Da sempre si cerca di estirpare dal Paese la sua profonda radice cristiana. L'intervento del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio al convegno di "Sui tetti"
Pubblichiamo l’intervento che il sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, ha pronunciato al “Festival
dell’Umano tutto intero”, nella sessione dedicata a “L’eccezione
(antropologica) italiana per l’Europa e il mondo”. L’evento è stato organizzato
dal network di associazioni “Ditelo sui tetti” e si è svolto a Roma il 19
giugno.
“L’Italia è un Paese
sbagliato. Può dispiacerci, ma è così. È stato quasi sempre dalla parte
sbagliata. Ha perduto tutti gli appuntamenti più significativi con la Storia:
al momento della rivolta luterana è rimasto con la Chiesa cattolica; ha vissuto
sì il Rinascimento, ma conferendo a esso un’impronta di fede; ha mostrato
scarso entusiasmo per la Rivoluzione francese, tant’è che quando Napoleone ha
condotto in Italia i lumi del progresso sulle baionette dei propri soldati,
tutti i popoli della Penisola, chi più chi meno, si sono ribellati; sembrava
aver estromesso il potere clericale con la formazione dello Stato unitario, ma
poi lo sciagurato Concordato lo ha ripristinato. E così via, fino ai giorni
nostri, che vedono nel governo Meloni l’apoteosi dell’anomalia: quella di un
popolo che elegge una maggioranza sulla base di un programma elettorale, e
questa maggioranza sostiene un governo che prova a essere coerente con quel
programma. Sbaglio che più grave non si può, in controtendenza con la felice
esperienza dell’ultimo decennio, che invece aveva visto formarsi governi a
prescindere dalla variegata e mutevole volontà popolare”.
Questo è
l’abstract di storia patria redatta a cura degli establishment europeisti e
internazionalisti più illuminati, le cui posizioni sono ben espresse da
importanti cartelli editoriali italiani, europei e occidentali.
C’è un momento in cui questo “sbaglio” ha impresso il
suo sigillo nella pietra. È descritto in uno di quei romanzi che non dovremmo
stancarci di leggere coi nostri figli o coi nostri nipoti: si tratta di Quo vadis?, del polacco Henryk
Sienkiewicz, a cui per quest’opera nel 1905 fu riconosciuto il premio Nobel
per la letteratura. La storia è conosciuta: a Roma infuria la persecuzione di
Nerone, e i cristiani convincono Pietro ad allontanarsi dall’Urbe perché
altrimenti sarebbe stato ucciso. Era una preoccupazione fondata, era più di un
rischio: e peraltro da sempre i cristiani pregano per il Papa affinché «non
tradat eum in ánimam inimicórum éius». Così Pietro esce da Roma e inizia a
percorrere la via Appia e, nel luogo dal quale adesso parte la strada che
conduce alle catacombe di S. Callisto, incrocia un Uomo che invece si dirige
verso Roma; non lo riconosce subito, anche se il viandante ha una immagine
familiare. Gli domanda: «Quo vadis, Domine?». La risposta svela a Pietro chi è
quell’Uomo e qual è il destino dell’Apostolo: «Eo Romam, iterum crucifigi»
(vado a Roma, per essere crocifisso nuovamente). Pietro comprende e torna sui
suoi passi.
L’incontro, ripreso nel romanzo, deriva da una
antichissima tradizione popolare, ricordata dal magistero pontificio. In quel
sito sorge la piccola chiesa del “Domine
quo vadis”: fu visitata nel 1983 da Giovanni Paolo II, che definì quel
luogo di “speciale importanza nella storia di Roma e nella storia della
Chiesa”. Perché di “speciale importanza”? Perché
segna l’indissolubile originario legame fra Roma e la fede cristiana, e quindi
fra l’Italia che ha Roma al centro, e il cristianesimo. Non è un legame
solo confessionale: è un legame storico e culturale, che ha impresso nella
nostra Nazione un sigillo materiale. Sì, anche quando non esisteva politicamente
come Nazione, l’Italia è stata unita nella cultura e nella fede.
Il legame fra Roma e l’Italia si è dilatato in Europa
e nel mondo. Lo ha ricordato di recente Ernesto Galli della Loggia, in
un’editoriale sul Corriere della sera, quando ha elencato
quelli che ha definito i caratteri ambientali, visivi e sonori tipici
dell’Europa, che si ritrovano anche oltre gli Oceani, lì dove gli europei si
sono radicati. Quei caratteri sono partiti da Roma e, percorrendo le vie
consolari, hanno raggiunto ogni angolo dell’Europa e del mondo.
Quel sigillo ha lasciato il segno nella pietra, nel
senso più concreto del termine: la piccola chiesa è stata edificata attorno
all’impronta dei piedi che, sempre secondo la tradizione, Cristo ha impresso sul
selciato della via Appia. Luogo di “speciale importanza nella storia di Roma e
nella storia della Chiesa”: nel momento in cui Pietro, pietra angolare su cui
viene edificata la Chiesa, viene unito a Roma, perfino le pietre di Roma ne
diventano testimoni per i millenni che seguiranno.
Quello che una robusta corrente del pensiero, della politica, dell’economia e della finanza considera da secoli uno “sbaglio”, inizia proprio da lì. Per Giovanni Paolo II non era uno “sbaglio”, lo definiva al contrario una “eccezione”, la c.d. “eccezione italiana”: il Papa Santo usava questa espressione per intendere la straordinaria resistenza della nostra Nazione attorno ai suoi principi identificativi.
Non voglio aprire il capitolo di quanto di questa
eccezione sopravviva oggi. Il mix costituito da sentenze della Corte
costituzionale, sentenze dei giudici di legittimità e di merito, e di leggi su
materie eticamente sensibili approvate nelle ultime legislature, in particolare
durante il governo Renzi, hanno circoscritto notevolmente l’area della
eccezione.
Questi provvedimenti hanno inciso sul comune sentire.
Le immagini sintetizzano meglio delle parole. Circa tre mesi fa a Milano viene
impedita la posa in pubblico di una statua: l’opera in bronzo, intitolata “Dal latte materno veniamo”, rappresenta
una donna che allatta al seno un neonato, è stata realizzata dalla scultrice
Vera Amodeo, ed è stata donata al capoluogo lombardo dai figli dell’artista. La sua posa doveva avvenire in piazza Duse,
ma ha avuto il parere contrario della commissione del Comune, con la
seguente motivazione: “La scultura rappresenta valori rispettabili ma non
universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, ragion per
cui non viene dato parere favorevole all’inserimento in uno spazio condiviso”.
E con questo – ma evidentemente non solo per questo – è ben certificato che
viviamo un periodo in cui ci stiamo allontanando dall’essere eccezione (viene
in mente la furia che in alcune città USA ha portato alla rimozione delle
statue di Colombo, et similia)! Anche se poi coi componenti della Commissione
vorrei tanto condividere – sia ben chiaro, in un contesto inclusivo e
rispettoso della transizione ecologica e delle differenze di genere -, la
riflessione su come ciascuno di loro è venuto al mondo!
Ma, grazie a Dio, qualche residuo di anormalità in
Italia c’è ancora. Se ne ha traccia non solo nello scandalo di un governo che
si è formato in coerenza col voto popolare, ma pure in qualche profilo che,
dalla prospettiva che affrontiamo oggi, e in particolare in questo panel, è
stato poco scandagliato.
Il G7 dei capi di
Stato e di Governo
ha attestato l’importanza dell’avvio da parte dell’Italia del “piano Mattei per l’Africa”.
L’Italia non arriva certamente per prima in Africa. Ma costituisce una eccezione il modo in
cui, fra mille difficoltà, affrontando mille ostacoli, con mille incertezze,
essa ha proposto e sta seguendo l’avvio del Piano. È una eccezione quanto alla
modalità di interlocuzione con le singole Nazioni africane. Fa eccezione
certamente rispetto a come in questi anni Russia e Cina intervengono in Africa:
la Russia con contingenti in armi, aprendo nuove basi militari, appoggiando
rivolgimenti violenti, tutelando l’estrazione delle materie prime nelle aree a
maggiore rischio; la Cina con la sua finora inarrestata espansione
infrastrutturale, commerciale e tecnologica.
Ma il modo italiano è differente anche rispetto ad
altre Nazioni europee, che fino a un recente passato hanno utilizzato – e in
parte ancora utilizzano – le incredibili ricchezze dell’Africa, con scarso
ritorno per le popolazioni locali: adesso ne pagano il prezzo, essendo
costrette a ridimensionare la loro presenza e a ritirarsi. Il Piano Mattei risponde a una
logica differente: quella di un approccio paritario, che certamente
distingue fra le Nazioni che mettono a disposizione le risorse, e le Nazioni
destinatarie delle risorse medesime. Ma poi identifica i progetti di sviluppo
non decidendo a Roma o a Bruxelles che cosa è utile per la Mauritania o per la
Costa d’Avorio, bensì concordandolo sulla base delle esigenze prospettate.
Rispondo a chi critica il Piano perché non sarebbe preciso nei dettagli: noi
abbiamo scelto di stabilire la governance e le linee di fondo, e non intendiamo
imporre nulla dall’alto. Il Piano Mattei
non è un diktat: è un orizzonte entro il quale definire ogni singolo passo
sulla base di un confronto paritario con gli interlocutori africani, rendendo
sempre stretti i reciproci legami di fiducia e di collaborazione.
Questo vuol dire guardare all’Africa con spirito
costruttivo e non predatorio. A chi dice che pensiamo di conferire risorse a
Paesi di origine o di transito dei migranti, quasi fosse un corrispettivo
perché loro controllino le partenze, rispondo che questa era l’impostazione
dell’Unione europea nei confronti degli Stati europei di primo approdo prima
che il governo italiano – quello in carica – la ribaltasse: in sintesi, denaro
in cambio del trattenimento dei migranti. La dinamica del Piano Mattei è diversa: favorendo lo
sviluppo negli Stati di origine, si creano le condizioni per non emigrare;
curando la formazione di chi comunque intende lasciare il proprio Paese, ci si
assicura già a monte, attraverso flussi migratori regolari, un percorso di
integrazione anzitutto lavorativa.
Abbiamo iniziato mettendo ordine nella quantità
frammentata di risorse del nostro sistema di cooperazione: fermando gli
interventi a pioggia, concentrandoci su progetti che lascino traccia. La
collaborazione con gli Stati che rendono disponibili proprie risorse, che nel
G7 ha conosciuto un passaggio significativo, incrementerà non solo la quantità
e la qualità dei progetti, ma anche un comune approccio allo sviluppo: e
confidiamo che l’eccezione diventi la regola.
È un approccio che rispetta non soltanto i popoli africani e i loro governanti,
ma anche le singole persone. Dobbiamo
stroncare la prospettiva che il modo per arrivare in Italia e in Europa sia
quello di affidare il proprio denaro e la propria vita ai trafficanti, e di
affrontare viaggi disperati. L’eccezione italiana deve essere anche questa, non
quella di sostenere ong che si collochino al limite delle acque territoriali
libiche o tunisine per raccogliere chi parte sui barchini: perché quel
sostegno, anche solo finanziario, fatto anche con le migliori intenzioni, è un
incentivo ai traffici di morte.AFRICA
L’eccezione italiana fuori dall’Italia ha un altro
scenario di riferimento, del quale cominceremo a parlare in modo più coordinato
fra breve, ma che è già da tempo operativo con iniziative importanti: è quello latinoamericano e si declina nella
collaborazione per il contrasto al narcotraffico. I clan criminali mettono
in ginocchio troppe aree del Sud e del Centro America, condizionano la vita
quotidiana, distorcono l’economia, corrompono la politica. L’Italia fornisce
know-how e concreta collaborazione per combattere questa deriva: la nostra
legislazione è presa a modello, nostri funzionari e ufficiali delle forze di
polizia svolgono attività di addestramento, nostri magistrati suggeriscono
percorsi di indagini. Ne riparleremo, ma anche su questo terreno l’eccezione
italiana si manifesta con efficacia.
Non voglio tirarla molto alle lunghe, ma anche nel modo di trattare le crisi internazionali, a cominciare da quella in Ucraina e da Gaza, l’Italia fa valere il suo tratto. Penso, al netto degli aiuti in termini di difesa, a quanto l’Italia ha fatto e sta facendo per garantire l’energia elettrica in una parte significativa del territorio ucraino e all’avvio dei progetti per la ricostruzione a Odessa. Oppure, quanto a Gaza, all’impegno congiunto della nostra Difesa, dell’intelligence, degli Esteri, e della Salute, che finora ha permesso di tirare fuori da quell’inferno 58 bambini gravemente feriti e 98 maggiorenni, loro familiari, per condurli nei principali ospedali della nostra Penisola, per lo più pediatrici. È un gesto di concreta vicinanza a ciascuno di loro, ma è al tempo stesso un segnale di pace in quell’area: come abbiamo condannato l’attacco terroristico contro Israele, così soccorriamo, per quello che ci viene permesso, i piccoli che ne subiscono le conseguenze. E attraverso questo proviamo a stabilire condizioni di reciproca fiducia che permettano le interlocuzioni necessarie per comporre la crisi.
Chiudo da dove ho iniziato: dal legame fra Roma e Pietro, che è all’origine
della eccezione italiana. Ci sono stati momenti in cui Pietro si è
allontanato da Roma: non sono stati anni felici. S. Caterina da Siena è stata
proclamata Patrona d’Italia anche per il suo impegno per riportare il Papa da
Avignone a Roma. Sono molto grato alle
associazioni che costituiscono il network Sui tetti, a chi lo promuove, e a
chi ha organizzato questa due giorni di riflessione perché fornisce il suo
contributo a che questo legame continui a esserci.
Nel 2001, dopo aver assistito alla proiezione di un
nuovo film tratto dal romanzo di Henryk Sienkiewicz, Giovanni Paolo II commentò in questo modo: «Non si può capire
l’odierno quadro della Chiesa e della spiritualità cristiana (se) non
ritornando alle vicende religiose degli uomini che, entusiasmati dalla Buona
notizia su Gesù Cristo, divennero i Suoi testimoni. Bisogna ritornare a questo
dramma che si verificò nelle loro anime, in cui si confrontarono l’umano timore
e il sovrumano coraggio, il desiderio di vivere e la volontà di essere fedele
fino alla morte, il senso della solitudine davanti all’impassibile odio e nello
stesso tempo l’esperienza della potenza che scaturisce dalla vicina, invisibile
presenza di Dio e dalla comune fede della Chiesa nascente. Bisogna ritornare a quel dramma
perché nasca la domanda: qualcosa di quel dramma si verifica in me?».
Le giornate che stanno per concludersi attestano
quanto voi intendiate essere non soltanto testimoni ma soprattutto
protagonisti, ciascuno per il suo, di questo incredibile dramma, in una Nazione eccezionale qual
è l’Italia.
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