mercoledì 1 marzo 2023

LA CHIESA INSEGNA ANCORA A GIUDICARE?

Sintesi della relazione tenuta a Cesena su invito dell’associazione “Crocevia”

martedì 28 febbraio 2023

STEFANO FONTANA


Cosa significa giudicare

Il verbo giudicare e il sostantivo giudizio hanno oggi molti significati, rispetto ai quali rimane fondamentale il significato filosofico, al quale in fondo tutti fanno riferimento almeno implicito. Il giudizio in termini filosofici è una proposizione composta da due o più concetti collegati tra loro dal verbo essere: questo cavallo è veloce. Il giudizio esprime quindi una valutazione della realtà. Mentre i concetti sono astratti, il giudizio si esprime sul reale. Esso significa affermare o negare che un certo nesso ci sia nella realtà. Il giudizio può quindi essere vero o falso. Vero quando afferma che ciò che è, è, o quando nega che ciò che non è, sia. Falso nei casi contrari. L’uomo non può non giudicare, perché non giudicare vorrebbe dire non vivere da uomo. Chi pretendesse di non giudicare sarebbe contraddetto continuamente dal fatto che egli, nella sua vita, ad ogni passo che fa anche giudica. Chi si astiene dal giudicare, poi però fa questo o fa quello. Fare questo o fare quello è conseguenza di un giudizio. Se non giudichiamo, sarà la vita a giudicare noi.

Nella frase che esprime un giudizio è il verbo essere a fare da collegamento tra i concetti e a decidere se il nostro giudizio è giusto o sbagliato. La verità è nel nostro intelletto che giudica, ma il fondamento della verità è nella realtà. L’atto del giudicare non è un atto di superbia della ragione, è un atto di umiltà della ragione[1]. Essa ritiene che la sua verità non sia propriamente sua, ma che sia da essa trovata. La filosofia moderna, da Kant in poi, ha però inteso in senso nuovo l’essere che fa da copula nel giudizio. Non lo ha più inteso come la realtà in sé a noi indisponibile, ma solo come un nesso logico interno al nostro pensiero. Da quel momento la ragione è diventata superba e autoritaria, pensando di essere lei ad imporre le regole della combinazione tra i concetti e non più la realtà. Il giudizio nella filosofia classica e cristiana è un atto di umiltà, quello nella filosofia moderna è un atto di arroganza. Il primo ci connette con il reale e ci permette di convergere col giudizio altrui per esprimere un giudizio comune, il secondo ci separa artificialmente dalla realtà e ci chiude nei nostri giudizi individuali e non più comunitari. Nella modernità nasce il giudizio ideologico. Chi sostiene che non si deve giudicare si mette nelle mani dell’ideologia.

Il giudizio e la Dottrina sociale della Chiesa

La Dottrina sociale della Chiesa richiede per propria natura di giudicare gli avvenimenti del mondo. Essa, infatti, ci dà “principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive di azione”[2]. Giovanni XXIII aveva indicato il metodo “vedere, giudicare, agire”[3], un metodo a dire il vero molto problematico perché ammetteva come primo passo un vedere di tipo empirico da affidarsi alle scienze sociali, ma qui ci interessa che comunque contenesse il verbo giudicare come un passaggio imprescindibile. La Dottrina sociale della Chiesa è annuncio di Cristo nelle realtà temporali e solo in questa luce, dice la Centesimus annus, considera il resto, dal che si ricava che l’annuncio di Cristo non può avvenire senza giudicare i fenomeni sociali a cui quella luce viene applicata. La Dottrina sociale della Chiesa è per l’azione, ma si agisce in base a ciò che si pensa, perché l’agire segue l’essere e non si può agire senza avere la consapevolezza di quello che si è, senza la consapevolezza di essere uomo e cristiano con tutto ciò che questo comporta. Il giudizio è sempre incarnato e incarna, ma è una incarnazione che segue una serie di luci della ragione e della fede che ci chiedono di misurarci con la realtà. Perché il vero è il reale, come anche il buono o il bello sono il reale, l’essere.

La Chiesa si astiene dal giudicare: alcuni esempi recenti

Durante la pandemia da Covid la Chiesa non ha invitato i fedeli a giudicare, anzi ha tolto di mezzo tutti i criteri della Dottrina sociale della Chiesa per timore che venissero adoperati. Ha perfino tolto di mezzo il criterio del bene comune dicendo che vaccinarsi è un atto d’amore. Non ha nemmeno indicato ai fedeli la necessità di adoperare la logica, infatti ha avallato molte pratiche assurde. Ha confermato inganni e bugie, senza mettere in guardia nei loro confronti. Quando la Santa Sede ha emesso un documento sulla eticità della vaccinazione si è dimenticata di evidenziare che dietro il vaccino c’era un progetto di controllo sociale. I fedeli sono stati indotti a credere ciecamente all’OMS, al Comitato tecnico scientifico e al ministero Speranza, ritenendo così di amare il mondo.

Rispetto al processo migratorio la Chiesa non ha insegnato a valutarlo alla luce del bene comune sia dei migranti che dei popoli di accoglienza. Ha aperto ad un accesso indiscriminato e ha condannato chi proponeva argomenti ragionevoli per affrontare il problema alla luce della Dottrina sociale della Chiesa. I fedeli hanno imparato a considerare non evangelico qualsiasi ragionamento critico sull’accoglienza senza criteri. La Sposa del Logos non ha insegnato ad adoperare la ragione.

Davanti all’ecologismo evidentemente ideologico del grande reset, un ecologismo pianificato a livello mondiale come del resto le migrazioni, la Chiesa non ha insegnato ad usare il buon senso, ad esaminare per bene gli slogan maggiormente diffusi, ad applicare il criterio della ecologia umana come chiave di lettura di quella ambientale. Ha permesso che venisse strumentalizzato anche San Francesco. Non ha ricordato che molti scienziati – prove alla mano – non sono per niente convinti che il clima dipenda dall’uomo, non ha invitato a valutare per bene le bugie sul riscaldamento climatico antropico, non ha denunciato le strumentalizzazioni della transizione ecologica. Come per il Covid ha confermato l’OMS, così per il clima conferma l’IPCC. Capita così che per la Quaresima l’Osservatore Romano inviti a ridurre l’emissione di anidride carbonica: proposta non solo pagana ma prima di tutto illogica e contraria al principio di realtà.

Sull’aumento del controllo sociale, della profilazione dei cittadini, sul monitoraggio dettagliato dei loro comportamenti, sul progetto europeo per l’Identità digitale che permetterà al potere di controllarci 24 ore su 24, sulla lotta al contante e alla proprietà privata affinché siamo tutti tracciabili, nessun dubbio, nessuna opposizione, nessun invito a giudicare.

Nessuno spunto critico sugli obiettivi ONU per il 2030, che ogni parrocchia e ogni scuola cattolica fa ormai propri. Nessun intervento su decisioni parlamentari (negli USA e in Italia) che blindano le leggi che permettono l’aborto.

Alle origini delle difficoltà della Chiesa ad insegnare a giudicare

Quando Francesco pronunciò la famosa frase “Chi sono io per giudicare?”, la rivista Concilium pubblicò un suo numero dal titolo «Dall’”anathema sit” al “chi sono io per giudicare?”»[4]. In questo modo una frase circostanziata fu interpretata come l’annuncio di un nuovo paradigma teologico e pastorale, come una rivoluzione della possibilità stessa del giudicare nella Chiesa, come la rinuncia della Chiesa a giudicare il mondo. Ed infatti così era, dato che ormai molti cambiamenti erano intervenuti nella teologia cattolica, condivisi dalle gerarchie ecclesiastiche. Quella frase aveva questo significato: cos’è la Chiesa per giudicare? Vediamo in estrema sintesi alcuni aspetti di questo passaggio teologico.

La Chiesa sta cambiando la propria teologia morale[5]. In questa sede limitiamo il discorso ad un solo punto, la differenza tra giudizio e discernimento. Il giudizio in campo morale è un preciso atto della coscienza condotto alla luce dell’intelletto e spinto dalla volontà. Esso indica un primato conoscitivo dell’intelletto che indica alla volontà il bene, e una funzione particolare della prudenza che collega la legge morale alla situazione in cui si deve agire. Non c’è separazione tra la legge morale e il singolo giudizio in situazione. La coscienza non è normativa, pur essendo creativa nel fare il bene. Per discernimento, invece, si intende oggi una valutazione dall’interno di una situazione esistenziale, il cui punto di vista diventa co-produttivo della norma stessa e viene rifiutato il concetto di applicazione di essa ad una scelta particolare. La norma non è conosciuta ma interpretata a partire dalla situazione e in questo modo anche co-prodotta.

Questo punto dipende da un cambiamento molto più ampio della teologia contemporanea dipendente dalla “svolta antropologica”[6] che consiste nel ritenere che nella vita della Chiesa e del cristiano tutto sia interpretazione. Affinché ci possa essere il giudizio nel senso classico occorre che si dia una trascendenza tra il conoscere e la realtà, e che la realtà sia il metro per giudicare la verità del conoscere. Ma la teologia contemporanea non la pensa più così, ritenendo invece che chi conosce sia dentro un contesto situazionale che produce verità insieme all’oggetto della conoscenza. Chi è dentro una situazione non può giudicarla, perché non riesce più a vederla per quello che è ma sempre anche per quello che gli sembra. Al di là della battuta questo è il senso espresso da chi ha detto che ai tempi di Gesù non c’era il registratore.

Come abbiamo visto, Kant diceva che nel giudizio c’è sempre una componente a priori, che viene prima e che lo condiziona. L’intelletto, nel giudicare, ha sempre qualcosa alle spalle e questo qualcosa condiziona il suo giudicare che non può avere carattere assoluto ma deve intendersi come discernimento, sempre aperto in quanto sempre relativo, dialogico, esistenziale e storico.  

Il testo del magistero che ha sancito questi grandi cambiamenti è stata l’esortazione Amoris laetitia[7], che cambia in radice l’impostazione precedente e in particolare quella della Veritatis splendor. E il cardinale Kaper nella relazione ai cardinali nel febbraio 2014 in vista del sinodo sulla famiglia sostenne che non esistono i divorziati risposati ma questo o quel divorziato risposato. Con ciò egli voleva dire che la realtà non è fatta da strutture conoscibili ma da singole situazioni esperibili. Si trattava di una posizione nominalista di origine protestante che rende impossibile il giudizio ma può solo motivare l’accompagnamento. Solo che una Chiesa che non giudica non può nemmeno accompagnare perché non insegna il cammino.

Stefano Fontana

La Chiesa insegna ancora a giudicare? – Osservatorio Card. Van Thuân (vanthuanobservatory.com)

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[1] Cfr. S. Brachetta, L’itinerario dell’umiltà per mezzo della ragione.  

[2] Paolo VI, Octogesima adveniens, n. 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Libertatis conscientia, n. 72; Sollicitudo rei socialis nn. 8, 41.

[3] Mater et magistra, n. 217.

[4] Dall’”anathema sit” al “chi sono io per giudicare?, “Concilium”, L (2014) 2.

[5] Cfr. S. Brachetta, Le assurdità del nuovo paradigma morale.  

[6] Cfr. S. Fontana, La nuova chiesa di karl Rahner, Fede & Cultura, Verona 2017.

[7] Cfr. Id., Esortazione o rivoluzione. Tutti i problemi di Amoris laetitia, Fede & Cultura, Verona 2019.

 


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