lunedì 31 agosto 2015

MEETING, LE RAGIONI DI UNA SVOLTA


di Robi Ronza  LANUOVA BUSSOLA



Vivere e quindi testimoniare, seppur nella forma particolare della festa, la capacità della fede e dell’esperienza cristiana di confrontarsi e di incontrare positivamente la realtà contemporanea: sono questi i due motivi di fondo che furono all’origine nel 1980 dell’invenzione del Meeting di Rimini.

Dico invenzione poi perché proprio di questo si trattò. Erano tempi nei quali  una larga parte del mondo cattolico o subiva passivamente l’egemonia della cultura marxista, “religione ufficiale” di quasi tutta l’intellighenzija italiana dell’epoca, oppure si sottraeva al confronto con essa. La gente invece di Comunione e Liberazione, che intendeva stare nel presente a viso aperto e senza alcun complesso d’inferiorità, veniva costantemente stretta d’assedio nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro da un ordine costituito sociale e mediatico che la accusava di integralismo e di bassi interessi costringendola quasi permanentemente a una mobilitazione difensiva.

L’inattesa vitalità dell’esperienza di Chiesa fondata e animata da don Luigi Giussani aveva infatti suscitato un vero e proprio furore nei farisei di quegli anni. Un livido furore che mi è tornato alla memoria alla notizia delle furiose e sconclusionate invettive del deputato del Movimento Cinque Stelle Mattia Fantinati al Meeting di quest’anno. Evidentemente non solo i poveri ma anche i farisei saranno sempre con noi.

Si valutò allora che fosse molto importante costruire un’occasione in cui non doversi sempre difendere, non dover sempre replicare: un momento di festa fraterna e gentile in cui vivere e quindi testimoniare positivamente il bello e buono per tutti di quanto si aveva incontrato. Nacque allora il Meeting: dall’innesto delle urgenze e dei contenuti culturali, maturati soprattutto a Milano nell’ambiente della casa editrice Jaca Book, sull’idea nata a Rimini di una festa estiva del modo di vivere cristiano. Il suo straordinario immediato successo, una felice sorpresa per i suoi stessi promotori, dimostrò quanto l’intuizione fosse giusta e quanto diffuso fosse il desiderio cui il Meeting dava tempestiva risposta. Sin dall’origine infatti il pubblico degli interessati andò anche ben oltre la gente di Cl e la gente di fede in genere.

Rapidamente affermatosi come il più frequentato festival estivo di cultura, arte e spettacoli prima d’Italia e poi anche del mondo (non è questa un’esagerazione, ma semplicemente un dato statistico) il Meeting di Rimini assunse perciò pure molto presto una rilevanza politica sia obiettiva che soggettiva. Da un lato ai notabili della politica italiana  piaceva e interessava affacciarsi alla sua ribalta, e dall’altro per i responsabili del Meeting e dell’ambiente di cui è espressione diventò un’occasione importante di contatto diretto con il mondo politico ai suoi massimi livelli. 

Senza entrare in ulteriori dettagli, che qui ci porterebbero fuori tema, mi interessa sottolineare che da allora ad oggi il Meeting di Rimini è in sostanza queste tre cose:

1) un’affascinante esperienza cristiana di vita e di lavoro sia per chi lo fa che per chi lo visita;
2) una testimonianza appassionatamente e lietamente vissuta della capacità delle culture di matrice cristiana di incontrare positivamente il mondo contemporaneo e di dialogare con chiunque abbia passione e rispetto per l’uomo;
3) un’occasione di contatti ravvicinati al massimo livello tra l’ambiente di cui il Meeting è espressione e l’ordine costruito del potere politico e del potere economico del nostro Paese. 

I primi due elementi sono originari mentre il terzo si è aggiunto successivamente. Niente di strano: è naturale che un evento di tali dimensioni susciti l’interesse di chi è ai vertici della politica e dell’economia. Poi si tratta di vedere come gestire tale situazione, ma in sé la situazione non soltanto risulta ovvia e inevitabile, ma è anche pienamente legittima. Tuttavia, come analogamente a Comunione e Liberazione in quanto tale, anche al Meeting di Rimini questo terzo elemento pone un problema: mentre non incide sulla qualità del primo dei tre elementi di cui si diceva, entra invece in qualche concorrenza con la qualità del secondo.

È poi questo l’eterno problema del  rapporto con il potere: in quale misura è meglio starne fuori e premere su di esso dall’esterno, dal basso, dalla base sociale? In quale misura invece conviene cercare di entrarvi per dare dal suo interno un nostro contributo al bene comune? E, nel caso in cui ci si voglia muovere sia fuori che dentro di esso, qual è il punto oltre il quale il compromesso  da alto diventa basso? 

Da quasi subito - ovvero già da quando con l’edizione del 1982 l’evento divenne di rilevanza nazionale – è questo uno dei problemi cruciali che si pongono a chi governa il Meeting. È dunque in tale orizzonte che vanno cercate le risposte alle domande che la sua edizione di quest’anno, la trentaseiesima, ha suscitato in Stefano Fontana (clicca qui) e in tanti altri. Mi sembra che tutto quanto egli osserva non possa venire ignorato. Ho solo una riserva su quanto scrive di Chiara Giaccardi, definita propugnatrice del “gender cattolico”. Mi sembra troppo severo. 

Non entro comunque nel merito specifico delle critiche di Stefano Fontana. Sono in ogni caso troppo coinvolto col Meeting per farlo con libertà. Lascio che parlino per me i miei trentacinque anni nel suo comitato organizzatore (1980-2014) e i sedici anni in cui ne fui portavoce (1989-2005).

Nel quadro dell’orizzonte più sopra delineato mi limito a fare delle osservazioni d’insieme appoggiandomi soltanto su fatti aperti alla verifica di chiunque.

Osservo allora che con l’edizione di quest’anno il Meeting ha assunto un carattere marcatamente istituzionale. Il suo carattere di “opera” a responsabilità di chi la realizza  risulta essersi molto attenuata. Tale istituzionalizzazione è stata esplicitamente ribadita dal fatto che quest’ anno, salvo pochissime e secondarie eccezioni, gli incontri venivano sempre condotti da uno degli attuali cinque maggiori leader laici di Cl, ogni volta indicato nel programma con il suo incarico nel Movimento. Tanto più tenuto conto dei contatti che ovviamente si sviluppano tra i relatori invitati al Meeting e i conduttori dei loro incontri, ciò equivale a un pubblico e ufficiale accreditamento.

E di pari passo equivale al venir meno di qualsiasi eventuale rappresentatività di chiunque altro, essendo partecipe della vita del Movimento, abbia ruoli di rilievo nella vita pubblica e in particolare nella vita politica. Nei convenevoli, che precedevano l’inizio degli incontri, un’amichevole consuetudine con gli illustri invitati veniva non appena possibile fatta sapere al pubblico: si dava del tu e chiamava per nome Matteo, ossia il capo del governo, venendo affettuosamente ricambiati con la stessa confidenza; e si faceva lo stesso con ministri, semi-ministri, capi di grandi aziende. In altri tempi lo si sarebbe evitato.

Insomma, con la sua edizione 2015 il Meeting, e tutta la realtà ufficiale del mondo di cui esso è espressione, si sono presentati all’opinione pubblica come parte notabile dell’attuale establishment del nostro Paese; con tutte le cautele e i silenzi che ne conseguono. È una svolta a dir poco sorprendente rispetto alle origini e a larga parte del suo passato. Siccome però è evidente che l’ispirazione e tutti i fondamenti di tale esperienza continuano, ciò significa che questa svolta è ispirata alla speranza di procedere con rinnovata efficacia sul cammino di sempre. Auguriamoci che tale speranza trovi conferma nei fatti. E che se ciò non avvenisse si abbia poi la forza di cambiare strada. 


Resta frattanto il disagio di molti, me compreso. Per grazia di Dio un movimento come CL non è un esercito che marcia inquadrato: sono piuttosto tante carovane che fanno sosta, s’incontrano e si rifocillano alle stesse oasi. Resta dunque il disagio, ma resta anche lo spazio del cammino da un’oasi all’altra. Ad ogni modo in un’esperienza di vita cristiana niente vale di più della comunione. Se dunque ci sono tempi in cui la comunione costa sacrifici facciamoli. Vale comunque la pena di farli.

domenica 30 agosto 2015

L'ULTIMO LENZUOLO BIANCO

LA VITA DI FARHAD BITANI

Io che lapidavo le donne in Afghanistan, ora vivo solo per testimoniare la verità davanti al mondo



Il nuovo Afghanistan non viene dalle armi né dai programmi umanitari dell’Occidente. «Non esisterà finché non cambieranno gli afghani». La storia di Farhad Bitani e di una rivoluzione personale
Gli occhi del ragazzo erano abituati a quello spettacolo. Dodici anni, e già Farhad aveva visto le teste staccarsi dal busto dei condannati sotto il potente colpo della mannaia, corpi di donne imbustati nei loro burqa afflosciarsi sotto i lanci delle pietre. Le sue orecchie avevano ascoltato le grida imploranti di uomini e donne che chiedevano di avere la vita risparmiata, le urla di dolore dei suppliziati. In quegli anni nello stadio di Kabul le uniche cose rotonde che rotolavano sul terreno di gioco erano le teste dei condannati, e le grida della folla invasata non incoraggiavano calciatori né insultavano arbitri, ma piuttosto intimavano ai boia di non avere pietà.

Nella Kabul senza alcol né tivù né sport né musica dei talebani, la gente si stordiva con lo spettacolo della violenza, si inebriava del sangue e della sofferenza altrui. Farhad era come loro, esattamente come le migliaia di adulti e di ragazzi, tutti maschi, che spontaneamente, senza alcuna costrizione, il venerdì si recavano allo stadio per assistere alla massima punizione dei peccatori. Senza alcuna vergogna o sentimento di pietà, anzi col senso di esaltazione di chi partecipa a un’opera di giustizia crudele ma necessaria: la purificazione della società dai suoi parassiti, destinati al fuoco dell’inferno.
Ma quel giorno Farhad vide e udì qualcosa che non aveva mai visto e ascoltato prima. Un padre che teneva per mano, stringendole come in una morsa, due bambine di 8 e 10 anni, mentre di fronte a loro veniva condotta, legata e coperta dal burqa, la madre di quelle bambine, condannata alla lapidazione per un’accusa di adulterio. Il volto contratto dall’odio dell’uomo, le faccine sconvolte dal dolore, pallidissime e rigate di lacrime delle ragazzine. Le guardie che sciolgono la madre e le permettono di abbracciare per l’ultima volta le bambine. Le guardie che strappano le ragazzine da quell’abbraccio che nessuna delle tre voleva terminare. Le voci disperate della madre e delle figlie che implorano di non essere separate, gli insulti del padre e marito che augura l’inferno alla donna. La pioggia di pietre lanciate dai volonterosi carnefici usciti dal pubblico contro la vittima indifesa, sotto gli occhi delle bambine che il padre ha riafferrato per le mani.

«Io non avevo mai provato sensi di colpa, quelle crudeltà mi sembravano il giusto prezzo pagato dai peccatori per i loro misfatti. Non ho mai visto nessuno esprimere pietà per le vittime nello stadio: quando un condannato non moriva subito, la gente inveiva perché l’esecuzione fosse portata a termine. Ma i volti di quelle bambine mi sono rimasti dentro. Le loro grida e quelle della mamma mi risuonano ancora nell’anima. Quel giorno ho provato davvero disagio, e ad assistere alle lapidazioni non ci sono più andato. Tanto meno a lanciare le pietre. Perché anch’io, in passato, avevo partecipato alle lapidazioni. Sì, a dodici anni io ho lapidato due donne insieme alla folla».

Il segreto per sopravvivere

PADRE IBRAHIM: "LA NOSTRA PRESENZA È UNA MISSIONE E NON CI ARRENDIAMO"



 “La nostra presenza è una missione, e non ci arrendiamo. Amiamo di più, perdoniamo di più, testimoniamo di più”. Frate francescano e siriano di origini, padre Ibrahbim Alsabagh è da un anno il parroco di Aleppo. 
Intervenuto al Meeting di Rimini dopo un viaggio durato due giorni, racconta cosa significa vivere in Siria tra Al Qaeda e l’Isis, ogni giorno sotto le bombe, ogni ora in pericolo di vita. 


Padre Ibrahim, come è possibile che non prevalga il lamento davanti a una situazione così drammatica?
Percepisco la sofferenza quotidianamente, perché siamo umani, ma personalmente la sofferenza più difficile da sopportare è vedere soffrire i figli che il Signore mi ha affidato. Ma non possiamo fermarci lì. Ad Aleppo riusciamo a cogliere i segni della presenza fisica del Signore, che a volte - forse quando c’è troppa prosperità - non riusciamo a percepire. Anche il buon ladrone aveva percepito i segni del Signore, proprio mentre stava soffrendo sulla croce. E così è per noi. Con gli occhi della fede e della speranza possiamo davvero scorgere la presenza di Cristo dentro la guerra.

Cosa possiamo imparare noi cristiani d’occidente dalla vostra testimonianza?
Quello che dobbiamo imparare tutti è vivere con maggiore radicalità la nostra fede. Noi ogni giorno siamo chiamati a questa sfida, a essere più attaccati al Signore. Siamo chiamati a un abbandono fiducioso e totale nelle Sue mani, perché siamo diventati poveri e impotenti, ma Lui potrà darci la vittoria e arricchirci con le Sue grazie e i bisogni quotidiani. E’ questo che ci dà fiducia e gioia. Perché anche in Siria si impara la gioia dell’essere cristiani. Ad esempio, riusciamo ad apprezzare di più il valore dell’acqua. Quanto più ne sentiamo la mancanza e tanto più siamo contenti per ogni goccia che cade in terra. Ogni volta che bevo un bicchiere di acqua ringrazio di cuore il Signore per questo prezioso dono di sorella acqua. Si apprezza l’acqua ma anche il verde, il dono dei fratelli, il dono della comunione, il pane (anche se è secco). Dobbiamo vivere la radicalità della fede. Andare alla messa ogni giorno, celebrare e vivere sinceramente il perdono dei peccati, e la preghiera. E’ una cosa che vale per tutti, non solo per noi.

La sua testimonianza, assieme a quella dei suoi parrocchiani, sta cambiando il contesto in cui vive?
Vorrei raccontare un fatto che è accaduto proprio qualche giorno fa. Per la mancanza d’acqua tutti hanno fatto una fila di parecchie ore per prenderne un po’ dai punti di distribuzione che avevamo collocato. Erano tutti così sereni, sorridenti e pazienti che suscitavano la meraviglia a tutte le persone che passavano di lì, anche ai musulmani. Uno mi si è avvicinato e mi ha detto: non so cosa c’è di grande, ma io giro in tutta la città e vedo da dove attingono tutti, si picchiano, si spingono a vicenda, quasi si ammazzano tra di loro. Ma una pace profonda e una gioia come ho visto qui non l’ho mai vista da nessuna parte. Musulmani e cristiani che stanno assieme in fila per prendere l’acqua. E’ un ambiente di pace dentro tutta questa sofferenza, il sorriso non manca mai dalle loro facce. Forse non riusciamo a parlare molto di Cristo in questo contesto, ma con questi gesti minimi riusciamo in realtà a dire molto a tanti cuori che ascoltano e cercano qualcosa di davvero grande.

 “Verrà un giorno in cui chi vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Così ha detto Gesù 2000 anni fa. Secondo lei è arrivato quel giorno?
E’ arrivato, ma noi preghiamo ogni giorno per chi ci uccide. Offriamo la messa per la loro conversione. Siamo sicuri che - se queste persone un giorno si convertiranno - diventeranno più cristiani di noi stessi. Il Signore usa le nostre preghiere e le nostre sofferenze anche per loro, e prima o poi ci darà un grande dono della fede. Ma questo processo è già iniziato! Tanti che chiedono di battezzare i loro figli, o altri che bussano al convento e vogliono sapere di più di Gesù.  Noi forse non riusciamo a cogliere quanto è grande il merito della nostra sofferenza, ma siamo certi che edifica il mondo e salva tante anime.  Prima – mi confidava un vescovo -  pensavamo che era più opportuno tacere sulle differenze per comprare la pace, oggi sembra che il Signore non abbia accettato questo nostro modo di agire e adesso ci costringe a parlare di Cristo e annunciarlo a tutti. Quello che accade ad Aleppo è incredibile! Quanti nuovi aderenti! Quanti ricercatori, e quanti assetati che si vergognano della violenza che vedono. E quando si accorgono dell’ideale cristiano, o vedono la vita dei cristiani e la bellezza del volto di Cristo, non possono non aderire spontaneamente per abbracciare questa fede.

Oggi qual è il suo desiderio?
Oggi è il dono della pace. Di svegliarmi un giorno e vedere che la guerra è finita e pensare alla ricostruzione. Lo chiedo ogni giorno, ogni istante della mia vita.

di Andrea Avveduto28-08-2015

lanuovabussola

giovedì 27 agosto 2015

HO VISTO IL VOLTO DEL MALE

“Per favore, se c’è qualcuno che ancora pensa che l’Isis non rappresenta l’islam, sappia che ha torto. L’Isis rappresenta l’islam, al cento per cento”. 

Ha alzato la voce, intervenendo al Meeting di Rimini, padre Douglas al Bazi, sacerdote cattolico iracheno e parroco a Erbil, formulando – a mo’ di provocazione e con toni duri – un’equazione che ben pochi si erano spinti a  sostenere. 
Porta sul corpo i segni delle torture subite nove anni fa, quando una banda di jihadisti lo sequestrò per nove giorni, tenendolo bendato e in catene, con il setto nasale fracassato da una ginocchiata: “Per i primi quattro giorni non m’hanno dato neanche da bere. Mi passavano davanti e mi dicevano ‘padre, vuoi dell’acqua?’. Ascoltavano tutto il giorno la lettura del Corano per far sentire ai vicini quanto fossero bravi credenti”. 

A padre Douglas non appartiene il felpato linguaggio della diplomazia, il perbenismo di gran moda di cui si fa gran uso per non urtare sensibilità  varie. Nessuno spazio, nelle sue parole, neppure per le discettazioni sul grado più o meno alto di moderazione insito nelle religioni e per gli appelli al dialogo a tutti i costi con i tagliatori di teste, gli impiccatori di vecchi studiosi in pensione e, perché no, con il califfo in persona. Più che con i salotti e con certi pulpiti occidentali, l’intervento di padre Douglas è in sintonia con quel che dicono da tempo i presuli locali, a partire dal patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, che nel suo libro “Più forti del terrore” (Emi) ha accusato l’ayatollah al Sistani – la massima autorità sciita irachena – di non aver aperto bocca sulle persecuzioni dei jihadisti contro le minoranze perché “tanto non mi ascoltano”.


Padre Douglas al Bazi è responsabile di due centri di accoglienza per cristiani scampati all’avanzata dell’orda nera, non distante da Ankawa. Dopo la marcatura delle case cristiane dislocate nella piana di Ninive con la “n” di nazareno, un anno fa, “dalla mattina alla sera abbiamo ricevuto migliaia di profughi” e l’esodo ancora continua. 

“Io sono orgoglioso di essere iracheno, amo il mio paese. Ma il mio paese non è orgoglioso che io sia parte di esso. Quello che è successo alla mia gente è un genocidio. Vi imploro: non parlate di conflitto. E’ un genocidio”, ha detto il sacerdote, che di islam moderato non vuol sentire nemmeno parlare: 
“Quando l’islam vive in mezzo a voi, la situazione potrebbe apparire accettabile. Ma quando uno vive tra i musulmani, tutto diventa impossibile. Io qui non sono a spingervi all’odio verso l’islam. Io sono nato tra i musulmani, e tra essi ho più amici che tra i cristiani. Ma la gente cambia e se noi ce ne andremo nel mio paese nessuno più potrà distinguere la luce dalle tenebre. C’è chi dice ‘ma io ho tanti amici musulmani che sono simpatici’. Sì, certo. Sono simpatici, qui. Là la situazione è ben diversa”

Una situazione riguardo la quale aveva speso parole dure anche il vicepresidente della conferenza degli imam di Francia (e imam di Nimes) Hocine Drouiche, intervenuto lo scorso luglio al Parlamento europeo: “Nel mondo i cristiani sono perseguitati, braccati, privati del lavoro, imprigionati, torturati, assassinati. Tutti i mezzi sono usati per costringerli a rinnegare la loro fede, compreso il rituale dello stupro collettivo, considerato in certi stati come una forma di sanzione penale. Possedere una Bibbia è diventato un crimine, proibita è la celebrazione del culto, si è tornati ai tempi delle messe nelle caverne e dei primi martiri”. E la colpa, aveva aggiunto Drouiche in un discorso che ben poco risalto aveva avuto sui media europei, è “dell’islam contemporaneo”, che è molto più vicino “al settarismo, piuttosto che a una religione universale e aperta”.


“Credo che alla fine ci distruggeranno”
Il racconto di padre al Bazi è poi quello di chi rischia quotidianamente di essere assassinato per strada: “Noi non sappiamo mai se, uscendo da una chiesa, avremo la possibilità di rientrarci da vivi. A Baghdad hanno fatto esplodere la mia chiesa davanti ai miei occhi. Mi hanno sparato alle gambe con un AK-47, una specie di Kalashnikov, e probabilmente prima o poi mi ammazzeranno”. 

Eppure, la fede è solida: “Quando mi hanno incatenato, nei giorni del mio sequestro, hanno stretto ai polsi un grosso lucchetto. Dalla catena avanzavano dieci anelli, che ho usato per recitare il Rosario. Non l’ho mai fatto in maniera tanto profonda come in quella circostanza”. “Io – ha aggiunto padre Douglas – non imploro il vostro aiuto. Non sono spaventato, così come non è spaventata la mia gente. Credo ci distruggeranno, alla fine. Ma credo anche che l’ultima parola sarà la nostra. Gesù ci ha detto che bisogna portare la propria croce, ed è quello che noi in medio oriente stiamo facendo. Ma la cosa più importante non è di portare la croce, bensì di seguirla. E seguirla significa accettare, sfidare e impegnarsi fino alla fine. A questo noi non rinunceremo mai”. “Bisogna avere pazienza e portare la croce ogni giorno, ma dobbiamo anche reagire”, gli ha fatto eco padre Ibrahim Alsabagh, parroco ad Aleppo che ha ricordato come la città sia ora “divisa in decine di parti, ognuna delle quali è in mano a un gruppo jihadista diverso. La nostra chiesa di San Francesco è a sessanta metri dalla linea di fuoco. Hanno già colpito tante chiese, non sappiamo quando toccherà alla nostra”. 

Ecco perché padre Douglas, a conclusione del suo intervento, ha lanciato un monito all’occidente infiacchito: “Svegliatevi! Il cancro è alla vostra porta. Vi distruggeranno. Noi, cristiani del medio oriente, siamo l’unico gruppo che ha visto il volto del male: l’islam”.

lunedì 24 agosto 2015

CHE SUCCEDE AL MEETING?



Quella che segue è una storia triste, che chi – come il sottoscritto – ha seguito e vissuto con affetto e passione il Meeting di Rimini fin dalla prima edizione, non avrebbe mai pensato di dover scrivere; né lo avrebbe voluto. Perché la storia ci dice che si è arrivati alla censura di un ordine religioso (fedele alla Chiesa) per acquiescenza a intimidazioni esterne. Ma andiamo con ordine.

IL CONTESTO

Come ormai è noto da alcuni anni il Meeting di Rimini – seguendo le indicazioni dei vertici di Comunione e Liberazione – evita accuratamente di affrontare argomenti che possano creare polemiche o strumentalizzazioni da parte del mondo laico o anche all’interno della Chiesa; evita qualsiasi intervento che possa essere etichettato come battaglia culturale e che possa essere considerata una forma di contrapposizione. L’obiettivo è invece affrontare quella che viene individuata come la radice del problema umano. È così che anche quando si mette a tema l’uomo, l’antropologia, l’io si evitano accuratamente incontri che diano un giudizio su quanto sta dividendo la società italiana: il gender, la definizione della famiglia, la vita, e così via. Questo solo per spiegare il contesto in cui si sviluppano i fatti di questi giorni.

I FATTI

All’interno dei padiglioni della Fiera di Rimini, oltre alle mostre ufficiali del Meeting, alle sale per gli incontri e agli spazi per gli sponsor, ci sono in questa settimana molti stand che altrettante associazioni pagano per farsi conoscere, per incontrare o poter proporre le proprie iniziative ai visitatori dell'incontro riminese. Tra questi stand da diversi anni spicca la libreria delle Edizioni Studio Domenicano (ESD), la casa editrice dell’Ordine dei predicatori fondato da San Domenico. È uno stand che in questi anni è diventato un vero e proprio punto di riferimento per tante persone che affollano i locali della fiera perché offre ogni giorno diverse possibilità d’incontro: alle 12.45 un momento di preghiera e di testimonianza; alle 16 un incontro di teologia o spiritualità con uno dei padri domenicani; alle 18 un incontro sull’attualità, bioetica e famiglia soprattutto, temi di cui è esperto padre Giorgio Maria Carbone, direttore della casa editrice bolognese nonché collaboratore deLa Nuova BQ. 

E ogni sera infatti padre Carbone si fa affiancare da amici – giornalisti, medici, scienziati – per affrontare questi temi. O perlomeno li affrontava. Quest’anno infatti, il tema ricorrente alle 18 era il gender, tema a cui padre Carbone ha dedicato anche un agile libro, di cui abbiamo già parlato anche su La Nuova BQ, e che spiega in modo semplice ma rigoroso origine, sviluppo ed obiettivi dell’ideologia gender. 

LE MENZOGNE DI REPUBBLICA

Nelle prime due sere di Meeting, giovedì e venerdì, è stato il sottoscritto a tenere compagnia al padre domenicano, ma la crescente popolarità di questi incontri – almeno un centinaio di persone a sera - deve aver attirato la curiosità di qualcuno. Così all’incontro di sabato, che al fianco di padre Carbone vedeva il dottor Renzo Puccetti (altro collaboratore della Nuova BQ), si sono presentati in modo fraudolento due giornalisti diRepubblica, Francesco Gilioli e Giulia Costetti, che spacciandosi per un service ad uso del Meeting hanno filmato l’intero incontro, ovviamente alla caccia di una qualche frase che potesse “incriminare” i relatori. 

Così di lì a poco sul sito di Repubblica è apparso un breve servizio con un video del discorso di padre Carbone, titolato: «Meeting Rimini, "Le coppie omosessuali più esposte a malattie cardiovascolari e suicidio"», con un testo che spiega che si tratta di «una singolare teoria di padre Giorgio Carbone» (affermazione ripetuta su Repubblica di ieri). Doppia menzogna: primo, perché si fa credere che si tratti di una posizione del Meeting di Rimini o di uno dei relatori invitati al Meeting, mentre si tratta semplicemente di un evento all’interno di uno stand ospitato che con il programma ufficiale non c’entra nulla; secondo, perché quella enunciata non è una teoria – men che meno singolare – di padre Carbone, bensì il risultato di uno studio approfondito sulla popolazione danese svolto da due ricercatori – M. Frisch e J. Simonsen – e pubblicato nel 2013 nell’International Journal of Epidemiology. Si chiama “Matrimonio, coabitazione e mortalità in Danimarca: studio nazionale su 6,5 milioni di persone seguite per tre decenni (1982-2011)”. Lo studio è citato a pagina 65 del libro “Gender – L’anello mancante?”, appunto scritto da padre Carbone, il quale si sforza con questo di spiegare che bisogna partire dalla realtà, dai dati veri, e non dall’ideologia.

GIORNALISTI SENZA DEONTOLOGIA

Ad ogni modo è bastato il titolo ad effetto di Repubblica – tanti giornalisti purtroppo non si preoccupano neanche di leggere quel che c’è scritto negli articoli che vengono citati – per far rimbalzare ovunque la notizia di un prete al meeting che dice cose terribili sui gay. Non contenti, i due giornalisti – che in un paese serio sarebbero sanzionati per violazione della deontologia professionale – hanno approfittato della presenza in fiera per giocare un brutto scherzo anche ai volontari del Meeting. Si sono portati due dei libriccini per bambini di scuola materna di cui il neo-sindaco di Venezia Brugnaro ha vietato la diffusione nelle scuole comunali, e – senza spiegare nulla – ne hanno fatto leggere qualche pagina a volontari del Meeting pescati qua e là nella fiera. I quali, non sapendo neanche il motivo di quella richiesta, nelle poche battute lette non hanno trovato nulla di strano. Ed ecco perciò un secondo video, pubblicato sul sito di Repubblica insieme a quello di padre Carbone, che spiega come «I ciellini leggono i libri “gender” ritirati dalle scuole: “Ma non c’è nulla di scandaloso”».
L’effetto voluto è chiaro, e anche la figura barbina assicurata a ospiti e volontari del Meeting.

Avendo presente anche il fresco esempio del Papa, ci si sarebbe potuto aspettare che la direzione del Meeting prendesse almeno i due giornalisti mattacchioni di Repubblica e ritirasse loro l’accredito, viste le evidenti violazioni del codice deontologico. Si possono esprimere tutte le opinioni che si vogliono ma quando si scrivono falsità e si ingannano gli interlocutori, invocare la libertà di stampa è un insulto alla nostra professione. Del resto se il fondatore di quel giornale ammette candidamente di inventarsi i contenuti delle conversazioni con il Papa che pubblica, non ci si può aspettare molto di meglio da chi lavora per lui. E infatti, non paghi, Gilioli e Costetti ieri pomeriggio si sono presentati all’incontro delle 16 e malgrado padre Carbone abbia diffidato pubblicamente dal registrare l’incontro, minacciando azioni legali, i due hanno proseguito imperterriti, infischiandosene di ogni regola e contando evidentemente sull’impunità.

LA CENSURA DEL MEETING: SCONCERTO E DELUSIONE

Dunque, un duro richiamo a rispettare fatti e persone ci si aspettava dalla direzione del Meeting. Che invece ha preferito prendersela con padre Carbone, invitandolo gentilmente a sospendere gli incontri sul gender per non prestarsi a ulteriori strumentalizzazioni. Ecco calare così la censura su argomenti che pure il popolo del Meeting dimostra di voler conoscere meglio. Non per niente ieri sera alle 18, dopo l’annuncio della cancellazione dell’incontro che prevedeva anche l’intervento delle giornaliste Benedetta Frigerio (Tempi) e Raffaella Frullone (Radio InBlu), le tante persone presenti hanno continuato a restare sul posto proprio per approfondire il tema del gender.
Già questo atteggiamento del Meeting basterebbe per lasciare sconcertati, anche se padre Carbone ha giustamente detto dal microfono che quanto accaduto è in qualche modo già previsto nel suo libro. 

Leggiamo infatti a pagina 139: «Come ogni teoria che non ha alcuna aderenza alla realtà, anche le teorie del gender si stanno imponendo come ideologia e dittatura. Se non sei in linea con la prospettiva di genere e il pensiero gender, il minimo che tu possa ricevere è sentirti dire che sei un reazionario e arretrato fondamentalista, un troglodito rozzo e bigotto. In questo modo i dittatori del gender rendono impossibile qualsiasi possibilità di dialogo e confronto. Limitano la libertà di pensiero e di espressione, ad esempio introducendo nuovi reati di pensiero, come l’omofobia e la transfobia (…) e discriminano chi non si adegua a questa nuova visione dell’uomo». La novità è che questo accada anche al Meeting di Rimini, la prova che gli spazi di libertà si stanno inesorabilmente restringendo.

SE SI RESTRINGONO GLI SPAZI DI LIBERTA’ ANCHE AL MEETING …..

Dicevo che già questo basterebbe per lasciare sconcertati. Ma purtroppo c’è anche di più. Ieri sera infatti è stata ancora una volta Repubblica – con evidente soddisfazione - a dare ufficialmente la notizia della sospensione degli incontri allo stand delle Edizioni Studio Domenicano, con queste parole: «Giù la saracinesca, fine dei dibattiti. Non è piaciuta alla direzione del meeting di Rimini l'intraprendenza di padre Giorgio Carbone. Gli incontri nello stand dei domenicani, tutti dedicati alla cosiddetta "teoria gender", sono, per il momento, sospesi. E non è detto che la discussione riprenda.
Giustificazione ufficiale: "Evitare la sovrapposizione di dibattiti ed eventi nel già ricco programma della manifestazione". In realtà il meeting scarica il religioso protagonista degli ultimi due giorni della rassegna. Prima per aver dichiarato, davanti alle telecamere, che "le coppie omosessuali sono più esposte al rischio di malattie cardiovascolari e al suicidio", poi per aver cacciato quelle stesse telecamere, sotto minaccia di azioni legali».

Un’altra ricostruzione falsa di quanto accaduto in questi due giorni, ma la versione diRepubblica secondo cui il Meeting tratta come un fastidio insopportabile un frate domenicano, rischia di passare come la versione ufficiale dei fatti visto che – almeno fino a tarda sera - non c’erano comunicati ufficiali sul sito del Meeting da parte della direzione. E peraltro Repubblica non sembra accontentarsi. In coda al servizio, dopo aver registrato con soddisfazione lo stop agli incontri, Giulia Costetti fa infatti notare che «sospesi i dibattiti e silenziati i microfoni, restano i libri, dai titoli inequivocabili. "Gender distruzione", "I veleni della contraccezione", Pillole che uccidono"». Insomma Repubblica vuole che siano fatti sparire anche i libri. Sarà accontentata anche in questo per evitare contrapposizioni?

DA LA NUOVA BQ
RICCARDO CASCIOLI

LE COMICHE DEL PD IN SALSA GENDER

La bussola impazzita

IL FEUILLETON (romanzo popolare che spopolava tra Otto e Novecento), al confronto di quanto accade nel Pd, è nulla. Quella era letteratura basata sull’intreccio più incredibile. E improbabile. Tra morti, resurrezioni, amori clandestini, infelicità, baci rubati e duelli. Un turbine di emozioni a poco prezzo eppur di sicuro effetto. Ma niente in confronto a quel che succede in casa democratica. Tutto si confonde, tutto si mischia, le emozioni si accavallano.

PRENDIAMO lo spot radiofonico. Allora: due gay parlano e decidono di andare alla Festa bolognese del’Unità perché «a me interessa sapere della legge che ci riguarda» e perché «vorrei capire meglio le riforme, in generale». Poi tocca a una coppia lesbo che vuol sapere della legge che la riguarda e dei «nostri figli». Politicamente correttissimi. Così tanto che non potevano mancare gli eterosessuali. Qui il feuilleton democratico supera ogni immaginazione. Perché lui è indeciso se mettere la camicia bianca (renziana?) o giacca e cravatta. Lei, invece, più seria, vorrebbe capire «meglio la questione scuola, università e ricerca». Dialogo tra sordi. In confronto la minoranza bersaniana e i fedelissimi del segretario si intendono al volo. Superbo il sottofondo musicale. Si parte con l’Internazionale e si prosegue con una delle canzoni che fanno da colonna sonora a «Cinquanta sfumature di grigio». La trama si infittisce. State attenti. Il manifesto della Festa ha un’iconografia di tipo sovietico e l’urlo della donna è chiaro: «Una per tutti», dove «Una» immaginiamo sia la Festa. Che è per gay, lesbo ed etero. Per chi fischietta l’Internazionale. Per chi va a vedere (o legge) i porno-soft (potevano aggiungerci Fantozzi e la celeberrima «boiata pazzesca»...).
Non vorremmo esser crudeli, epperò non ci siamo dimenticati di quel 26 ottobre 1949, quando Pier Paolo Pasolini (la letteratura torna sempre) fu espulso dal Pci per «indegnità morale», scabroso capitolo su cui la storica Anna Tonelli sta indagando e di cui presto si vedranno i frutti in un volume. Oppure la persecuzione degli omosessuali in Urss. Ma lasciamo stare. Fra politicamente corretto e ritorni alle origini, fra Internazionale e porno un solo dato è chiaro: il Pd è un superfeuilleton, e non ha identità. Con una differenza. Che, cento anni fa, i romanzi d’appendice facevano cassetta...
di Francesco Ghidetti
da ilrestodelcarlino



TU QUOQUE MOGAVERO?

"SOLO UNO CHE NON E' PURO 
HA PAURA A CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME"
(Padre Turoldo)

“Non c’è alcun pericolo rispetto alla nostra identità di fede. L’Islam non vuole cancellare le radici cristiane in Occidente”. Così diceva alla Stampa il Vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero.

Poche ore dopo la sua rassicurazione dal suo buen retiro siculo, dove le case dei cristiani non sono marcate con la “N” di Nazareno, i tagliagole islamici hanno raso al suolo il monastero di Mar Ellian, costruito nel 500 d.C., disperso le ossa del Santo e sequestrato un centinaio di cristiani, uomini e donne, la cui sorte è drammatica. Sant’Elian poi  era un giovane medico originario di Homs (Siria) ucciso nel 284 per il rifiuto di rinunciare alla fede cristiana.

Mentre dal vicino oriente i cristiani e i vescovi locali supplicano l’occidente di muoversi, da noi troppe anime belle filosofeggiano foderando orecchie e croci pettorali, negando pulizie etniche e religiose e sostenendo l’insostenibile mantra del dialogo a tutti i costi e dell’islam buono. 

Un altro bel filosofo, come il Vescovo di Vittorio Veneto, trova il tempo di vietare agli Alpini la loro sacrosanta preghiera, iscrivendosi al registro di quei pacifisti sempre pronti a chinare il capo anche quando la guerra è legittima, facendo comprendere che oggi le nostre libertà (religiosa soprattutto) ci interessano meno della pace, a qualsiasi prezzo possa essere imposta.

Questi Vescovi collaborano attivamente ad un progetto che sta distruggendo i valori spirituali e culturali dell’Europa, e della cultura cristiana che l’ha generata. 

I cristiani d’oriente sono il capro espiatorio della nostra debolezza di oggi, ma il loro destino nel lungo periodo è anche il nostro.

Non chiediamoci allora per ci suona la campana del monastero di Mar Ellian, perché suona per noi.

venerdì 21 agosto 2015

LA RIDUZIONE SPIRITUALISTICA DELLA FEDE

MONS. LUIGI NEGRI E L'IDEOLOGIA ANTICATTOLICA DOMINANTE

IL CAMMINO DELLA CHIESA

È in uscita da Ares (presentazione con l’autore, intervistato da Paolo Facciotto, il 22 agosto, ore 18, a Villa Manzoni, Dogana di San Marino, promossa dalla Fondazione Internazionale Giovanni Paolo II per il magistero sociale della Chiesa) un libro scritto da mons. Luigi Negri – dal 2005 al 2012 vescovo di San Marino-Montefeltro e in seguito di Comacchio-Ferrara e Abate di Pomposa – che sferza la chiesa a guardare in faccia “contraddizioni e tradimenti” e alla “crisi di coscienza della propria identità”. 

Si è oscurata l’identità della chiesa, dice il vescovo, “è come se l’identità ecclesiale dipendesse da fattori che sono secondari quanto inefficaci, come un certo consenso della mentalità dominante, alla quale tanta ecclesiasticità corre dietro, o un certo benessere di carattere psicologico e affettivo all’interno delle nostre comunità ecclesiali che, come diceva acutamente Benedetto XVI, rischiano di diventare centri di «psicanalisi fai da te».” 
Eugene Burnard Gli Apostoli Pietro e Giovanni corrono alla tomba

E ancora: “Una Chiesa che non si ponga come un punto di contraddizione profondo, reale, dell’ideologia dominante, è una Chiesa che non rivela tutta la capacità salvifica che la fede in Cristo ha”. Sta prevalendo, incalza Negri, “una sorta di autoridimensionamento della Chiesa in termini di riduzione privatistica e intimistica”, la Chiesa è vittima di “una crisi culturale grave, ampia, molto articolata, che spezzetta la presenza cristiana in realtà ecclesiali o laiche che si contrappongono in modo ideologico e che tendono a escludersi reciprocamente, e che nel momento della massima espressione socio-politica finiscono per essere subalterne al laicismo di destra o di sinistra.”

Diciamo subito che si tratta di una storia della Chiesa scritta per il grande pubblico e in oltre 300 pagine passa in rassegna i fondamenti (cos’è la chiesa, la soggettività cristiana, il valore della tradizione, l’emergenza educativa e altro) e poi duemila anni in breve, cioè la presenza della chiesa dall’antichità al post-moderno, più alcuni approfondimenti (anche per correggere le interpretazioni anticattoliche, preoccupazione che da tempo accompagna Luigi Negri) su quelli che Negri chiama i “problemi” di storia della chiesa: le crociate, Galileo Galilei, la Rivoluzione francese, il Sillabo, i papi Pii di fronte ai totalitarismi. Tutto questo non per uno sfoggio di erudizione ma, sottolinea il vescovo, per un aiuto a vivere da cristiani l’oggi.

Ha la prefazione del card. Walter Brandmüller, che Giovanni Paolo II chiamò alla presidenza del Pontificio Comitato di scienze storiche, di cui oggi è presidente emerito. E il cardinale assicura che Negri con questo volume “offre al pubblico un capolavoro”.
“Il male che tutti vedono è visto troppo tardi”, direbbe Giovanni Papini, e mons. Negri è fra i pochi che lo sanno. Il suo sembra quindi lo sforzo di parlar chiaro per svegliare chi dorme, consapevole che i cristiani (fin dagli apostoli) hanno il sonno facile nonostante le parole di Gesù provochino “l’insonnia eterna a uno scriba” (Papini).
Negri non è angosciato dalle minacce che incombono sulla Chiesa e ripete quel che disse Gesù a Pietro: “…et portae inferi non praevalebunt”. Ma è preoccupato dell’astrazione (così la definisce) che scarnifica la fede dei cristiani e li consegna alla dòxa.

A chi è tentato dalla “riduzione psicologistica, intimistica e spiritualistica della fede”, Negri srotola davanti all’intelligenza e al cuore la categoria del “giudizio”, e chissà a quanti suonerà come qualcosa di lunare.

“Il giudizio è il confronto inevitabile fra le proprie ragioni di vita e la realtà, perciò un uomo che non giudica non è un uomo. La razionalità, infatti, si esprime nella capacità di giudicare, ossia di adeguare alla realtà il proprio intelletto per conoscerla ed entrare in essa in maniera positiva e costruttiva”, dice mons. Negri.

l meglio del pensiero cattolico (De Lubac, Guardini, Newman…) efficacemente compendiato per lettori, cattolici e non, che – Negri lo sa – non sono più imbevuti di questo humus. Il mondo post-moderno, spiega, “pullula di opinioni” e alcune sono più opinioni delle altre, “sono quelle che, essendo sostanzialmente formulazioni ideologiche, vengono considerate dai mass media, braccio armato del pensiero unico, le espressioni più adeguate. Parliamo di pluralismo equivoco o, se si preferisce, di relativismo scetticheggiante”.

Il volto soft del pensiero unico dominante è “il totalitarismo del massmediatico politicamente corretto”.
Come sta la Chiesa davanti alle sfide portate dal mondo? “Si trova certamente di fronte a una delle più gravi crisi della sua storia recente. Da un lato, è evidente che soprattutto il grande magistero recente dei Papi ha dato alla realtà ecclesiale una coscienza lucida della propria identità, e quindi della propria missione nel mondo, ma, dall’altro, è come se una sottile malattia minasse l’organismo ecclesiale e lo rendesse particolarmente debole e vulnerabile all’ideologia anticristiana dominante”.

E siccome il tema centrale è il rapporto fra fede e cultura, Negri non nasconde “che quello che è grave nella Chiesa di oggi è una sostanziale debolezza, se non equivocità, delle strutture formative ecclesiastiche responsabili della formazione del clero e di una sana intellettualità cattolica che dovrebbe essere espressione della cultura cattolica e, in forza di essa, protesa al dialogo con le varie posizioni che si profilano nella società”.

Mons. Negri fa notare che “il popolo cattolico quando è ben guidato risponde in maniera intelligente e generosa, ma a questo popolo mancano delle guide generose ed efficaci. Il clero, anziché essere la guida di questo popolo e condurlo a forme attuali di presenza e di creazione culturale, sociale e politica, sta nella retroguardia rischiando di essere fonte di equivoci, di problematicismi, di relativismi quando non di scetticismi. Il popolo, dunque, penalizzato nel suo desiderio di essere educato, perde il senso della propria identità e della propria missione”.

Negri mette in guardia anche da “equivoci e perversioni intellettuali e pastorali” figli della “separazione astratta fra dottrina e pastorale” e non tralascia “le follie del gender” tentativo di “dare un colpo di grazia definitivo alla tradizione della Chiesa, alla morale naturale e ai diritti della persona che non possono essere certo considerati come espressione della propria istintività”.

Arrivati a questo punto si capirà forse meglio l’operazione storica condotta da Negri: conoscere il dipanarsi della chiesa nei secoli “per saper rispondere alla sfida davanti alla quale ci troviamo” assumendo un punto di vista originale e non omologato: “Quella dei cristiani è stata una presenza decisiva perché, fin dall’antichità, ha introdotto nella storia, non per i propri meriti, ma per la Grazia di cui è stata investita, uno sguardo che ha saputo valorizzare, correggere e creare cultura e società, secondo una prospettiva veramente umana. Una storia, pertanto, di cui, non solo non bisogna vergognarsi, ma di cui si deve essere orgogliosi. Favorire questa consapevolezza può, sicuramente, aiutare a superare il dualismo tra fede e cultura di nuovo presente nella vita della Chiesa”.


Leggi di Più:
 Il «capolavoro» di Negri che sferza la Chiesa | Tempi.it 

giovedì 20 agosto 2015

VERITATIS SPLENDOR ENCICLICA SULLA MORALE DI SAN GIOVANNI PAOLO II, 1993



PAPA EMERITO BENEDETTO XVI



Caravaggio, La vocazione di San Matteo

L'enciclica sui problemi morali "Veritatis splendor" ha avuto bisogno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità.

La costituzione del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, di contro all'orientamento all'epoca prevalentemente giusnaturalistico della teologia morale, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fondamento biblico.

Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo. Poi andò affermandosi l'opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta validi. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede.

Scomparve così, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo posto non venne affermata alcuna concezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fondamento metafisico né uno cristologico della morale, si ricorse a soluzioni pragmatiche: a una morale fondata sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è veramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell'efficacia, è meglio o peggio.

Il grande compito che Giovanni Paolo II si diede in quell'enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell'antropologia, come anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura.

Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere.

tratto dal libro 

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