QUEI MILITANTI DEL NULLA ORFANI DELLE UTOPIE DEGLI ANNI 70
Fallite le rivoluzioni, smarrite le utopie, c’è un nucleo militante reduce
dalla cultura degli anni 70 che vuole usare la libertà per sopprimere l’uomo
stesso
Ma
c’è veramente questo dietro l’iniziativa referendaria sul suicidio assistito
che la Corte costituzionale ha bloccato? C’è veramente la sincera volontà di
staccare le macchine solamente ai casi irrisolvibili ed estremi? C’è solo pietas e misericordia?
Non sembra. La posta in gioco è infatti ben altra e va al di là
dei casi, tragici e terribili, che vengono presentati in prima linea. Per
Giacomo Papi (Il Foglio 17 febbraio) –
un esempio tra molti – “il punto è che nel nostro ordinamento la vita è tutto
quello che abbiamo, ma non l’abbiamo davvero. O almeno, non fino in fondo
perché non possiamo disporne fino a negarla”. È un’affermazione importante, non
solo perché è rappresentativa di un pensiero autorevolmente diffuso, ma perché
è rivelatrice di una sensibilità dominante interamente edificata sul primato
dell’individuo e delle sue libertà fondamentali, tra le quali c’è anche quella
di darsi la morte, qualora decida di farlo.
Sotto quest’aspetto la situazione di invalidità grave e la sua irreversibilità diventano di fatto secondarie. Per quanto vengano resi pubblici i casi estremi (per fortuna non molti), in realtà, secondo questa prospettiva, anche patologie molto meno invalidanti, quali può essere la stessa depressione, una volta che il soggetto che ne soffre la ritenga insuperabile e la sperimenti come insopportabile, ha diritto alla scelta radicale di “negarsi” la vita e una tale scelta è ritenuta rientrare tra le libertà fondamentali di quest’ultimo. Non è un caso che l’altro referendum – quello sull’uso della cannabis – si iscriva nella stessa cornice: quella delle libere scelte di soggetti adulti e consapevoli, il cui effetto non ricade che su loro stessi.
Non si può non osservare come simili obiettivi segnino una sorta di death point, un vero e proprio binario morto per la nostra
modernità depressa e rinunciataria, battuta dai venti del catastrofismo
ecologico e segnata dalla crisi delle nascite, che vuol dire
semplicemente l’arresto di qualsiasi progetto di futuro. Fallite le rivoluzioni, perse le
utopie, un nucleo militante di quella stessa componente culturale che ha
animato la protesta degli anni Settanta (o almeno quel che ne resta) si batte
oggi per il diritto all’ultima libertà, quella di “negarsi la vita” qualora lo
si decida.
L’Io sovrano di ieri è arrivato ad essere l’Io minimo di oggi. Prima si
rivendicava la qualità della vita, oggi ci si batte per la libertà di
rinunciarvi, indipendentemente da qualsiasi quadro clinico; così come ci si
batte per la libertà di azzerare, seppur momentaneamente, affetti e legami,
responsabilità e doveri, sprofondando negli oppiacei di ogni tipo.
Affiora così il diritto assoluto a
troncare, provvisoriamente o definitivamente, ogni legame sociale ogni volta
che lo si ritenga opportuno, quali che siano le motivazioni, purché consapevolmente sottoscritte.
Il problema sembra allora risiedere proprio nell’insistenza a voler
intercettare e dare forma ad un ente – l’individuo – che in realtà non esiste
se non nelle astrazioni scientifiche. In realtà, nella concreta vita sociale,
al posto degli individui esistono le persone. E la differenza tra individuo e persona passa attraverso i legami che
quest’ultima costruisce e che, facendola crescere, la fanno fiorire come
soggetto. Così, se l’individuo può chiudersi in se stesso, acquistare e
vendere, ricorrere agli oppiacei per il proprio tempo libero o meno, assumere
psicofarmaci e, se crede, farsi aiutare a togliersi la vita, la persona, ogni persona, prima di compiere qualunque azione si scopre a tenere
conto necessariamente degli altri, di tutti gli altri che le sono
significativi, perché è in costante relazione con questi ultimi, e lo è molto di più di quanto non creda.
Infatti noi non siamo degli individui che hanno delle relazioni, ma Siamo relazioni (come afferma da tempo Pierpaolo Donati). Fuori da queste esistiamo solo sul piano della sola vita biologica, quella stessa vita biologica alla quale il regime delle chiusure ci ha confinati e che vive solo negli spazi virtuali creati dai nuovi strumenti di comunicazione.
È invece nella vita ordinaria che siamo permanentemente degli esseri in
relazione e quindi esistiamo come persone. È significativo infatti che le
donne, molto meno autoreferenziali degli uomini, che vivono e sanno vivere
costruendo relazioni, si suicidino molto meno degli uomini e si segnalino,
molto meno di questi, per le richieste di suicidio assistito.
La libertà è reale solo se si realizza tra gli altri, con la loro preziosa
compagnia. Se tutti dobbiamo la nostra vita biologica a due persone, quello che
siamo diventati lo dobbiamo a molte di più. Scambiare l’autonomia
autoreferenziale dell’individuo per un segno di sovrana indipendenza e fare
della libertà di scegliere il quando e dove porre fine ai propri giorni come il
migliore segnale di emancipazione, sono probabilmente i segnali più gravi di uno smarrimento morale e di una depressione di
fatto.
Questi ristagnano in una componente culturale della società italiana che,
smarrito ogni futuro possibile, si attesta sul presente del qui ed ora, come se
l’autonomia del singolo fosse la conquista più importante per ogni persona,
mentre invece, e al contrario, sono i legami significativi a far vivere.
SALVATORE ABRUZZESE
Il sussidiario net 18 febbraio 2022
(foto La Presse)
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