Mercoledì 20 dicembre è morto padre Piero Gheddo, missionario-giornalista del
Pontificio Istituto Missioni estere (Pime), una delle figure più importanti del
mondo missionario europeo. Aveva 89 anni, era malato da tempo e da qualche
giorno era ricoverato all’ospedale San Carlo di Milano (clicca qui per
la sua biografia).
Mi è difficile
parlare di padre Piero Gheddo, non
solo per quanto è grande la sua figura. In fondo basterebbe dire che era un
uomo appassionato di Cristo e della Chiesa, desideroso di comunicarlo a tutti
gli uomini e che ha dedicato tutta la sua vita, fino all’ultimo giorno, per
questo. Come ciò si sia realizzato concretamente ognuno può leggerselo nella
breve biografia che gli ha dedicato il suo confratello padre Bernardo
Cervellera (clicca qui) o leggendo i numerosissimi libri che ha scritto e
ci ha lasciato in eredità.
Ma è difficile
soprattutto perché non mi è possibile parlare di padre Gheddosenza riprendere in mano la mia vita, tanto importante è stata la sua
compagnia: non c’è dubbio che non sarei quel che sono oggi senza quell’incontro
provvidenziale. Sono tanti e tali i ricordi e le immagini che affollano ora la
mia mente che è difficile dargli un ordine. Non posso però dimenticare che la
mia attività giornalistica è iniziata proprio con la sua proposta di fargli da
redattore per l’agenzia Asia News che lui stava lanciando. Erano i
primi mesi del 1987, Asia News nasceva come quindicinale cartaceo; quella proposta ha
indirizzato decisamente e definitivamente la mia vita che in un momento
complesso avrebbe potuto prendere direzioni ben diverse.
Padre Gheddo
non è stato soltanto un direttore, un
datore di lavoro, ma un vero maestro, attento non solo alla redazione degli
articoli ma a tutta la vita dei suoi collaboratori. A lui potevi affidare anche
le tue scoperte, le tue difficoltà nella vita non perché fosse un prete, ma
soprattutto perché era un padre che aveva a cuore la tua santità anzitutto.
Conoscendolo
appariva improvvisamente chiaro cosa
significasse l’invito di Gesù a tornare come bambini. Era ultraottantenne
eppure avevi sempre l’impressione di avere davanti un fanciullo, sempre teso a
imparare, sempre colmo di stupore davanti alle opere in cui Dio si manifestava.
Aveva girato tutto il mondo e più di una volta, era passato attraverso
avventure e rischi di ogni tipo, aveva conosciuto tutte le situazioni più dure
ed aveva toccato con mano le tragedie più grandi che possono capitare agli
uomini, aveva dovuto affrontare anche l’incomprensione e l’ostracismo di tanti
cattolici ed ecclesiastici per la sua cocciutaggine a raccontare la verità,
aveva visto soprattutto e testimoniato la crescita della Chiesa nelle più
diverse culture e realtà. Si può dire che avesse visto e ascoltato di tutto,
eppure era lì che ti ascoltava sempre come se gli stessi raccontando chissà
quale novità, sempre pieno di stupore davanti a ogni vita che gli si presentava
davanti.
Tale era la sua
passione per Cristo che, negli ultimi anni, quando
ancora poteva tenere incontri pubblici non riusciva a non commuoversi
profondamente parlando delle cose grandi che Dio compiva nella sua vita e nella
vita delle persone che aveva incontrato.
La
missione ad gentes, in fondo, era solo la logica conseguenza di questa passione: non poteva concepire una vita cristiana che non
si concretizzasse nel desiderio di comunicare Cristo a tutti gli uomini. Da qui
tante delle polemiche che ha dovuto sostenere nella sua vita con chi tendeva sempre
a ridurre la missione a opera sociale, a "promozione umana" che
andava di moda dire. Basta leggere i suoi ultimi post nel suo blog per
capire che tale tensione alla missione si è sempre conservata intatta, e resta
una provocazione per tutti noi.
RICCARDO CASCIOLI
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