
Il Papa chiede di pregare perché ricorda le
parole del Salvatore: “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Con la preghiera e il
digiuno vorrebbe aprire le menti e i cuori alla
ragionevolezza.
Perché, ancora una volta, l’unico
realismo è quello espresso dal Vicario di Cristo, non quello del “partito della
guerra”.
Il Pontefice non si fa strattonare dalle parti in
causa: vuole difendere le vittime del conflitto
iniziato e scongiurare tragedie più grandi per tutti. Ma il giudizio della
Chiesa sugli eventi in corso, anche dal punto di vista laico, appare davvero come il
più lucido.
Se ne trova traccia sintetica in un editoriale dell’“Osservatore
romano”firmato
da Andrea Tornielli. La guerra iniziata –
dice – rischia di uccidere “le speranze innescate dalla
caduta del Muro di Berlino nel 1989”.
Dove si è sbagliato in questi trent’anni?
“Continuando ad applicare al nuovo mondo i vecchi schemi militari, prima è
tornata la Guerra Fredda, poi la guerriglia e ora la guerra guerreggiata”.
L’Osservatore sottolinea che “anche Romano
Prodi ha
ricordato che nel 2008 Francia e Germania votarono contro
l’adesione dell’Ucraina alla Nato perché avrebbe rappresentato un atto
ostile verso la Russia”. Ma quel buon senso dov’è
finito?
Tornielli sottolinea che “la
responsabilità della guerra è sempre di chi la fa invadendo un altro Paese. C’è
però da domandarsi: qual è la strada per trovare una soluzione pacifica? Va
ricercata dentro gli schemi bellici delle alleanze militari che si espandono e
si restringono o piuttosto in qualcosa di nuovo in grado di farsi anche carico
degli errori del passato (che non stanno da una parte sola) restituendo una
prospettiva realistica alla speranza di una diversa convivenza fra i popoli?”.
Se non s’imbocca da subito la via nuova indicata dal
Papa, sentendoci in Europa “fratelli tutti”, ci aspetta una
tragedia planetaria.
Antonio Socci
Da “Libero”, 27 febbraio 2022
venerdì 25 febbraio 2022
UN CONFLITTO IMPARI
UN ATTACCO DI STAMPO SOVIETICO A UNA DEMOCRAZIA OCCIDENTALE IN CRISI DI MOTIVAZIONI
A tutta prima quella messa in atto da Putin sembra una mera prova di forza, tanto arrogante quanto spregiudicata. Sarebbe però un errore fermarsi a questa prima impressione: il presidente russo non è affatto uno sprovveduto, o uno che non usa la ragione prima di agire. Perché allora si è mosso con tale determinazione e proprio ora?
KIEV, Piazza dell'Indipendenza |
Io penso che molto c'entri l'idea che lui si è fatto in questi ultimi anni delle democrazie occidentali, che giudica profondamente in crisi: di obiettivi e motivazioni, non certo economica o tecnologica. Una crisi di valori che ha portato a uno scollamento sempre più forte fra le classi dirigenti e la gran massa della popolazione.
Chi, in Occidente, sarebbe disposto a seguire dei leader che
decidessero di muovere guerra alla Russia? L'indecorosa fuga dall'Afghanistan
dell'America di Biden non ha significato forse proprio questo, cioè un prendere
atto da parte del presidente statunitense dell’impopolarità che presso i suoi concittadini
avrebbe avuto la continuazione di un impegno in una terra così lontana, con il
rischio per i militari di ritornare a casa in una bara avvolti in una bandiera
a stelle e strisce? Un abisso separa le nuove
generazioni da quelle che si impegnarono con tanta generosità nella seconda
guerra mondiale per difendere la Patria e la Libertà.
Due elementi soprattutto marcano la differenza: lo scollamento fra élite e popolo, appunto, e l'incedere della secolarizzazione che ci porta sempre più ad esorcizzare e a cancellare la morte dall'orizzonte delle possibilità. Che ciò si sia poi riversato sulle istituzioni della democrazia liberale, che per sopravvivere hanno bisogno di una certa coesione civile, è stato naturale.
Ad andare in crisi, per Putin, non è stata però l'idea di democrazia ma l’ideologia liberale, che, come il leader russo affermò in una celebre intervista -rilasciata al Financial Times il 27 giugno 2019, cioè (e non è caso), alla vigilia di un G7 -, «è entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione». E soprattutto con «i valori tradizionali», permettendo che si mettesse «in secondo piano la cultura, le tradizioni, e i valori di nilioni di persone».
Proprio a conclusione dell'intervista, Putin si incamminò in uno spericolato parallelo fra la Gran Bretagna ove un nuovo leader può insediarsi senza passare per il voto diretto del popolo e la Russia dove «è diverso, perché siamo un Paese democratico››. E ne concluse che gli occidentali «non possono dettare niente a nessuno come hanno cercato di fare nel corso degli ultimi decenni».
Putin gioca quindi molto sul consenso, che per lui coincide con la democrazia. Sa di averne ancora tanto, soprattutto nelle masse rurali della “Russia profonda", anche se in calo dopo ventun anni di governo e una crisi strutturale sempre più profonda. E sa che presumibilmente il suo consenso aumenterà con l'attuale prova di forza in Ucraina.
Se così stanno le cose, a mio avviso dobbiamo porci almeno due domande: i Paesi occidentali fanno bene a giocare la loro partita solo con le armi delle sanzioni invece di rispondere sullo stesso terreno "culturale" su cui Putin ha impostato il proprio discorso? E dal loro punto di vista, gli occidentali hanno tutte le carte in regola oppure nella critica rivolta da Putin nei loro confronti c'è almeno una parte di verità?
Purtroppo, qui dobbiamo segnalare che l' Occidente oggi non ha una cultura, che anzi è portata a cancellare quella su cui storicamente ha costruito la propria forza. E dobbiamo anche ammettere che, accanto alle democrazie illiberali alla Putin, c'è sempre più strisciante nei nostri Paesi un certo “liberalismo autoritario" (formula non felice ma ormai affermatasi nel campo degli studi), che è appunto quello che ha neutralizzato la politica in favore delle dinamiche economiche e di quelle etico-giuridiche del "politicamente corretto" e del “dirittismo".
Solo se vinceremo la battaglia interna contro queste forze corrosive, ridando spazio e spessore alla politica, forse riusciremo a vincere anche la battaglia di lungo periodo con le autocrazie. Cerchiamo di uscire bene, ora, dalla crisi ucraina, ma cominciamo anche a guardare un po' oltre il nostro ombelico.
CORRADO OCONE
Corrado Ocone, si occupa di filosofia e
teoria politica, con particolare attenzione alle tematiche del neoidealismo
italiano e del pensiero liberale. Collabora a vari organi di stampa nazionali e
a riviste scientifiche italiane e straniere. È direttore dell’area scientifica
di “Nazione futura” e membro del comitati scientifici della Fondazione Cortese
di Napoli, della Fondazione Craxi, della Fondazione Fare Futuro, della
Fondazione Tatarella e dell’Istituto Internazionale Jacques Maritain
IL DOLORE DEI RUSSI
I tank russi sono entrati nelle due regioni ucraine proclamatesi indipendenti, e questo ha prodotto nella popolazione una nuova pesante lacerazione. Se la maggioranza (forse) è sensibile al patriottismo ufficiale, una parte cospicua dei russi vive una dolorosa estraneazione in casa propria. Molti russi oggi protestano in nome della verità, dell’antica fratellanza, della dignità dell’altro. Sono voci di profondo dolore. (...)
Ma come insegna la
storia del dissenso sovietico, il peso globale delle minoranze diversamente
pensanti non è direttamente proporzionale all’infima percentuale che
rappresentano nel tutto.
La forza del pensiero
libero sta nella verità che persegue (e non pretende di possedere o di imporre
a nessuno), nel fascino della dignità e nell’apertura. Il guaio è che per
penetrare il conformismo e la paura, e per cambiare il clima sociale, aprendo
degli autentici spazi di pacificazione, il pensiero indipendente ha da
percorrere strade imprevedibili, probabilmente lunghe.
L’unica cosa che si può fare oggi è dar voce a queste singole persone; dar voce a un punto di vista diverso che non soccombe alla logica geopolitica, di contrapposizione e di potenza.
La voce degli uomini
liberi in Russia.
Mosca piazza Arbat 20 febbraio 2022 Tomsk febbraio 2022
St. Peterburg febbraio 2022 |
Vladivostok febbraio 2022 |
Un dramma collettivo
«Siamo in molti a non
aver dormito queste ultime notti – scrive Svetlana Panič, – ad aver
guardato ogni ora e anche più spesso le ultime notizie, a vivere in ansia
perpetua per gli amici a Kiev, Doneck, L’vov, Char’kov, Marjupol’, a ribellarci
– ciascuno a suo modo – contro questa guerra assurda. Le parole più usate sono:
vergogna e paura. È quasi impossibile pensare ad altro…
Quando si verifica qualcosa di vergognoso, che grida vendetta al cielo, è
naturale piangere e morire di vergogna. Ed è inutile discutere con chi pensa
che non sia successo nulla, che si sente “superiore a queste cose”, che
piantato comodamente sul divano dirige le vite umane come pedine sul campo
geopolitico…
Inutile spiegare a
chi è convinto che “il popolo russo approva l’invasione in Ucraina” e che
protestano solo quattro emarginati, che nel paese dominato dalle forze
dell’ordine chiunque rischi di scendere in strada con un cartello, chiunque
rischi una protesta con la parola o il gesto, lo fa in nome di centinaia,
migliaia di altri, perché l’eroismo lo si può chiedere solo a se stessi.
Non ha senso cercar
di spiegare perché in un mondo a compartimenti stagni le parole non arrivano. È
ben più importante altro. Noi che oggi soffochiamo dalla vergogna, che non
troviamo parole per esprimere il dolore, siamo molti, moltissimi. E siamo insieme».
A quanto sembra queste parole non sono solo un
auspicio ma un fatto, basta seguire gli hashtag di facebook #нетвойне, #нетвойнесукраиной,
che di ora in ora stanno raccogliendo migliaia di messaggi, proteste, grida di
disperazione.
Continua la Panič: «Ci aspetta una vita molto
difficile, piena di vergogna e di ansia. Bisognerà risolvere ardui problemi
morali, essere più esigenti con noi stessi, resistere continuamente al cinismo,
non solo quello esterno, ma quello che si intrude nella mente e nel cuore.
Però c’è anche dell’altro: la condivisione che in
tempi come i nostri acquista davvero i tratti della grazia, la musica, i libri,
la parola e il pensiero liberi. E c’è la speranza, che sembra non reggersi su
nulla. Ci sono la vergona, il dolore, le lacrime come reazione sana al male. E
finché è così, siamo vivi. C’è il riso, come reazione sana all’idiozia di
Stato, mezzo per scacciare la paura.
Ma soprattutto, siamo molti e siamo insieme; e finché potremo reggerci gli uni
agli altri il male non sarà onnipotente. Supereremo anche questo disastro.
Noi che ci diciamo cristiani abbiamo talmente
svalutato la Sua parola, banalizzato le nostre parole a Lui, che ora possiamo
mostrare la fede solo con la nostra persona, senza retorica religiosa. A quella
nessuno crede più, e giustamente. È colpa nostra se abbiamo trasformato la
parola di misericordia in una melassa da baciapile».
Il contributo dei cristiani si vede oggi in
queste coscienze sensibili e straziate, segno di una testimonianza essenziale
che corrisponde esattamente a ciò cui richiamava domenica 20 febbraio all’Angelus papa Francesco:
«Mai il Signore ci chiede qualcosa che Lui non ci dà prima. Quando mi dice di
amare i nemici, vuole darmi la capacità di farlo. Senza quella capacità noi non
potremmo, ma Lui ti dice “ama il nemico” e ti dà la capacità di amare». (...)
"E queste vite umane? I destini di queste famiglie? L’umanità? La giustizia?".
A questa domanda non retorica bisogna rispondere per e con i russi, gli ucraini, per il bene di tutti. Per scongiurare una guerra che riguarda tutti.
«Cari
amici ucraini, perdonate se non siamo riusciti a fermare tutto questo…
Povera patria nostra, e poveri noi tutti, a prescindere da dove viviamo. È una
disgrazia comune. Signore, che vergogna!» (Svetlana Panič).
MARTA DELL’ASTA
Leggi tutto l’articolo qui
https://www.lanuovaeuropa.org/societa/2022/02/23/il-dolore-dei-russi/
mercoledì 23 febbraio 2022
L’ETERNO RITORNO DELLA RUSSIA
La storia è maestra di vita. L'allargamento della Nato a Est non poteva essere infinito, era chiaro a molti fin dall'inizio negli anni Novanta, ma l'allarme sulle conseguenze a lungo termine rimase inascoltato. Quella scadenza con la storia è arrivata ieri sera: Vladimir Putin ha parlato alla nazione per oltre un'ora e poi ha messo la firma sul riconoscimento delle repubbliche separatiste del Donbass.
di Marco Patricelli
I russi sentono sempre forte il richiamo del sangue. Anche Putin. Anche Stalin. In tutti i sensi. È un fattore congenito, senza mutazioni dall’epoca zarista a quella sovietica e a quella contemporanea. Cambiano i nomi, cambiano i territori, ma la storia è la stessa. Dove ci sono i russi c’è la Russia e prima o poi un modo si trova per ribadirlo, una scusa, un trucchetto, tanto il mondo solitamente si attiene al primo comma del primo articolo del codice militare internazionale non scritto: mai contro Mosca.
Che il 1° settembre 1939 Hitler abbia attaccato la Polonia senza dichiarazione di guerra lo sanno pure le pietre della strada, ma trovare qualcuno pronto a ricordare che il 17 settembre Stalin fece la stessa identica cosa (attenendosi peraltro al protocollo segreto del Patto Ribbentrop-Molotov) lo ricordano sulla loro pelle solo i polacchi e gli storici. Ma dovrebbe essere ben tenuto a mente nei giorni della crisi ucraina e dello strappo del riconoscimento formale delle repubblichette separatiste da parte dello Zar del Cremlino, l’autocrate mascherato da presidente.Torniamo indietro nel tempo. Alle 3 del mattino del 17 settembre l'ambasciatore polacco a Mosca, Wacław Grzybowski, veniva buttato giù dal letto per ricevere dalle mani di Molotov una nota con la quale il Governo sovietico sancisce il suo punto di vista sulla guerra scatenata da Hitler: «Il governo polacco ha collassato e non dà segni di vita. Ciò indica che lo Stato e il Governo polacco hanno cessato di esistere a tutti gli effetti». La premessa serve a giustificare il passo successivo: «I trattati conclusi tra la Polonia e l’Unione sovietica non hanno più validità». Già, perché tra i due Paesi era in vigore dal 1932 un Patto di non aggressione che diventava unilateralmente carta straccia. Il motivo? «Il governo di Mosca non può tollerare che i propri fratelli di sangue ucraini e bielorussi viventi in territorio polacco siano abbandonati al loro destino senza alcuna protezione. Per queste ragioni il governo sovietico ha dato istruzioni al comando supremo dell'Armata Rossa di ordinare all’esercito di oltrepassare il confine allo scopo di proteggere le popolazioni e i loro averi nell'Ucraina e nella Russia Bianca occidentale». Non è una dichiarazione di guerra, quella comunicata a Grzybowski, ma una dichiarazioni d’intenti. E per tranquillizzare le cancellerie europee, Molotov fa sapere che l’URSS rispetterà la neutralità della Finlandia (che invece attaccherà il 30 novembre) e riconosce la Slovacchia (gesto che non interessa nessuno, e forse neppure gli slovacchi).
Ma cosa succede nelle terre “liberate” dall’Armata Rossa, che attacca la Polonia alle
sei (tre ore dopo la comunicazione all’ambasciatore) con 30 divisioni di
fanteria e 82 tra meccanizzate e blindate, ovvero circa 1.500.000 di uomini,
6.000 carri armati, 1.800 aerei e 9.000 cannoni? L’URSS, con l'invasione e le
rettifiche al Patto Ribbentrop-Molotov, si appropria del 52% del territorio
polacco (200.000 chilometri quadrati) e del 38% della popolazione (13 milioni e
mezzo). Ma poiché una qualche forma di legalità nell’ambito del diritto
internazionale ci vuole, Stalin dispone che nella Bielorussia occidentale e
nell’Ucraina occidentale (così sono state prontamente ribattezzate le conquiste
militari) il 22 ottobre 1939 si tengano
elezioni a lista unica sotto la sorveglianza dei commissari del popolo e
dell’Armata Rossa. Tutto si svolge tranquillamente e la popolazione si reca
«volontariamente» alle urne dopo essere stata catechizzata dai propagandisti
sovietici: vincono gli oltre 2.400 candidati unici, in buona parte espressione
dell’esercito invasore che per stare tranquillo ha partecipato al voto per
mancanza di candidati locali comunisti.Putin firma il riconoscimento delle repubbliche
separatiste del Donbass
I delegati si riuniscono il 27 ottobre a
Leopoli e il 29 a Białystok per chiedere l’annessione all’URSS e il Soviet
supremo, con decreti del 1° e del 2 novembre, generosamente raccogliere
l’«espressione spontanea della volontà della popolazione» e accoglie la
Bielorussia occidentale e l’Ucraina occidentale rispettivamente nella
Repubblica socialista sovietica bielorussa e in quella ucraina. Dopo di che i
sovietici scatenano ucraini e contadini contro i proprietari terrieri polacchi,
i kulaki e i poliziotti, e quindi avviano persecuzioni e deportazioni in grande
scala per decapitare la classe dirigente polacca. Il massacro di Katyn, con
l’eliminazione di oltre 20.000 ufficiali polacchi, era dietro l’angolo.
Il caso è ancora coperto in Russia dal segreto di Stato. L’ha apposto Vladimir Putin, lo stratega della Crimea e del Donbass, per il richiamo del sangue. Ma tanto la storia non si ripete.
TRATTO DA LIST di Mario Sechi
venerdì 18 febbraio 2022
IL PARTITO PRO EUTANASIA
QUEI MILITANTI DEL NULLA ORFANI DELLE UTOPIE DEGLI ANNI 70
Fallite le rivoluzioni, smarrite le utopie, c’è un nucleo militante reduce
dalla cultura degli anni 70 che vuole usare la libertà per sopprimere l’uomo
stesso
Ma
c’è veramente questo dietro l’iniziativa referendaria sul suicidio assistito
che la Corte costituzionale ha bloccato? C’è veramente la sincera volontà di
staccare le macchine solamente ai casi irrisolvibili ed estremi? C’è solo pietas e misericordia?
Non sembra. La posta in gioco è infatti ben altra e va al di là
dei casi, tragici e terribili, che vengono presentati in prima linea. Per
Giacomo Papi (Il Foglio 17 febbraio) –
un esempio tra molti – “il punto è che nel nostro ordinamento la vita è tutto
quello che abbiamo, ma non l’abbiamo davvero. O almeno, non fino in fondo
perché non possiamo disporne fino a negarla”. È un’affermazione importante, non
solo perché è rappresentativa di un pensiero autorevolmente diffuso, ma perché
è rivelatrice di una sensibilità dominante interamente edificata sul primato
dell’individuo e delle sue libertà fondamentali, tra le quali c’è anche quella
di darsi la morte, qualora decida di farlo.
Sotto quest’aspetto la situazione di invalidità grave e la sua irreversibilità diventano di fatto secondarie. Per quanto vengano resi pubblici i casi estremi (per fortuna non molti), in realtà, secondo questa prospettiva, anche patologie molto meno invalidanti, quali può essere la stessa depressione, una volta che il soggetto che ne soffre la ritenga insuperabile e la sperimenti come insopportabile, ha diritto alla scelta radicale di “negarsi” la vita e una tale scelta è ritenuta rientrare tra le libertà fondamentali di quest’ultimo. Non è un caso che l’altro referendum – quello sull’uso della cannabis – si iscriva nella stessa cornice: quella delle libere scelte di soggetti adulti e consapevoli, il cui effetto non ricade che su loro stessi.
Non si può non osservare come simili obiettivi segnino una sorta di death point, un vero e proprio binario morto per la nostra
modernità depressa e rinunciataria, battuta dai venti del catastrofismo
ecologico e segnata dalla crisi delle nascite, che vuol dire
semplicemente l’arresto di qualsiasi progetto di futuro. Fallite le rivoluzioni, perse le
utopie, un nucleo militante di quella stessa componente culturale che ha
animato la protesta degli anni Settanta (o almeno quel che ne resta) si batte
oggi per il diritto all’ultima libertà, quella di “negarsi la vita” qualora lo
si decida.
L’Io sovrano di ieri è arrivato ad essere l’Io minimo di oggi. Prima si
rivendicava la qualità della vita, oggi ci si batte per la libertà di
rinunciarvi, indipendentemente da qualsiasi quadro clinico; così come ci si
batte per la libertà di azzerare, seppur momentaneamente, affetti e legami,
responsabilità e doveri, sprofondando negli oppiacei di ogni tipo.
Affiora così il diritto assoluto a
troncare, provvisoriamente o definitivamente, ogni legame sociale ogni volta
che lo si ritenga opportuno, quali che siano le motivazioni, purché consapevolmente sottoscritte.
Il problema sembra allora risiedere proprio nell’insistenza a voler
intercettare e dare forma ad un ente – l’individuo – che in realtà non esiste
se non nelle astrazioni scientifiche. In realtà, nella concreta vita sociale,
al posto degli individui esistono le persone. E la differenza tra individuo e persona passa attraverso i legami che
quest’ultima costruisce e che, facendola crescere, la fanno fiorire come
soggetto. Così, se l’individuo può chiudersi in se stesso, acquistare e
vendere, ricorrere agli oppiacei per il proprio tempo libero o meno, assumere
psicofarmaci e, se crede, farsi aiutare a togliersi la vita, la persona, ogni persona, prima di compiere qualunque azione si scopre a tenere
conto necessariamente degli altri, di tutti gli altri che le sono
significativi, perché è in costante relazione con questi ultimi, e lo è molto di più di quanto non creda.
Infatti noi non siamo degli individui che hanno delle relazioni, ma Siamo relazioni (come afferma da tempo Pierpaolo Donati). Fuori da queste esistiamo solo sul piano della sola vita biologica, quella stessa vita biologica alla quale il regime delle chiusure ci ha confinati e che vive solo negli spazi virtuali creati dai nuovi strumenti di comunicazione.
È invece nella vita ordinaria che siamo permanentemente degli esseri in
relazione e quindi esistiamo come persone. È significativo infatti che le
donne, molto meno autoreferenziali degli uomini, che vivono e sanno vivere
costruendo relazioni, si suicidino molto meno degli uomini e si segnalino,
molto meno di questi, per le richieste di suicidio assistito.
La libertà è reale solo se si realizza tra gli altri, con la loro preziosa
compagnia. Se tutti dobbiamo la nostra vita biologica a due persone, quello che
siamo diventati lo dobbiamo a molte di più. Scambiare l’autonomia
autoreferenziale dell’individuo per un segno di sovrana indipendenza e fare
della libertà di scegliere il quando e dove porre fine ai propri giorni come il
migliore segnale di emancipazione, sono probabilmente i segnali più gravi di uno smarrimento morale e di una depressione di
fatto.
Questi ristagnano in una componente culturale della società italiana che,
smarrito ogni futuro possibile, si attesta sul presente del qui ed ora, come se
l’autonomia del singolo fosse la conquista più importante per ogni persona,
mentre invece, e al contrario, sono i legami significativi a far vivere.
SALVATORE ABRUZZESE
Il sussidiario net 18 febbraio 2022
(foto La Presse)
I MEDICI E LA MEDICINA DEVONO LAVORARE PER ELIMINARE LA MALATTIA E NON IL MALATO
Negli ultimi giorni sui social l’argomento principe portato dai sostenitori della depenalizzazione del suicidio assistito, era quello sostenuto da Cappato. In alcuni casi, egli affermava, la vita non è più degna di essere considerata tale, e per questo uno stato laico deve legiferare in materia.
Marc Chagall Giobbe e il mistero della vita |
Noi crediamo che legalità e diritto non siano la stessa cosa: una legge può essere legale ma ingiusta e produrre effetti paradossali e quindi ledere dei diritti.
Un esempio aiuta a capire: circa 15 anni fa la legge olandese sull’eutanasia inizialmente prevedeva tutta una serie di vincoli e di garanzie che rendevano molto limitato il numero di persone che poteva accedervi. Oggi, in modo progressivamente sempre più veloce, le garanzie sono venute meno e il numero di pazienti su cui è praticata l’eutanasia è cresciuto in maniera vertiginosa, bambini compresi. Dunque anche una legge dettata all'apparenza da buone intenzioni, alla fine ha portato a questo risultato.
Sui pericoli della deriva eutanasica potremmo citare le parole di Papa Francesco, che sempre mettono in guardia dalla cultura dello scarto. Oggi però ci bastano quelle laiche della Corte Costituzionale, che con altrettanta fermezza hanno ritenuto inammissibile il quesito sull'eutanasia, in quanto non garante della "tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili".
In attesa di leggere per intero le motivazioni e alla luce di queste poche ma chiare parole, che suonano come un monito sociale, auspichiamo che coloro i quali hanno propugnato e sottoscritto il quesito radicale, abbiano un ripensamento e tornino a considerare il valore della vita umana in ogni sua forma e condizione. E alla politica chiediamo un serio investimento nella pratica delle cure palliative ancora oggi troppo emarginate, perché la medicina e i medici lavorino e operino per eliminare la malattia, non il malato.
IL CROCEVIA
15 febbraio 2022
SUL SUICIDIO ASSISTITO E‘ BENE RIFLETTERE ANCORA
Non
c'è da festeggiare una vittoria , né da piangere una sconfitta. L'unica
conseguenza - e si tratta veramente di una buona conseguenza - della sentenza
che ha cassato il referendum a proposito del suicidio assistito è di dare più tempo alla riflessione su quello che
è un problema vero e drammatico della nostra epoca: la libertà di porre fine
alla vita di un altro che lo richieda.Giuliano Amato Presidente Consulta
Un
tempo da impiegare bene, senza fare
inutili testa a testa ideologici fra chi sbandiera sofferenze insopportabili e
chi si erge a difensore della vita ad ogni costo.
Le questioni in campo sono
molte e vanno affrontate tutte con attenzione. Provo a farne un elenco:
a) i progressi della tecno-medicina, che hanno creato una zona fra la vita e la morte che può configurarsi spesso come accanimento terapeutico;
b) L’allargamento dei diritti umani a un nuovo diritto, il diritto di decidere della propria morte;
c) la definizione di una
figura giuridica complessa e difficile da definirsi, la figura del libero-consenso;
d) i costi sanitari e
perfino quelli delle pensioni (è di questi giorni la notizia che gli anziani
morti di Covid hanno permesso all'Inps un risparmio di più di un miliardo);
e) il lacerarsi dei legami familiari e comunitari che portano alla costosa ospedalizzazione di larga parte della popolazione anziana.
Ma soprattutto, e questo non va dimenticato, tutto ciò implica una riflessione vera su cosa sia la vita – alla quale abbiamo avuto accesso senza dare il nostro consenso - e cosa sia per noi la morte. Domande che, nella nostra società consumista e superficiale quasi mai siamo disposti neppure lontanamente a prendere in considerazione.
E
poi, per favore, smettiamola di recitare a favore del suicidio assistito e dell'eutanasia
la solita litania dei Paesi più avanzati
di cui dovremmo seguire l'esempio. Andiamo a vedere cosa succede veramente
in uno di questi Paesi, il Belgio.
Lì la questione del consenso, invece di essere approfondita, è stata allegramente
bypassata, allargando il “diritto” all'eutanasia ai neonati e ai malati
psichici, soggetti con ogni evidenza non in grado di esprimere il loro consenso.
Sempre in Belgio molti medici e operatori sanitari lamentano che la proposta di
eutanasia - nella forma di un modulo burocratico - sia ormai presentata anche a
malati che non ne hanno espresso spontaneamente alcuna intenzione. Una spinta
gentile? 0 forse direi un consiglio non richiesto, che però la dice lunga sulla
questione del libero consenso.
Davvero
da noi questo non potrebbe mai succedere? Davvero faremmo sicuramente leggi
ottime capaci di salvarci da queste derive? E lecito dubitarne, come ha
ricordato Luciano Violante in un articolo sul referendum, circa un anno fa: «Non sempre le buone intenzioni riescono a
fermare le cattive conseguenze».
Quando si oltrepassa un
limite, quello di considerare un crimine l'omicidio - limite sancito dai
diritti umani e anche, forse non è male ricordarlo, dai Dieci comandamenti - la tentazione di allargare
ulteriormente le possibilità di andare oltre è sempre più difficile da
arginare: le buone ragioni, vere o false che siano, infatti si trovano sempre.
LUCETTA SCARAFFIA 17/2/2022 La Stampa
venerdì 11 febbraio 2022
SUICIDIO ASSISTITO? NON CONFONDIAMO LA TUTELA DELLA SALUTE CON L’AIUTO ALLA MORTE
Ascoltare le parole
del papa: non c’è un “diritto a morire”, si potenzino le cure palliative
Non c’è dubbio sul fatto che la cultura della morte
stia dilatando la sua area di influenza e lo stia facendo a partire da due
istituzioni, la cui risonanza è enorme: il Parlamento e la Corte costituzionale.
Com’è noto alla Camera dei Deputati sarebbe dovuto iniziare il dibattito su
quella che viene comunemente chiamata come legge sul suicidio
assistito e martedì prossimo, 15 febbraio, la Corte
costituzionale dovrebbe esprimere il suo parere sulla ammissibilità del
referendum sull’omicidio del consenziente.In marcia per la vita
Sono evidentemente due modi diversi, convergenti, di
aprire all’eutanasia nell’ordinamento giuridico italiano. Questo avviene in
coincidenza di due eventi che hanno avuto e continuano ad avere un’ampia
ricaduta nell’opinione pubblica: la morte di Eluana Englaro, per cui il 9
febbraio è anche la giornata nazionale dedicata ai cosiddetti stati vegetativi,
e la prossima Giornata del malato, come sempre celebrata l’11 febbraio, in
occasione della festa della Madonna di Lourdes. Tante sfide che sollecitano le nostre
coscienze a riflettere e ad interrogarsi sul senso della vita e della morte, ma
anche un potente stimolo a chiedersi fino a dove si può spingere una legge:
cosa può consentire e cosa può proibire.
In altri termini, può la legge in discussione alla
Camera porre il diritto alla vita e il diritto a ricevere le cure necessarie a
tutelare la sua salute, sullo stesso piano di un eventuale diritto a morire?
Può una legge capovolgere uno dei diritti fondamentali fissati dalla nostra
Costituzione all’art. 32, e può stravolgere le finalità previste dalla legge
833, che istituisce il nostro Sistema sanitario nazionale? Il Ssn è tutelato in
modo specifico dal ministero della Salute e può un ministero che ha come
obiettivo la salute dei cittadini trasformarsi in un
organismo di morte?
Provvidenzialmente oggi è intervenuto in Udienza generale Papa Francesco affermando: “Non c’è un diritto alla morte. Dobbiamo accompagnare alla morte, ma non provocare la morte o aiutare chi ha deciso di suicidarsi. Ricordo che va sempre privilegiato il diritto alla cura e alla cura per tutti, affinché i più deboli, in particolare gli anziani e i malati, non siano mai scartati”. Ed è tornato più volte sul tema durante l’Udienza scandendo con forza le sue parole: “La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata. E questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti”.
“Non possiamo
evitare la morte”, ha detto Francesco, che ha
definito “immorale” l’accanimento terapeutico, ma nello stesso tempo ha
sottolineato il valore fondamentale delle cure palliative: “Dobbiamo
essere grati per tutto l’aiuto che la medicina si sta sforzando di dare,
affinché ogni persona che si appresta a vivere l’ultimo tratto di strada
della propria vita, possa farlo nella maniera più umana possibile”. Non ci
sono dubbi nel senso delle sue parole, per cui il monito che ha lanciato a
tutta l’Assemblea è apparso chiaro e inequivocabile: “Dobbiamo stare attenti a non confondere
questo aiuto con derive inaccettabili che portano a uccidere”.
Sappiamo tutti che la legge sull’eutanasia introdotta in Olanda e in Belgio circa 15 anni fa inizialmente prevedeva tutta una serie di vincoli e di garanzie che rendevano molto limitato il numero di persone che poteva accedervi. Oggi, in modo progressivamente sempre più veloce, le garanzie sono venute meno e il numero di pazienti che ricorrono all’eutanasia è cresciuto vertiginosamente. Chiedono di morire persone depresse, persone che si sentono sole, persone affette da vari tipi di demenza senile, ma anche anziani fragili e smarriti. E a loro si è rivolto Papa Bergoglio, dicendo: “Non accelerate la loro morte. Accarezzare un anziano ha la stessa speranza che accarezzare un bambino perché l’inizio della vita e la fine sono un mistero sempre, un mistero che va accompagnato, curato, amato”. Il Pontefice ha voluto sottolineare “un problema sociale ma reale: quello di pianificare, tra virgolette, non so se è la parola giusta – ha detto –, accelerare la morte degli anziani”. Ed è tornato su uno dei concetti cardine della sua catechesi: la cultura dello scarto, come segno del degrado umano e sociale che si genera nell’indifferenza e nell’egoismo. Tante volte – ha sottolineato – si vedono in un certo ceto sociale, anziani che non hanno mezzi economici e non possono procurarsi le medicine di cui hanno bisogno. “Questo è disumano. Questo non è aiutarli. Questo è spingerli più presto verso la morte. E questo non è umano né cristiano”.
In altri termini ha voluto segnalare quanto possa essere fuorviante il riferimento sistematico che pone l’accento sull’autodeterminazione del paziente, sulla sua libertà; mentre in realtà i vincoli in cui si imbatte sono pesantissimi e ne condizionano anche le decisioni più importanti, come quella di volere o non volere continuare a vivere. “Gli anziani – ha continuato sempre a braccio – vanno curati come un tesoro dell’umanità. Sono la nostra saggezza. E se non parlano, se sono senza senso, ma sono il simbolo della saggezza umana. Sono coloro che hanno fatto strada prima di noi e ci hanno lasciato tante cose belle, tanti ricordi, tanta saggezza”.
E così, per mille ragioni diverse, la legge in discussione alla Camera è slittata a marzo: un tempo per riflettere, cambiare, accantonare tutto ciò che in evidente conflitto con il principio fondamentale alla base delle relazioni familiari e dell’attività del medico. Il titolo stesso della norma appare da un lato inequivocabile: “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, e dall’altro in flagrante contraddizione con i principi e valori dell’agire medico. Se il rifiuto compete al soggetto, in prima persona, non si comprende perché questo renda lecita l’eutanasia. Dalla mia libertà non deriva la legittimazione di un comportamento finora considerato illegale, a norma dell’art. 580 del Codice penale. E la stessa sentenza della Corte costituzionale più volte invocata non fa alcun riferimento all’eutanasia. Nella legge, il cui dibattito è attualmente sospeso, si dice che la possibilità di ricorrere all’eutanasia è subordinata al fatto che la richiesta provenga da un soggetto maggiore d’età, capace di prendere decisioni libere e consapevoli e che risulti affetto da sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili.
In particolare, la legge (art. 3) richiede che la persona si trovi nelle seguenti condizioni: a) sia affetta da una patologia irreversibile o da prognosi infausta oppure portatrice di una condizione clinica irreversibile; b) sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) sia assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale. Ora la legge considera queste tre condizioni come alternative, nel senso che non c’è bisogno che si diano tutte e tre contemporaneamente.Ma le condizioni cliniche irreversibili sono davvero tantissime, se si pensa, ad esempio, alle malattie rare. Oppure, il riferimento alle cure palliative può essere velleitario in tanti luoghi in cui non ci sono hospice, o non è stata attivata la rete domiciliare delle cure palliative. Basta pensare alle Regioni del Sud, in cui questo ambito è davvero drammaticamente assente.
Sono tante le ragioni per dubitare quindi dell’evoluzione applicativa di una norma così confusa e pasticciata. Speriamo che la Camera faccia la sua parte nel miglior modo possibile. In ogni caso in Senato faremo di tutto per fermare o cambiare radicalmente una legge di questo tenore, per non dare ulteriore adito a quella cultura dello scarto tante volte denunciata da papa Francesco.