La straordinaria storia di un capolavoro di Albrecht Dürer salvato da un
convento di clarisse nel ravennate e "scoperto" da un umile prete
Albrecht Dürer, Madonna del Patrocinio o di Bagnacavallo (1495,
particolare)
L’affascinante icona,
un olio su tavola di dimensioni modeste (47,8×36,5 cm) oggi appartenente alla
collezione Magnani Rocca (Traversetolo, Parma), è stata il centro indiscusso
della mostra Dürer. Mater et Melancholia curata da Vittorio
Sgarbi e da poco conclusa al Mart di Rovereto.
L’icona rappresenta
una giovane donna dal volto di una straordinaria bellezza, avvolta in
un’atmosfera tutta italiana, ma dai tratti spiccatamente nordici.
Si sente in filigrana
il disegno, lo stile di un’incisione tedesca, l’arte in cui Dürer fu maestro
assoluto. E sono stati proprio questi “tratti d’oltralpe” che hanno spinto don
Antonio Savioli, sacerdote di Fusignano (1915-1999) a mettere in discussione la
paternità di Guido Reni, cercando prima un nome tra i pittori del Nord Italia e
aprendo così la strada al grande critico Roberto Longhi che, in un articolo
pubblicato sulla rivista Paragone (1961), attribuisce con
certezza la paternità dell’opera ad Albrecht Dürer, il “maestro di Norimberga”,
il “Leonardo d’oltralpe”.
Scrive don Savioli:
“In un primo momento io cercai, senza risultato, il pittore fra i lombardi
della diaspora leonardesca. Ma bastò al prof. Longhi una pallida fotografia per
scoprire la mano del grande Dürer, nome da lui pronunciato e come soffiato
sotto l’impulso di una conturbante intuizione”.
L’aria, l’atmosfera,
il soffio, l’impulso. E una semplice foto in bianco e nero. Non sappiamo come,
ma tornando indietro nel tempo, la tavola del Dürer finì, forse durante un suo
soggiorno in Italia, nelle mani del commerciante di seta Giovanni Filippo
Certani, fondatore dell’Accademia artistica dei Selvaggi.
Il Certani nel 1621
donò quella Madonna col Bambino, che considerava di Guido Reni, al convento di
Cotignola (Ravenna) in dote, insieme a 500 scudi, per l’ingresso della figlia
Isabella nelle clarisse, figlie di santa Chiara.
Con un po’ di
immaginazione, proviamo a varcare in punta di piedi le mura del convento di
Cotignola, cercando di intravedere, nel coro, dietro le grate dove veniva
esposta raramente e su richiesta, quell’icona preziosa e di rara bellezza. In
quel coro, alle voci oranti si era da poco aggiunta quella della giovane
novizia Isabella Certani, di cui si legge nelle Vite dei santi e beati
e servi di Dio della diocesi di Faenza che, divenuta suora con il nome
di Dorotea, si era così affezionata a quell’immagine donata dal padre al
convento da “starle davanti molte ore in devozione, e n’ebbe un giorno visione
mentre le porgeva calde suppliche”.
La Madonna oggetto di
quella “visione” rimase nascosta nel convento di Cotignola fino alla fine del
Settecento, quando le truppe napoleoniche scesero in Italia, spogliando chiese,
conventi e musei. Le suore, temendo il
peggio, cioè di perdere la loro Madonna col Bambino – che
chiamavano con affetto Madonna del Patrocinio (cioè della
protezione) – idearono uno stratagemma. Ne fecero fare una copia esatta che
venne sottratta dai soldati al convento al posto dell’originale. Passata la furia
napoleonica e chiuso il convento di Cotignola, si apre un nuovo capitolo per
l’icona della Madonna col Bambino, trasferita a pochi chilometri di distanza,
nel convento di Bagnacavallo, sempre delle clarisse. Ci viene in aiuto un
documento dell’epoca: “La Madre Sr. Gertrude Canattieri Religiosa Claressa del
soppresso Monastero di Cotigniola entrò nel nostro convento lì 13 maggio 1822
in età d’anni 73 […] Portò una bellissima immagine della Beata Vergine di gran
prezzo quale Immagine era delle sue Fondatrici del Convento di Cottigniola, ed
ora sta collocata nel nostro Coro, e si mostra miracolosa nel ricorso che
facciamo a lei nelle nostre necessità”.
Ed è nel convento di
Bagnocavallo che nel 1979 don Antonio Savioli scopre, vede, studia, confronta
con altre immagini quell’icona della Madonna col Bambino che le suore
continuano a custodire gelosamente, fino ad avanzare coraggiosamente per primo,
sul Bollettino Diocesano di Faenza del 1961, l’ipotesi che si tratti del
Maestro di Norimberga. Dürer quindi. E a luglio arriva puntuale la conferma del
Longhi.
E siamo ai nostri
giorni. La mostra di Sgarbi al Mart di Rovereto, gli studi e i restauri
successivi dell’opera non solo confermano la paternità di Dürer, ma retrodatano
la Madonna con il Bambino dal 1505, anno del secondo viaggio in Italia del
pittore di Norimberga, al 1495, anno del suo primo viaggio a Venezia.
Quell’aria di laguna aveva senz’altro addolcito i tratti duri – il ductus si
dice in gergo – del maestro tedesco, guidando la sua mano a far fiorire questa
Madonna-capolavoro, dai tratti nordici ma dal “cuore” italiano.
Soprattutto il velo è
un chiaro riferimento, secondo Longhi, al pittore veneziano Giovanni Bellini.
Quel “rovello tedesco” (come lo chiamava Giovanni Testori a proposito di un
crocifisso nordico), quell’impeto, quella furia ribelle, quella melanconia e
quell’ansia moralistica che sarebbe sfociata nell’arte della Riforma
luterana, si addolcisce qui a contatto con i maestri del
Rinascimento fiorentino e del Cinquecento veneto, fino a parlare (è
sempre Testori a farlo) di “mani trepide e innamorate”.
L’Amore. È qui il
miracolo, la parola-chiave. Amore, parola dal suono impossibile da pronunciare
per il mondo anglosassone. L’amore – carisma tutto italiano – che influisce
sull’arte europea e nordica. L’influsso di Bellini, Giorgione, Lotto,
Verrocchio e Antonello da Messina rintracciati da vari critici d’arte in questa
giovane Madonna.
Pure, l’ovale del suo
volto, le labbra strette, la candida cuffietta nordica divisa in due sulla
fronte, la luce filtrante della scena, i particolari delle fragole e dei fiori
secchi, il tratteggio – la texture della pennellata – ci rimandano ancora in
filigrana alle incisioni tedesche di Dürer. Solo lui è capace di evocare quelle
dita sottili tra madre e figlio, dita che tradiscono una capacità di disegno
straordinaria, dita che si sfiorano ma non si toccano, anche se il pollice del
Bambino sembrerebbe conficcarsi nell’indice della madre, per chiederle aiuto. E
quel Bambino, così metallico, come inciso nella lastra di metallo col bulino, e
nello stesso tempo così morbido, come modellato nella cera, sta per scoppiare
in lacrime, ma non lo dà a vedere. Pure alza un volto livido e contratto verso
la madre.
Solo il genio di Dürer
poteva concepire un’immagine di Madonna così giovanile, intimista e allo stesso
tempo ferma e precisa, in perfetto equilibrio tra sentimento e riflessione,
affetto verso il Bambino e presa in carico di tutta la sua responsabilità di
Madre. Sguardo fisico e insieme sguardo interiore. Sguardo che scende e si
srotola come un balsamo dai capelli ramati, così soffici e sottili, e che
sfuggono ai due lati del velo color ruggine per posarsi sulla mano.
Le pieghe della veste
rosso scuro di Maria cadono regolari sul petto. Il manto blu scuro foderato di
una stoffa cangiante rinchiude la donna in una cappa. La simbologia del rosso
indica regalità, il blu l’umanità che la riveste. L’ovale perfetto del volto
rischiara come un lume il buio drammatico in cui Madre e Figlio si trovano a
contemplare il destino doloroso che li attende. Lame taglienti di luce segnano
gli spigoli del muro di sinistra, mentre a destra un arco introduce in un
ambiente esterno fatto di mattoni a vista. Quel muro rimanda a quattro secoli
di sguardi di monache in preghiera.
Quest’opera –
conservata alla Magnani Rocca di Traversetolo – è consegnata da oggi alla
nostra contemporaneità e ci testimonia come, nell’universalità del linguaggio
dell’arte, nord e sud, ragione e sentimento, dovere e piacere, fede e
disperazione, polarità opposte insomma, si fondano in un solo colore
dominante: il
rosso della veste di Maria. Colore dell’Amore.
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il sussidiario: 18.03.2024 - Alfredo Tradigo