Trovo illuminante la decisione della scuola milanese «Italo Calvino» di
chiamare la festa di Natale «grande festa delle Buone Feste» per non urtare la
sensibilità di chi non festeggia il Natale.
Ispirandomi a questo fulgido esempio di
apertura, smetterò di festeggiare il mio compleanno perché mangiare una fetta
della mia torta preferita in presenza di altre persone sarebbe un’ingiuria nei
confronti di quelle che non sono nate il mio stesso giorno: la maggioranza,
temo.
«Grande festa delle Buone Feste» è un
primo passo, ma ancora non basta. Intanto la parola «grande» discrimina con
ogni evidenza le altre feste. Si è calcolato quale enorme danno può produrre
nella psiche di un bambino la decisione arrogante, tipica della mentalità
competitiva occidentale, di stabilire una gerarchia tra feste presunte «grandi»
e feste medie, medio-piccole, festicciole e, non sia mai, festini?
Ma è la parola «festa» in sé a suonare
irrispettosa verso chi non ha niente da festeggiare. Si pretende di imporre
anche a costui una festa, anzi «la grande festa», anzi «la grande festa delle
Buone Feste».
E perché mai dovrebbero essere «buone»,
di grazia? Se uno volesse delle feste «cattive» dovrebbe sentirsi escluso,
magari additato come un diverso?
Esiste un
modo infallibile di non offendere la sensibilità degli altri ed è smettere di
averne una propria.
Ci stiamo arrivando. Nel mondo slavato dei non
luoghi e delle non identità, l’unica soluzione possibile è la negazione
perpetua. Non auguri di non buone feste di non Natale a tutti (e non).
Giovedì 14 dicembre 2017
CORRIERE DELLA SE RA
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