mercoledì 26 giugno 2024

L’ITALIA NON È UNO “SBAGLIO”, MA UN’ECCEZIONE

Da sempre si cerca di estirpare dal Paese la sua profonda radice cristiana. L'intervento del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio al convegno di "Sui tetti"

Alfredo Mantovano

Pubblichiamo l’intervento che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha pronunciato al “Festival dell’Umano tutto intero”, nella sessione dedicata a “L’eccezione (antropologica) italiana per l’Europa e il mondo”. L’evento è stato organizzato dal network di associazioni “Ditelo sui tetti” e si è svolto a Roma il 19 giugno.

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Alfredo Mantovano

“L’Italia è un Paese sbagliato. Può dispiacerci, ma è così. È stato quasi sempre dalla parte sbagliata. Ha perduto tutti gli appuntamenti più significativi con la Storia: al momento della rivolta luterana è rimasto con la Chiesa cattolica; ha vissuto sì il Rinascimento, ma conferendo a esso un’impronta di fede; ha mostrato scarso entusiasmo per la Rivoluzione francese, tant’è che quando Napoleone ha condotto in Italia i lumi del progresso sulle baionette dei propri soldati, tutti i popoli della Penisola, chi più chi meno, si sono ribellati; sembrava aver estromesso il potere clericale con la formazione dello Stato unitario, ma poi lo sciagurato Concordato lo ha ripristinato. E così via, fino ai giorni nostri, che vedono nel governo Meloni l’apoteosi dell’anomalia: quella di un popolo che elegge una maggioranza sulla base di un programma elettorale, e questa maggioranza sostiene un governo che prova a essere coerente con quel programma. Sbaglio che più grave non si può, in controtendenza con la felice esperienza dell’ultimo decennio, che invece aveva visto formarsi governi a prescindere dalla variegata e mutevole volontà popolare”.

Questo è l’abstract di storia patria redatta a cura degli establishment europeisti e internazionalisti più illuminati, le cui posizioni sono ben espresse da importanti cartelli editoriali italiani, europei e occidentali.

C’è un momento in cui questo “sbaglio” ha impresso il suo sigillo nella pietra. È descritto in uno di quei romanzi che non dovremmo stancarci di leggere coi nostri figli o coi nostri nipoti: si tratta di Quo vadis?, del polacco Henryk Sienkiewicz, a cui per quest’opera nel 1905 fu riconosciuto il premio Nobel per la letteratura. La storia è conosciuta: a Roma infuria la persecuzione di Nerone, e i cristiani convincono Pietro ad allontanarsi dall’Urbe perché altrimenti sarebbe stato ucciso. Era una preoccupazione fondata, era più di un rischio: e peraltro da sempre i cristiani pregano per il Papa affinché «non tradat eum in ánimam inimicórum éius». Così Pietro esce da Roma e inizia a percorrere la via Appia e, nel luogo dal quale adesso parte la strada che conduce alle catacombe di S. Callisto, incrocia un Uomo che invece si dirige verso Roma; non lo riconosce subito, anche se il viandante ha una immagine familiare. Gli domanda: «Quo vadis, Domine?». La risposta svela a Pietro chi è quell’Uomo e qual è il destino dell’Apostolo: «Eo Romam, iterum crucifigi» (vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente). Pietro comprende e torna sui suoi passi.

L’incontro, ripreso nel romanzo, deriva da una antichissima tradizione popolare, ricordata dal magistero pontificio. In quel sito sorge la piccola chiesa del “Domine quo vadis”: fu visitata nel 1983 da Giovanni Paolo II, che definì quel luogo di “speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa”. Perché di “speciale importanza”? Perché segna l’indissolubile originario legame fra Roma e la fede cristiana, e quindi fra l’Italia che ha Roma al centro, e il cristianesimo. Non è un legame solo confessionale: è un legame storico e culturale, che ha impresso nella nostra Nazione un sigillo materiale. Sì, anche quando non esisteva politicamente come Nazione, l’Italia è stata unita nella cultura e nella fede.

Il legame fra Roma e l’Italia si è dilatato in Europa e nel mondo. Lo ha ricordato di recente Ernesto Galli della Loggia, in un’editoriale sul Corriere della sera, quando ha elencato quelli che ha definito i caratteri ambientali, visivi e sonori tipici dell’Europa, che si ritrovano anche oltre gli Oceani, lì dove gli europei si sono radicati. Quei caratteri sono partiti da Roma e, percorrendo le vie consolari, hanno raggiunto ogni angolo dell’Europa e del mondo.

Quel sigillo ha lasciato il segno nella pietra, nel senso più concreto del termine: la piccola chiesa è stata edificata attorno all’impronta dei piedi che, sempre secondo la tradizione, Cristo ha impresso sul selciato della via Appia. Luogo di “speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della Chiesa”: nel momento in cui Pietro, pietra angolare su cui viene edificata la Chiesa, viene unito a Roma, perfino le pietre di Roma ne diventano testimoni per i millenni che seguiranno.

Quello che una robusta corrente del pensiero, della politica, dell’economia e della finanza considera da secoli uno “sbaglio”, inizia proprio da lì. Per Giovanni Paolo II non era uno “sbaglio”, lo definiva al contrario una “eccezione”, la c.d. “eccezione italiana”: il Papa Santo usava questa espressione per intendere la straordinaria resistenza della nostra Nazione attorno ai suoi principi identificativi.

Non voglio aprire il capitolo di quanto di questa eccezione sopravviva oggi. Il mix costituito da sentenze della Corte costituzionale, sentenze dei giudici di legittimità e di merito, e di leggi su materie eticamente sensibili approvate nelle ultime legislature, in particolare durante il governo Renzi, hanno circoscritto notevolmente l’area della eccezione.

Questi provvedimenti hanno inciso sul comune sentire. Le immagini sintetizzano meglio delle parole. Circa tre mesi fa a Milano viene impedita la posa in pubblico di una statua: l’opera in bronzo, intitolata “Dal latte materno veniamo”, rappresenta una donna che allatta al seno un neonato, è stata realizzata dalla scultrice Vera Amodeo, ed è stata donata al capoluogo lombardo dai figli dell’artista. La sua posa doveva avvenire in piazza Duse, ma ha avuto il parere contrario della commissione del Comune, con la seguente motivazione: “La scultura rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, ragion per cui non viene dato parere favorevole all’inserimento in uno spazio condiviso”. E con questo – ma evidentemente non solo per questo – è ben certificato che viviamo un periodo in cui ci stiamo allontanando dall’essere eccezione (viene in mente la furia che in alcune città USA ha portato alla rimozione delle statue di Colombo, et similia)! Anche se poi coi componenti della Commissione vorrei tanto condividere – sia ben chiaro, in un contesto inclusivo e rispettoso della transizione ecologica e delle differenze di genere -, la riflessione su come ciascuno di loro è venuto al mondo!

Ma, grazie a Dio, qualche residuo di anormalità in Italia c’è ancora. Se ne ha traccia non solo nello scandalo di un governo che si è formato in coerenza col voto popolare, ma pure in qualche profilo che, dalla prospettiva che affrontiamo oggi, e in particolare in questo panel, è stato poco scandagliato.

Il G7 dei capi di Stato e di Governo ha attestato l’importanza dell’avvio da parte dell’Italia del “piano Mattei per l’Africa”. L’Italia non arriva certamente per prima in Africa. Ma costituisce una eccezione il modo in cui, fra mille difficoltà, affrontando mille ostacoli, con mille incertezze, essa ha proposto e sta seguendo l’avvio del Piano. È una eccezione quanto alla modalità di interlocuzione con le singole Nazioni africane. Fa eccezione certamente rispetto a come in questi anni Russia e Cina intervengono in Africa: la Russia con contingenti in armi, aprendo nuove basi militari, appoggiando rivolgimenti violenti, tutelando l’estrazione delle materie prime nelle aree a maggiore rischio; la Cina con la sua finora inarrestata espansione infrastrutturale, commerciale e tecnologica.

Ma il modo italiano è differente anche rispetto ad altre Nazioni europee, che fino a un recente passato hanno utilizzato – e in parte ancora utilizzano – le incredibili ricchezze dell’Africa, con scarso ritorno per le popolazioni locali: adesso ne pagano il prezzo, essendo costrette a ridimensionare la loro presenza e a ritirarsi. Il Piano Mattei risponde a una logica differente: quella di un approccio paritario, che certamente distingue fra le Nazioni che mettono a disposizione le risorse, e le Nazioni destinatarie delle risorse medesime. Ma poi identifica i progetti di sviluppo non decidendo a Roma o a Bruxelles che cosa è utile per la Mauritania o per la Costa d’Avorio, bensì concordandolo sulla base delle esigenze prospettate. Rispondo a chi critica il Piano perché non sarebbe preciso nei dettagli: noi abbiamo scelto di stabilire la governance e le linee di fondo, e non intendiamo imporre nulla dall’alto. Il Piano Mattei non è un diktat: è un orizzonte entro il quale definire ogni singolo passo sulla base di un confronto paritario con gli interlocutori africani, rendendo sempre stretti i reciproci legami di fiducia e di collaborazione.

Questo vuol dire guardare all’Africa con spirito costruttivo e non predatorio. A chi dice che pensiamo di conferire risorse a Paesi di origine o di transito dei migranti, quasi fosse un corrispettivo perché loro controllino le partenze, rispondo che questa era l’impostazione dell’Unione europea nei confronti degli Stati europei di primo approdo prima che il governo italiano – quello in carica – la ribaltasse: in sintesi, denaro in cambio del trattenimento dei migranti. La dinamica del Piano Mattei è diversa: favorendo lo sviluppo negli Stati di origine, si creano le condizioni per non emigrare; curando la formazione di chi comunque intende lasciare il proprio Paese, ci si assicura già a monte, attraverso flussi migratori regolari, un percorso di integrazione anzitutto lavorativa.

Abbiamo iniziato mettendo ordine nella quantità frammentata di risorse del nostro sistema di cooperazione: fermando gli interventi a pioggia, concentrandoci su progetti che lascino traccia. La collaborazione con gli Stati che rendono disponibili proprie risorse, che nel G7 ha conosciuto un passaggio significativo, incrementerà non solo la quantità e la qualità dei progetti, ma anche un comune approccio allo sviluppo: e confidiamo che l’eccezione diventi la regola.
È un approccio che rispetta non soltanto i popoli africani e i loro governanti, ma anche le singole persone. Dobbiamo stroncare la prospettiva che il modo per arrivare in Italia e in Europa sia quello di affidare il proprio denaro e la propria vita ai trafficanti, e di affrontare viaggi disperati. L’eccezione italiana deve essere anche questa, non quella di sostenere ong che si collochino al limite delle acque territoriali libiche o tunisine per raccogliere chi parte sui barchini: perché quel sostegno, anche solo finanziario, fatto anche con le migliori intenzioni, è un incentivo ai traffici di morte.AFRICA

L’eccezione italiana fuori dall’Italia ha un altro scenario di riferimento, del quale cominceremo a parlare in modo più coordinato fra breve, ma che è già da tempo operativo con iniziative importanti: è quello latinoamericano e si declina nella collaborazione per il contrasto al narcotraffico. I clan criminali mettono in ginocchio troppe aree del Sud e del Centro America, condizionano la vita quotidiana, distorcono l’economia, corrompono la politica. L’Italia fornisce know-how e concreta collaborazione per combattere questa deriva: la nostra legislazione è presa a modello, nostri funzionari e ufficiali delle forze di polizia svolgono attività di addestramento, nostri magistrati suggeriscono percorsi di indagini. Ne riparleremo, ma anche su questo terreno l’eccezione italiana si manifesta con efficacia.

Non voglio tirarla molto alle lunghe, ma anche nel modo di trattare le crisi internazionali, a cominciare da quella in Ucraina e da Gaza, l’Italia fa valere il suo tratto. Penso, al netto degli aiuti in termini di difesa, a quanto l’Italia ha fatto e sta facendo per garantire l’energia elettrica in una parte significativa del territorio ucraino e all’avvio dei progetti per la ricostruzione a Odessa. Oppure, quanto a Gaza, all’impegno congiunto della nostra Difesa, dell’intelligence, degli Esteri, e della Salute, che finora ha permesso di tirare fuori da quell’inferno 58 bambini gravemente feriti e 98 maggiorenni, loro familiari, per condurli nei principali ospedali della nostra Penisola, per lo più pediatrici. È un gesto di concreta vicinanza a ciascuno di loro, ma è al tempo stesso un segnale di pace in quell’area: come abbiamo condannato l’attacco terroristico contro Israele, così soccorriamo, per quello che ci viene permesso, i piccoli che ne subiscono le conseguenze. E attraverso questo proviamo a stabilire condizioni di reciproca fiducia che permettano le interlocuzioni necessarie per comporre la crisi.

Chiudo da dove ho iniziato: dal legame fra Roma e Pietro, che è all’origine della eccezione italiana. Ci sono stati momenti in cui Pietro si è allontanato da Roma: non sono stati anni felici. S. Caterina da Siena è stata proclamata Patrona d’Italia anche per il suo impegno per riportare il Papa da Avignone a Roma. Sono molto grato alle associazioni che costituiscono il network Sui tetti, a chi lo promuove, e a chi ha organizzato questa due giorni di riflessione perché fornisce il suo contributo a che questo legame continui a esserci.

Nel 2001, dopo aver assistito alla proiezione di un nuovo film tratto dal romanzo di Henryk Sienkiewicz, Giovanni Paolo II commentò in questo modo: «Non si può capire l’odierno quadro della Chiesa e della spiritualità cristiana (se) non ritornando alle vicende religiose degli uomini che, entusiasmati dalla Buona notizia su Gesù Cristo, divennero i Suoi testimoni. Bisogna ritornare a questo dramma che si verificò nelle loro anime, in cui si confrontarono l’umano timore e il sovrumano coraggio, il desiderio di vivere e la volontà di essere fedele fino alla morte, il senso della solitudine davanti all’impassibile odio e nello stesso tempo l’esperienza della potenza che scaturisce dalla vicina, invisibile presenza di Dio e dalla comune fede della Chiesa nascente. Bisogna ritornare a quel dramma perché nasca la domanda: qualcosa di quel dramma si verifica in me?».

Le giornate che stanno per concludersi attestano quanto voi intendiate essere non soltanto testimoni ma soprattutto protagonisti, ciascuno per il suo, di questo incredibile dramma, in una Nazione eccezionale qual è l’Italia.

 

FRANCESCO GIUBILEI, PRESIDENTE DI NAZIONE FUTURA: “FDI VUOLE PORTARE AVANTI NUOVE IDEE ISPIRATE A PRINCIPI PERMANENTI”

 L’editore cesenate Francesco Giubilei è presidente di Nazione Futura, il movimento dell’area di centrodestra vicino a Giorgia Meloni. Accreditandosi come simpatizzante di Nazione Futura (che ha minacciato querela), una giornalista del sito Fanpage ha realizzato un’inchiesta sui giovani di Fratelli d’Italia che ha scatenato una bufera politica. Il tema è quello della continuità o meno della destra italiana con Mussolini e il fascismo. Fanpage ha rivelato l’esistenza di atteggiamenti neofascisti e neonazisti tra i giovani di Fdi.

Francesco Giubilei

Si tratta di un episodio o è un fenomeno più diffuso? «Conosco bene Gioventù Nazionale, movimento giovanile di Fdi, ho partecipato come ospite a decine di eventi che hanno organizzato dal Piemonte alla Sicilia, dal Friuli alla Puglia e in nessuna occasione, né durante gli eventi pubblici né in momenti privati come cene o aperitivi, ho mai visto posizioni estremiste o radicali. Non devo certo fare l’avvocato difensore di Gioventù Nazionale ma l’immagine emersa dal servizio di Fanpage non fornisce il vero volto delle centinaia di ragazzi e ragazze che fanno militanza al servizio della propria comunità politica. Sarebbe bello che si raccontassero anche eventi culturali, conferenze, momenti di solidarietà organizzati dai giovani di FdI».

Nell’inchiesta di Fanpage si vedono esponenti di Fdi che sembrano ‘censurarsi’ in pubblico e poi lasciarsi andare in privato. É solo opportunismo, marketing elettorale verso i nostalgici o c’è dell’altro? «Non penso sia così, non c’è nessuna nostalgia verso il passato ma al contrario, come spiega Giuseppe Prezzolini, principale conservatore italiano, la volontà di portare avanti nuove idee ispirate a principii permanenti. La destra del futuro deve guardare al pensiero conservatore come modello che si basa sulla difesa della libertà e della democrazia, valori che non appartengono al fascismo. Per farlo è necessaria un’importante opera culturale da unire alla militanza attraverso scuole di formazione politica rivolte soprattutto ai giovani a tutti i livelli, dal locale al nazionale».

A destra il rapporto col fascismo resta un problema aperto: perché non si riesce a esprimere una chiara condanna? «La destra ha già fatto i conti con la storia ed espresso una chiara condanna del fascismo, lo ha fatto negli anni Novanta con la svolta di Fiuggi e l’intuizione di Pinuccio Tatarella che portò alla nascita di Alleanza Nazionale, lo ha fatto più di recente Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento alla Camera da Presidente del Consiglio dicendo ‘mai avuto simpatie per i regimi, fascismo incluso’. Mi sembra al contrario ci sia da parte della sinistra un’ossessione per un “pericolo fascismo” che, per fortuna, non sussiste. Lo scriveva Renzo De Felice: il fascismo è terminato con la morte di Mussolini. Penso sia arrivato il momento di un dibattito politico basato su temi e contenuti e non su accuse fuori dal tempo».

 Per Fdi non sarebbe più chiaro cancellare la fiamma (che rimanda al MSI ma anche alla Repubblica Sociale di Mussolini) dal simbolo? «Se in futuro Fdi dovesse decidere di togliere la fiamma dal proprio simbolo dovrebbe farlo solo su richiesta dei propri militanti o elettori, non certo perché lo chiedono esternamente, è una questione di rispetto della propria comunità politica. Inoltre non penso la fiamma rappresenti un problema dal momento che alle Europee Fdi ha raggiungo il 28%, una percentuale simile a quella che raggiungeva la Democrazia Cristiana nella Prima Repubblica ed è evidente che parte del suo elettorato proviene da altre tradizioni politico/culturali non per forza di destra. Ciò è testimoniato dai flussi elettorali e dai voti ottenuti nelle periferie delle grandi città e tra i ceti più deboli che in passato votavano a sinistra e oggi scelgono in molti casi FdI”  

Intervista di Emanuele Chesi, da “Il resto del carlino”

 

 

venerdì 21 giugno 2024

IL CRISTIANESIMO NON SIA RIDOTTO A MORALISMO

Esce il volume "È bello lasciarsi andare tra le braccia del figlio di Dio", edito dalla LEV a cura di Massimo Borghesi che raccoglie le omelie di don GIACOMO TANTARDINI, figlio spirituale di don Giussani, a San Lorenzo fuori le Mura (2007-2012).

La prefazione firmata da Francesco: "Per troppo tempo abbiamo ridotto il cristianesimo a codice di regole o sforzo volontaristico, ma ogni moralismo alla fine ci lascia addosso un senso di fallimento e tristezza. Nelle omelie di don Giacomo protagonista la Grazia"

Papa Francesco

Card. Bergoglio e don Giacomo 2009 Roma

Questo libro raccoglie le omelie di don Giacomo Tantardini, sacerdote di origini lombarde che con grande passione svolse il suo apostolato quasi per intero nella Città Eterna. Nel corso degli anni le sue omelie hanno nutrito spiritualmente migliaia di giovani e non più giovani che affollavano il sabato sera la basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Nessuno si distraeva, quando predicava: ogni parola restava nel cuore e illuminava la vita.


 E' in questa chiesa paleocristiana, dove sono venerate le reliquie del santo diacono Lorenzo, che anche io conobbi don Giacomo. Come ho già avuto modo di ricordare sul mensile 30 Giorni in occasione della sua morte, nel 2012, l’ultima immagine che conservo di lui è «durante la cerimonia delle cresime a San Lorenzo fuori le Mura, con le mani giunte, gli occhi aperti e stupiti, sorridente e serio allo stesso tempo» (Il mio amico don Giacomo, 30 Giorni, n. 5, 2012). Era già gravemente malato, pregammo per la sua salute... e lui ringraziò con un gesto che era di speranza di guarire e, allo stesso tempo, di affidamento.


La decisione di pubblicare i testi delle sue omelie (dal 2007 al 2012) non è solo un omaggio alla memoria di questo sacerdote, che fu un vivace figlio spirituale di don Luigi Giussani. Leggere e meditare le sue prediche farà bene alla nostra anima anche oggi, perché esse ci comunicano l’essenza originale della vita cristiana.

C’è sempre bisogno nella Chiesa di recuperare l’essenziale. Per troppo tempo abbiamo ridotto il cristianesimo a un codice di regole o a uno sforzo volontaristico, ma ogni moralismo alla fine ci lascia addosso un senso di fallimento e di tristezza. 

Don Giacomo, Padova 2008
Nelle meditazioni di don Giacomo grande protagonista è sempre la Grazia, perché lui era consapevole, avendolo sperimentato, che l’iniziativa di Dio sempre previene e anticipa ogni nostra intenzione, accendendo un desiderio di bene per noi e per il nostro prossimo, specialmente quello più in difficoltà. Alla parola “Grazia” don Giacomo accompagna sempre un’altra parola, che la rende concreta: “attrattiva”, perché il Signore ci attira sempre con il fascino della sua umanità.



Uno degli episodi evangelici più ricorrenti nelle omelie di don Giacomo è la conversione di Zaccheo: un “traditore del popolo”, il cui imprevisto cambiamento nasce quando, arrampicatosi per curiosità su quell’albero, incrocia lo sguardo di Gesù: «Zaccheo scende di corsa pieno di gioia... questo sguardo è puro riflesso di essere guardati; questo è l’unico sguardo che non è impotente, questo è l’unico sguardo che è pieno di gioia, questo è l’unico sguardo che l’uomo non possiede, perché è solo essere guardati» (Omelia del 3 novembre 2007).


Ecco perché la preghiera diventa la dimensione più importante della vita. «Chi prega si salva» è un motto di sant’Alfonso Maria de’ Liguori che non a caso don Giacomo amava molto. Non è una fuga devozionale da un mondo “cattivo”, la preghiera. È domandare, dal profondo di sé, ciò che dà senso e possibilità di gioia alla vita. È domandare che Lui stesso venga ad abitare la nostra vita: «Si spera dicendo: “Vieni”. Il bambino non spera astrattamente nella mamma, il bambino spera che la mamma sia vicina a lui, così la speranza cristiana, la speranza cristiana si esprime nella domanda, si esprime dicendo: “Vieni, vieni”» (Omelia del 1° dicembre 2007).

È un linguaggio semplice, quello di don Giacomo, ma si sente in queste pagine la densità delle sue letture, dal pensiero teologico del prediletto sant’Agostino alla prosa poetica di Charles Péguy, fino alla “piccola via” di santa Teresa del Bambino Gesù: «Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me» è la sua la citazione preferita.

Sono molte le omelie che toccano il cuore. La più commovente è sicuramente l’ultima, datata sabato 31 marzo 2012 a pochi giorni dalla sua scomparsa, la quale si conclude con una semplice frase, pronunciata a fatica - si legge nel libro - con un filo di voce: «Com’è bello lasciarsi andare tra le braccia del Figlio di Dio». C’era tutta la sua vita e la sua predicazione in quelle dieci parole consegnate ai suoi amici e a tutti noi.


tratto da https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2024-06/papa-francesco-prefazione-libro-lev-omelie-don-tantardini.html


mercoledì 19 giugno 2024

ENRICO BERLINGUER: NOI NON SIAMO ABORTISTI, L'ABORTO RESTA PER NOI UN MALE

Enrico Berlinguer 1981 a Firenze, Piazza santa Croce. “Noi non lottiamo per la libertà di abortire, non riteniamo l’aborto una conquista civile, né tantomeno un fatto positivo. Noi non siamo abortisti, l’aborto resta per noi un male. La legge per la prima volta mette in essere un’opera di prevenzione rivolta al superamento dell’aborto”

Berlinguer 1981 Firenze, Santa Croce


Il presidente francese Macron ha sollevato la questione dell’aborto al G7(uscendone sconfitto) per propaganda personale. Ma ne è scaturito un assalto politico del Pd e dei giornaloni a Giorgia Meloni. Perché? La legge sull’aborto c’è già, dunque su cosa nasce lo scontro?

La polemica iniziò alla nascita dello stesso governo Meloni, quando la premier affermò di non voler toccare la legge 194, ma di volerla applicare integralmente, anche nelle parti che possono aiutare la donna a decidere di non abortire. Da allora, incredibilmente, i partiti di sinistra attaccano la premier che – a loro avviso – attenterebbe al “diritto di abortire”.

In realtà lei fa riferimento proprio alla filosofia della legge 194, votata dal Pci, filosofia che dal partito guidato da Enrico Berlinguer fu particolarmente enfatizzata. Ma che oggi il Pd e la sinistra hanno rinnegato. Così, paradossalmente – oggi è la Meloni – non la Schlein – che può citare le parole di Berlinguer, molto imbarazzanti per il Pd.

Se la Meloni indicesse una manifestazione con il titolo “Perché nel futuro dei giovani non ci sia più l’aborto”, cosa accadrebbe? La sinistra si solleverebbe immediatamente. Eppure era proprio questo il titolo della manifestazione del Pci, a Firenze, il 26 aprile 1981, con Berlinguer, che definì tale parola d’ordine “bella e giusta”.

Si era nella campagna referendaria sull’abrogazione di alcune parti della legge 194 e il Pci difendeva energicamente quella legge. Berlinguer, in quel comizio, disse parole che – se fossero pronunciate oggi dalla Meloni – scatenerebbero il finimondo: “anzitutto deve essere chiaro a noi stessi e agli altri” disse il Segretario del Pci “che noi, in quanto fautori della legge 194 e anche in quanto comunisti, non difendiamo l’aborto, non lottiamo per la libertà di abortire, non riteniamo l’aborto una conquista civile, né tantomeno un fatto positivo. Così come la legge non approva, né favorisce in alcun modo l’aborto, così come le donne che hanno lottato per la fondazione di questa legge, e la società, lo Stato che tale legge hanno promulgato, non promuovono, né accettano, né approvano l’aborto”.

Da: "berlinguervitavivente.it"(*)

Dopo tale premessa – che oggi sarebbe esplosiva – Berlinguer spiegò che la legge riconosce l’esistenza della piaga dell’aborto e, pur rendendolo legale e assistito, cerca “con opportuni strumenti legislativi di contenerne i guasti e di avviare mutamenti culturali e mutamenti sociali che tendano gradualmente a farlo scomparire come atteggiamento culturale e come fatto sociale. Noi non siamo dunque abortisti, l’aborto resta per noi un male”.

Poi il leader del Pci rivendicò la parte positiva della 194: “con la legge si dà inizio per la prima volta all’opera fondamentale della prevenzione. La legge ha avviato così l’unico modo possibile per ridurre l’aborto e giungere, gradualmente certo, alla sua scomparsa”. Perciò abolire la legge – disse – “vorrebbe dire rendere assolutamente inutile ogni opera di prevenzione o di dissuasione dall’aborto”.

Berlinguer tornò a riprendere, enfatizzandolo, questo tema – che è esattamente ciò che oggi la sinistra contesta alla Meloni – e disse: “la legge per la prima volta mette in essere un’opera di prevenzione rivolta al superamento dell’aborto. Naturalmente è un’opera di lunga lena e richiede che si lavori in molte direzioni. Anzitutto bisogna creare strutture adeguate in tutto il Paese”.

Infine aggiunse: “la legge è solo un primo passo sulla via della prevenzione e quindi del superamento dell’aborto. (…) La vita sia della donna che del nascituro sarà tutelata solo quando verrà posto in atto tutto un complesso di leggi e di strutture nuove in tutti i settori della vita sociale. Solo una radicale e nuova scelta politica e culturale potrà liberare progressivamente la donna dal bisogno di abortire e quindi tutelare sufficientemente la vita sia della madre che del concepito”.

Naturalmente anche in campo laico si levarono diverse voci contro questa impostazione, cioè contro la legge 194. Per esempio Norberto Bobbio fu critico con la legge, contestandola da filosofo del diritto, e si espresse in difesa della vita del nascituro in base alla morale laica e umanista.

Ma quello che tutti condividevano con i cattolici – sia Berlinguer, che Bobbio, che Pasolini – era il giudizio sull’aborto in sé ritenuto un male, una tragedia sia per la donna che per il concepito. La legge 194 fu confermata dal referendum con la convinzione – illustrata da Berlinguer – che fosse un mezzo per limitare un male, per renderlo meno traumatico e per avviarsi alla sua prevenzione fino alla sua scomparsa.

Ma di recente è accaduto qualcosa di segno opposto. Decidere – come ha fatto Macron in Francia – di inserire addirittura l’aborto nella Costituzione francese significa trasformarlo in un valore positivo da promuovere.

Macron, con la velleità napoleonica di guidare il mondo, ha poi ottenuto che pure il Parlamento europeo si esprimesse in tal senso e hanno votato con lui i partiti italiani del centrosinistraCon questa ideologia l’aborto non è più un male da contenere e prevenire, ma diventa un valore positivo. Ciò contraddice Berlinguer, la storia della sinistra e le leggi che negli anni Settanta legalizzarono l’aborto.

Anche in Francia. Giuseppe Anzani ha ricordato che “la legge ottenuta nel 1975 da Simone Veil”, quella ancora in vigore, “fu accompagnata da queste sue parole: ‘Nessuno può provare soddisfazione profonda nel difendere un testo simile su questo tema: nessuno ha mai contestato che l’aborto sia un fallimento e un dramma’”.

Contro l’aborto si sono espressi i Papi, da Giovanni Paolo II a papa Francesco, e autorevoli laici come Norberto Bobbio (padre del pensiero progressista).

Ma, quanto alla legge, la Meloni, per la sua battaglia di oggi, può rifarsi a Simone Veil e, nel concreto dell’applicazione della 194, addirittura a quel Berlinguer che la Schlein ha rappresentato sulla tessera 2024 del Pd, ma che, di fatto, ha rinnegato preferendogli Macron, portando così il Pd e la sinistra nel baratro nichilista.

Antonio Socci

Da “Libero”, 17 giugno 2024

(*) https://berlinguervitavivente.it/2017/09/28/oggi-giornata-mondiale-per-laborto-libero-e-sicuro-1981-il-discorso-di-berlinguer-a-firenze-sulla-194/


 


martedì 18 giugno 2024

FINKIELKRAUT: ESSERE DI DESTRA NON È SOLO CONSERVARE MA SALVARCI DAL PROGRESSO SFRENATO



Il video integrale dell’intervista concessa a Tempi dal filosofo francese in occasione della consegna del Premio Luigi Amicone - Premio Cultura Città di Caorle 2024 

II tipo di conservatorismo di cui abbiamo bisogno oggi.

Nel suo libro “Noi Moderni” FinkielKraut descrive con esattezza, al di là della divisione politica destra-sinistra, il tipo di conservatorismo di cui avremmo bisogno oggi:” Paul Valery ha questa magnifica frase: “ A rovinare i conservatori è stata la cattiva scelta delle cose da conservare”.

Il conservatorismo si è per lungo tempo identificato con la riproduzi0ne dell’ordine sociale, col mantenimento dei privilegi, col rigido rifiuto dell’equalizzazione  delle condizioni. Questo tipo di conservatorismo non ha più seguaci, anche la destra a cessato di considerarlo proprio. Con ciò non abbiamo ancora finito con l’idea di conservazione. Il progresso è effettivamente in crisi. Sorge un nuovo paradigma, definito molto bene dal filosofo Hans Jonas: al principio di speranza, fondatore della modernità a partire da Cartesio e Bacone, succede, a poco a poco, il principio di responsabilità.. e all’idea di cambiare il mondo quella di salvare ciò che può essere salvato. Certamente la terra, che soffre più che mai, m anche la lingua, la cultura, la bellezza del modo. Abbiamo bisogno di una ecologia generale: “salvare” è diventato il verbo politico per eccellenza; salvare e non più cambiare”.

 L’ecologia deve rendere la terra abitabile, non trasformarla in una galera.

«L’ecologia di cui abbiamo bisogno non è quella di Greta Thunberg e del suo “Come osate?” furibondo». Parlando il 16 giugno alla cerimonia di consegna del Premio Luigi Amicone – Premio Cultura di Caorle 2024, l’intellettuale francese Alain Finkielkraut critica le politiche ambientali dell’Unione Europea, soprattutto quelle che favoriscono la diffusione delle pale eoliche. «Gli impianti eolici riescono a rallentare il riscaldamento globale», afferma il filosofo, «ma i numeri non sono tutto. Gli impianti eolici trasformano le campagne in paesaggio industriale. Bisognerebbe che l’ecologia ridiscendesse sulla terra, che non si preoccupasse più del pianeta, ma di rendere abitabile la terra. Una terra imbruttita, atrocemente imbruttita, non è più abitabile».

L’immigrazione e il ritorno dell’antisemitismo

Nella giornata conclusiva della manifestazione “Chiamare le cose con il loro nome”, organizzata da Tempi e dal Comune di Caorle, Finkielkraut attacca anche le forze politiche che in Francia e nel resto d’Europa si schierano a favore dell’accoglienza indiscriminata dei migranti: «Oggi la sinistra e il padronato sono d’accordo; condividono la stessa filosofia, la stessa ontologia: gli uomini sono intercambiabili. Ecco cosa vorrebbero farci credere. La sinistra ragiona in questo modo in nome del bel principio dell’universalità del simile». Ma questo principio «ha condotto oggi a negare tutte le distinzioni fondatrici delle comunità politiche. La differenza fra l’autoctono e lo straniero è rimessa in discussione, l’idea di preferenza nazionale è criminalizzata. Quando i paesi europei cercano di riprendere il controllo delle loro frontiere, sono censurati dalle varie Corti costituzionali».

In un momento storico in cui «i nuovi antisemiti, gli antisemiti attivi, vengono reclutati fra i migranti», continua l’intellettuale francese, «l’Europa dell’ospitalità rischia di trasformarsi in un’Europa dell’antisemitismo. Perciò dobbiamo uscire dalle nostre illusioni, svegliarci, e soprattutto ricordarci che non è perché gli uomini sono simili che sono intercambiabili. Gli uomini hanno una genealogia, un’appartenenza, e di tutto questo occorre saper tenere conto perché la convivenza non sia una menzogna ridicola e pericolosa».

Contro Hamas e contro Netanyahu

Il filosofo di origini ebraiche sostiene il diritto di Israele a difendersi da Hamas, ma attacca anche le politiche del premier Benjamin Netanyahu: «Hamas è il nemico, il nemico che vuole non solo la sconfitta di Israele, ma la scomparsa di Israele e la morte degli israeliani. È questo il messaggio genocida del 7 ottobre. Al nemico bisogna rispondere con la guerra, ma Netanyahu è il problema perché chiude tutte le vie di uscita, fa sabotaggio a tutte le soluzioni e per restare al potere si è alleato con degli infrequentabili: con Itamar Ben-Gvir del partito Potere Ebraico e con Bezalel Smotrich del Partito sionista religioso. Questa gente ha un programma esplicito e terrificante: vogliono l’annessione della Cisgiordania e non semplicemente la perpetuazione dello status quo, come malauguratamente vuole Netanyahu». La profondità della lacerazione che Israele vive èdata dai due “giudaismi” che si affrontano, e non sono soltanto due visioni politiche del mondo. Due giudaismi: un giudausmo della giustizia, quello deldono della Torah e delSinai, e un giudaismo sulla promessa: questa terra è nostra e Dio ce l’h’ha promessa. Dunque è una questione davvero metafisica.

L’odio “woke”

Finkielkraut si scaglia anche contro il “wokismo” e contro gli studenti che nelle università di tutto il mondo accusano Israele di essere uno stato genocida. ” Che cos’è il wokismo? È la nuova divisione del mondo fra oppressori e oppressi, dominatori e dominati. E che cosa sono gli ebrei per il wokismo? Sono dei dominatori, sono degli imperialisti, sono dei colonialisti, sono la quintessenza del bianco. E da quel momento passano dallo statuto di vittime a quello di torturatori, a quello di carnefici. E anziché riflettere sulla situazione nella sua complessità, di reclamare contemporaneamente il cessate-il-fuoco e la liberazione immediata degli ostaggi, e di solidarizzare con quella parte della società israeliana che vuole girare la pagina Netanyahu, i manifestanti europei non trovano niente di meglio che denunciare Israele come stato genocida; stato genocida, niente meno! Un nuovo slogan infuria: non più “ogni anticomunista è un cane”, ma “ogni israeliano è un cane, ogni sionista è un cane, ogni ebreo è un cane”. Mi trovo dunque nella situazione di combattere palmo a palmo questo antisemitismo per non dovergli abbandonare la critica necessaria della politica israeliana». Verso gli studenti europei, prosegue Finkielkraut, «provo stupore e disgusto». Ci viene detto che gli studenti esprimono le loro emozioni, ma l’emozione non giustifica la semplificazione, non giustifica la stupidità.”

L’impegno come decisione per una causa imperfetta

Infine, prendendo nettamente le distanze da Jean-Paul Sartre e dalla sua idea di intellettuale impegnato «per il vero e per il bene», Finkielkraut nell’intervista a Tempi dichiara di preferire la modestia di Paul-Louis Landsberg, che aveva definito l’impegno come «decisione per una causa imperfetta». Proprio «come Landsberg», spiega Finkielkraut «sono impegnato perché sono coinvolto, sono colpito dagli avvenimenti. Ed è questo stupore, questa collera, questo dolore che mi sottraggono al torpore e mi costringono a riflettere. Dunque ho bisogno di questa emozione per pensare e per scoprire quella che credo essere la verità». “La cultura è l’idea di una umanità corale , e fortunatamente la morte non ha alcun potere sulla cultura”.

 Intervista diRodolfo Casadei

 


lunedì 17 giugno 2024

IL POTERE NON SOPPORTA CHI È CONTRARIO ALL’ABORTO

 Lorenzo Malagola

Aborto e potere. Cosa ho imparato dagli attacchi al mio emendamento per la vita. Il testo non modifica in nulla la 194, ma hanno provato ad annichilirmi con una campagna mediatica piena di bugie. E i primi attacchi sono arrivati purtroppo da cattolici di sinistra

 

Lorenzo Malagola, Deputato FDI

La notorietà fa parte della dimensione pubblica di un politico. C’è chi la cerca, chi la vive con distacco e chi addirittura la subisce, scoprendosene travolto. La notorietà è tendenzialmente divisiva, crea fazioni e separa i sostenitori dai detrattori. Recentemente anche io ho toccato con mano cosa significhi essere al centro di un piccolo caso mediatico a livello nazionale.

Partiamo dai fatti. Sono stato promotore di un emendamento a un decreto legge sul Pnrr in discussione alla Camera. Un provvedimento complesso che, tra le altre cose, andava a finanziare le Case della comunità, nuova articolazione dei servizi socio-sanitari a livello territoriale. Essendo prevista in esse la presenza dei consultori, ho ritenuto importante ribadire quanto contenuto nella legge 194/78 laddove recita la possibilità di avvalersi per i consultori «della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

Anche considerando le poche convenzioni esistenti tra le Regioni (che hanno competenza sulla materia) e il terzo settore. Come se questa parte della legge 194 fosse nei fatti ignorata. L’emendamento è stato approvato con il parere positivo del governo e nella totale indifferenza dell’opposizione, che lo ha avuto sotto il naso per diversi giorni ma si è accorta di esso ormai fuori tempo massimo, quando era stata già posta la fiducia sull’intero decreto.

Il metodo dell’ideologia

La grancassa della sinistra ha quindi iniziato a suonare il consueto ritornello dell’attentato al diritto all’aborto, del sovvertimento della 194 e da ultimo – come poteva mancare? – del pericolo fascista. Dieci giorni di titoli di giornale, editoriali, trasmissioni tv, interviste a intellettuali e chiaramente manifestazioni di piazza. In un corteo, qualche attivista ha pure tenuto a ricordarmi con un cartello che il “vento fischia” anche per me, monito non propriamente pacifico.

Da questa prima esperienza di involontaria notorietà (non ho rilasciato dichiarazioni pubbliche sul tema per evitare di rilanciare la polemica) ho certamente messo a fuoco alcune questioni.

Il potere non sopporta chi è contrario all’aborto

Primo: il potere non sopporta, anzi è assolutamente contrario a chi difende la vita, soprattutto se fragile e indifesa. Aveva ragione Madre Teresa di Calcutta quando, ritirando il premio Nobel, scandalizzò il mondo connettendo l’aborto addirittura alla guerra, affermando che il germe della guerra è lo stesso contenuto nell’aborto. Infatti, se la vita è sacra e intangibile, esiste allora qualcosa che viene prima del potere ed esso stesso è chiamato a inchinarsi a una morale che lo precede. La difesa della vita nascente smaschera l’arroganza del potere, il quale – come scriveva don Luigi Giussani – «nella vicenda moderna del pensiero, si è volto contro la Trascendenza».

Manifestazione abortisti aprile 2024

Secondo: l’ideologia non vede la realtà ma solo ciò che ha nella propria testa. Quanto previsto dal mio emendamento non ha in alcun modo modificato la legge 194, ma la necessità di non aprire un varco nel proprio fronte ha portato il potere a provare ad annichilirmi con una campagna mediatica piena di menzogne. Ogni mezzo diventa lecito, la propaganda progressista non fa prigionieri e in un attimo diventa violenta, i suoi cantori levano la propria voce all’unisono senza lasciare possibilità di replica. Come sempre, usa il metodo della derisione o della falsificazione, e quando non ha più argomentazioni valide nel merito, colpisce direttamente la persona screditandola. Altro che unità

Terzo: la comunione tra i cattolici è ancora lontana. I primi attacchi sono arrivati purtroppo dai cattolici di sinistra che hanno rilasciato dichiarazioni scandalizzate, si sono battuti il petto di fronte a questo attentato alla libertà della donna perpetrato da un deputato catto-fascista. Mi chiedo come si possa riscoprire l’unione battesimale che lega chi è impegnato in politica alla luce della fede. Solo questo è garanzia di libertà di fronte alle dinamiche del potere e origine della testimonianza che possiamo portare nell’agone politico. Altrimenti i cattolici diventano irrilevanti non tanto per una mancanza di potere, ma proprio per aver ultimamente abdicato alle sue logiche.

L’emendamento ha avuto una rilevanza che non mi attendevo ma evidentemente ha toccato un nervo scoperto. Mi auguro che possa sostenere le Regioni nell’applicare pienamente la legge 194 e abbia dato un segno di riconoscimento e solidarietà alle migliaia di volontari che ogni giorno sono impegnati nel prendersi cura della vita nascente e della tutela delle donne. 

 

venerdì 14 giugno 2024

LA SOCIETA' ABORTISTA ED EUTANASICA DELLA SCHLEIN

 Scrive Leonardo Lugaresi:

”I più svegli l’avevano capito già da un pezzo – C.S. Lewis, tanto per dirne uno, ne parlava già nel 1943 – ma oramai dovrebbe essere evidente anche ai più tonti, come me: gli uomini non li sopporta più nessuno. Nessuno di quelli che hanno potere, quantomeno.

Tanto per cominciare sono troppi. Otto miliardi, si dice (ma vattelapesca): un’enormità che fa impressione anche soltanto a dirla. Tutti gli ambientalisti, i cultori di “Madre Natura”, gli angosciati per la sorte del pianeta – e chi si azzarda a non esserlo? Se non ti iscrivi a una di queste parrocchie o se almeno non te ne stai zitto e buono, diventi immediatamente una brutta persona – al di là di tutte le chiacchiere sulla transizione ecologica, la sostenibilità, le tecnologie verdi e via dicendo, sotto sotto, nello scantinato della mente (quello dove stanno le cose che non si dicono, ma che contano davvero), pensano che il vero problema sia che l’umanità pesa troppo. Otto miliardi di individui la terra non li regge: fanno del danno semplicemente esistendo (ogni respiro consuma ossigeno e produce anidride carbonica), e se anche i poveri del mondo vogliono emanciparsi e consumare come noi è finita. Quindi bisogna che nascano sempre meno uomini e ne muoiano di più.

Il carattere abortista ed eutanasico dell’attuale “civiltà” non è secondario e accidentale, ma ne definisce l’essenza. Solo in questa prospettiva si può inquadrare concettualmente e spiegare un fenomeno altrimenti inconcepibile come la santificazione dell’aborto. Nel giro di pochissimi anni, infatti, l’aborto è passato da “tragedia” e “triste dato di fatto” di cui bisogna prendere atto per gestirlo socialmente e giuridicamente (di quella pudica ipocrisia ancora grondava la nostra legge 194 del 1978!) a “diritto umano” sacro e inviolabile, contrassegno irrinunciabile di progresso e civiltà, già in procinto di essere elevato a dovere morale e sacramento dell’anti-chiesa universale.”

 

Schlein: "E' una vergogna nazionale"

NON A CASO LA SCHLEIN PROPRIO IERI STRILLAVA CHE IL NON AVER INSERITO IL DIRITTO DI ABORTO NEL DOCUMENTO DEL G7 E’ “UNA VERGOGNA NAZIONALE”

NELLA SUA ANTICHIESA L’ABORTO E’ UN “SACRAMENTO”.