Sintesi della
relazione tenuta a Cesena su invito dell’associazione “Crocevia”
martedì 28 febbraio
2023
STEFANO FONTANA
Cosa significa giudicare
Il verbo giudicare e il sostantivo giudizio hanno
oggi molti significati, rispetto ai quali rimane fondamentale il significato
filosofico, al quale in fondo tutti fanno riferimento almeno implicito. Il
giudizio in termini filosofici è una proposizione composta da due o più
concetti collegati tra loro dal verbo essere: questo cavallo è veloce. Il
giudizio esprime quindi una valutazione della realtà. Mentre i concetti sono
astratti, il giudizio si esprime sul reale. Esso significa affermare o negare
che un certo nesso ci sia nella realtà. Il giudizio può quindi essere vero o
falso. Vero quando afferma che ciò che è, è, o quando nega che ciò che non è,
sia. Falso nei casi contrari. L’uomo non può non giudicare, perché non
giudicare vorrebbe dire non vivere da uomo. Chi pretendesse di non giudicare
sarebbe contraddetto continuamente dal fatto che egli, nella sua vita, ad ogni
passo che fa anche giudica. Chi si astiene dal giudicare, poi però fa questo o
fa quello. Fare questo o fare quello è conseguenza di un giudizio. Se non
giudichiamo, sarà la vita a giudicare noi.
Nella frase che esprime un giudizio è il verbo essere a fare da
collegamento tra i concetti e a decidere se il nostro giudizio è giusto o
sbagliato. La verità è nel nostro intelletto che giudica, ma il fondamento
della verità è nella realtà. L’atto del giudicare non è un atto di superbia
della ragione, è un atto di umiltà della ragione[1]. Essa ritiene che la sua verità non sia
propriamente sua, ma che sia da essa trovata. La filosofia moderna, da Kant in
poi, ha però inteso in senso nuovo l’essere che fa da copula nel giudizio. Non
lo ha più inteso come la realtà in sé a noi indisponibile, ma solo come un
nesso logico interno al nostro pensiero. Da quel momento la ragione è diventata
superba e autoritaria, pensando di essere lei ad imporre le regole della
combinazione tra i concetti e non più la realtà. Il giudizio nella filosofia
classica e cristiana è un atto di umiltà, quello nella filosofia moderna è un
atto di arroganza. Il primo ci connette con il reale e ci permette di
convergere col giudizio altrui per esprimere un giudizio comune, il secondo ci
separa artificialmente dalla realtà e ci chiude nei nostri giudizi individuali
e non più comunitari. Nella modernità nasce il giudizio ideologico. Chi
sostiene che non si deve giudicare si mette nelle mani dell’ideologia.
Il giudizio e la Dottrina sociale della Chiesa
La Dottrina sociale della Chiesa richiede per propria natura di giudicare
gli avvenimenti del mondo. Essa, infatti, ci dà “principi di riflessione,
criteri di giudizio, direttive di azione”[2]. Giovanni XXIII aveva indicato il metodo
“vedere, giudicare, agire”[3], un metodo a dire il vero molto
problematico perché ammetteva come primo passo un vedere di tipo empirico da
affidarsi alle scienze sociali, ma qui ci interessa che comunque contenesse il
verbo giudicare come un passaggio imprescindibile. La Dottrina sociale della
Chiesa è annuncio di Cristo nelle realtà temporali e solo in questa luce, dice
la Centesimus annus, considera il resto, dal che si ricava che
l’annuncio di Cristo non può avvenire senza giudicare i fenomeni sociali a cui
quella luce viene applicata. La Dottrina sociale della Chiesa è per l’azione,
ma si agisce in base a ciò che si pensa, perché l’agire segue l’essere e non si
può agire senza avere la consapevolezza di quello che si è, senza la
consapevolezza di essere uomo e cristiano con tutto ciò che questo comporta. Il
giudizio è sempre incarnato e incarna, ma è una incarnazione che segue una
serie di luci della ragione e della fede che ci chiedono di misurarci con la
realtà. Perché il vero è il reale, come anche il buono o il bello sono il reale,
l’essere.
La Chiesa si astiene dal giudicare: alcuni esempi recenti
Durante la pandemia da Covid la Chiesa non ha invitato i fedeli a
giudicare, anzi ha tolto di mezzo tutti i criteri della Dottrina sociale della
Chiesa per timore che venissero adoperati. Ha perfino tolto di mezzo il
criterio del bene comune dicendo che vaccinarsi è un atto d’amore. Non ha
nemmeno indicato ai fedeli la necessità di adoperare la logica, infatti ha
avallato molte pratiche assurde. Ha confermato inganni e bugie, senza mettere
in guardia nei loro confronti. Quando la Santa Sede ha emesso un documento
sulla eticità della vaccinazione si è dimenticata di evidenziare che dietro il
vaccino c’era un progetto di controllo sociale. I fedeli sono stati indotti a
credere ciecamente all’OMS, al Comitato tecnico scientifico e al ministero
Speranza, ritenendo così di amare il mondo.
Rispetto al processo migratorio la Chiesa non ha insegnato a valutarlo alla
luce del bene comune sia dei migranti che dei popoli di accoglienza. Ha aperto
ad un accesso indiscriminato e ha condannato chi proponeva argomenti
ragionevoli per affrontare il problema alla luce della Dottrina sociale della
Chiesa. I fedeli hanno imparato a considerare non evangelico qualsiasi
ragionamento critico sull’accoglienza senza criteri. La Sposa del Logos non ha
insegnato ad adoperare la ragione.
Davanti all’ecologismo evidentemente ideologico del grande reset, un
ecologismo pianificato a livello mondiale come del resto le migrazioni, la
Chiesa non ha insegnato ad usare il buon senso, ad esaminare per bene gli
slogan maggiormente diffusi, ad applicare il criterio della ecologia umana come
chiave di lettura di quella ambientale. Ha permesso che venisse
strumentalizzato anche San Francesco. Non ha ricordato che molti scienziati –
prove alla mano – non sono per niente convinti che il clima dipenda dall’uomo,
non ha invitato a valutare per bene le bugie sul riscaldamento climatico
antropico, non ha denunciato le strumentalizzazioni della transizione
ecologica. Come per il Covid ha confermato l’OMS, così per il clima conferma
l’IPCC. Capita così che per la Quaresima l’Osservatore Romano inviti a ridurre
l’emissione di anidride carbonica: proposta non solo pagana ma prima di tutto
illogica e contraria al principio di realtà.
Sull’aumento del controllo sociale, della profilazione dei cittadini, sul
monitoraggio dettagliato dei loro comportamenti, sul progetto europeo per
l’Identità digitale che permetterà al potere di controllarci 24 ore su 24,
sulla lotta al contante e alla proprietà privata affinché siamo tutti
tracciabili, nessun dubbio, nessuna opposizione, nessun invito a giudicare.
Nessuno spunto critico sugli obiettivi ONU per il 2030, che ogni parrocchia
e ogni scuola cattolica fa ormai propri. Nessun intervento su decisioni parlamentari
(negli USA e in Italia) che blindano le leggi che permettono l’aborto.
Alle origini delle difficoltà della Chiesa ad insegnare a giudicare
Quando Francesco pronunciò la famosa frase “Chi sono io per giudicare?”, la
rivista Concilium pubblicò un suo numero dal titolo
«Dall’”anathema sit” al “chi sono io per giudicare?”»[4]. In questo modo una frase circostanziata
fu interpretata come l’annuncio di un nuovo paradigma teologico e pastorale,
come una rivoluzione della possibilità stessa del giudicare nella Chiesa, come
la rinuncia della Chiesa a giudicare il mondo. Ed infatti così era, dato che
ormai molti cambiamenti erano intervenuti nella teologia cattolica, condivisi
dalle gerarchie ecclesiastiche. Quella frase aveva questo significato: cos’è la
Chiesa per giudicare? Vediamo in estrema sintesi alcuni aspetti di questo
passaggio teologico.
La Chiesa sta cambiando la propria teologia morale[5]. In questa sede limitiamo il discorso ad
un solo punto, la differenza tra giudizio e discernimento. Il giudizio in campo
morale è un preciso atto della coscienza condotto alla luce dell’intelletto e
spinto dalla volontà. Esso indica un primato conoscitivo dell’intelletto che
indica alla volontà il bene, e una funzione particolare della prudenza che
collega la legge morale alla situazione in cui si deve agire. Non c’è
separazione tra la legge morale e il singolo giudizio in situazione. La
coscienza non è normativa, pur essendo creativa nel fare il bene. Per
discernimento, invece, si intende oggi una valutazione dall’interno di una
situazione esistenziale, il cui punto di vista diventa co-produttivo della
norma stessa e viene rifiutato il concetto di applicazione di essa ad una
scelta particolare. La norma non è conosciuta ma interpretata a partire dalla
situazione e in questo modo anche co-prodotta.
Questo punto dipende da un cambiamento molto più ampio della teologia
contemporanea dipendente dalla “svolta antropologica”[6] che consiste nel ritenere che nella
vita della Chiesa e del cristiano tutto sia interpretazione. Affinché ci possa
essere il giudizio nel senso classico occorre che si dia una trascendenza tra
il conoscere e la realtà, e che la realtà sia il metro per giudicare la verità
del conoscere. Ma la teologia contemporanea non la pensa più così, ritenendo
invece che chi conosce sia dentro un contesto situazionale che produce verità
insieme all’oggetto della conoscenza. Chi è dentro una situazione non può giudicarla,
perché non riesce più a vederla per quello che è ma sempre anche per quello che
gli sembra. Al di là della battuta questo è il senso espresso da chi ha detto
che ai tempi di Gesù non c’era il registratore.
Come abbiamo visto, Kant diceva che nel giudizio c’è sempre una componente
a priori, che viene prima e che lo condiziona. L’intelletto, nel giudicare, ha
sempre qualcosa alle spalle e questo qualcosa condiziona il suo giudicare che
non può avere carattere assoluto ma deve intendersi come discernimento, sempre
aperto in quanto sempre relativo, dialogico, esistenziale e storico.
Il testo del magistero che ha sancito questi grandi cambiamenti è stata
l’esortazione Amoris laetitia[7], che cambia in radice l’impostazione
precedente e in particolare quella della Veritatis splendor. E il cardinale
Kaper nella relazione ai cardinali nel febbraio 2014 in vista del sinodo sulla
famiglia sostenne che non esistono i divorziati risposati ma questo o quel
divorziato risposato. Con ciò egli voleva dire che la realtà non è fatta da
strutture conoscibili ma da singole situazioni esperibili. Si trattava di una
posizione nominalista di origine protestante che rende impossibile il giudizio
ma può solo motivare l’accompagnamento. Solo che una Chiesa che non giudica non
può nemmeno accompagnare perché non insegna il cammino.
Stefano Fontana
La Chiesa insegna ancora a giudicare? – Osservatorio Card. Van Thuân (vanthuanobservatory.com)
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
[1] Cfr. S. Brachetta, L’itinerario
dell’umiltà per mezzo della ragione.
[2] Paolo
VI, Octogesima
adveniens, n. 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Libertatis
conscientia, n. 72; Sollicitudo rei socialis nn.
8, 41.
[3] Mater
et magistra, n. 217.
[4] Dall’”anathema
sit” al “chi sono io per giudicare?, “Concilium”, L (2014) 2.
[5] Cfr.
S. Brachetta, Le assurdità del
nuovo paradigma morale.
[6] Cfr.
S. Fontana, La nuova chiesa di karl Rahner, Fede &
Cultura, Verona 2017.
[7] Cfr.
Id., Esortazione o rivoluzione. Tutti i problemi di Amoris laetitia, Fede
& Cultura, Verona 2019.
Nessun commento:
Posta un commento