domenica 24 dicembre 2017

PADRE PIERO GHEDDO: LA CHIESA E’ MISSIONE



Mercoledì 20 dicembre è morto padre Piero Gheddo, missionario-giornalista del Pontificio Istituto Missioni estere (Pime), una delle figure più importanti del mondo missionario europeo. Aveva 89 anni, era malato da tempo e da qualche giorno era ricoverato all’ospedale San Carlo di Milano (clicca qui per la sua biografia).

Mi è difficile parlare di padre Piero Gheddo, non solo per quanto è grande la sua figura. In fondo basterebbe dire che era un uomo appassionato di Cristo e della Chiesa, desideroso di comunicarlo a tutti gli uomini e che ha dedicato tutta la sua vita, fino all’ultimo giorno, per questo. Come ciò si sia realizzato concretamente ognuno può leggerselo nella breve biografia che gli ha dedicato il suo confratello padre Bernardo Cervellera (clicca qui) o leggendo i numerosissimi libri che ha scritto e ci ha lasciato in eredità.
Ma è difficile soprattutto perché non mi è possibile parlare di padre Gheddosenza riprendere in mano la mia vita, tanto importante è stata la sua compagnia: non c’è dubbio che non sarei quel che sono oggi senza quell’incontro provvidenziale. Sono tanti e tali i ricordi e le immagini che affollano ora la mia mente che è difficile dargli un ordine. Non posso però dimenticare che la mia attività giornalistica è iniziata proprio con la sua proposta di fargli da redattore per l’agenzia Asia News che lui stava lanciando. Erano i primi mesi del 1987, Asia News nasceva come quindicinale cartaceo; quella proposta ha indirizzato decisamente e definitivamente la mia vita che in un momento complesso avrebbe potuto prendere direzioni ben diverse.
Padre Gheddo non è stato soltanto un direttore, un datore di lavoro, ma un vero maestro, attento non solo alla redazione degli articoli ma a tutta la vita dei suoi collaboratori. A lui potevi affidare anche le tue scoperte, le tue difficoltà nella vita non perché fosse un prete, ma soprattutto perché era un padre che aveva a cuore la tua santità anzitutto.
Conoscendolo appariva improvvisamente chiaro cosa significasse l’invito di Gesù a tornare come bambini. Era ultraottantenne eppure avevi sempre l’impressione di avere davanti un fanciullo, sempre teso a imparare, sempre colmo di stupore davanti alle opere in cui Dio si manifestava. Aveva girato tutto il mondo e più di una volta, era passato attraverso avventure e rischi di ogni tipo, aveva conosciuto tutte le situazioni più dure ed aveva toccato con mano le tragedie più grandi che possono capitare agli uomini, aveva dovuto affrontare anche l’incomprensione e l’ostracismo di tanti cattolici ed ecclesiastici per la sua cocciutaggine a raccontare la verità, aveva visto soprattutto e testimoniato la crescita della Chiesa nelle più diverse culture e realtà. Si può dire che avesse visto e ascoltato di tutto, eppure era lì che ti ascoltava sempre come se gli stessi raccontando chissà quale novità, sempre pieno di stupore davanti a ogni vita che gli si presentava davanti.
Tale era la sua passione per Cristo che, negli ultimi anni, quando ancora poteva tenere incontri pubblici non riusciva a non commuoversi profondamente parlando delle cose grandi che Dio compiva nella sua vita e nella vita delle persone che aveva incontrato.

La missione ad gentes, in fondo, era solo la logica conseguenza di questa passione: non poteva concepire una vita cristiana che non si concretizzasse nel desiderio di comunicare Cristo a tutti gli uomini. Da qui tante delle polemiche che ha dovuto sostenere nella sua vita con chi tendeva sempre a ridurre la missione a opera sociale, a "promozione umana" che andava di moda dire. Basta leggere i suoi ultimi post nel suo blog per capire che tale tensione alla missione si è sempre conservata intatta, e resta una provocazione per tutti noi.

RICCARDO CASCIOLI

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